lunedì 30 novembre 2009

È morto lo storico gesuita Pierre Blet per sessant'anni al servizio della Santa Sede (Riccardi, Levillain e Alessandrini)


Vedi anche:

Il Papa: "L'analisi dei fenomeni se rimane rinchiusa in se stessa rischia di far apparire il cosmo come un enigma insolubile: la materia possiede un'intelligibilità in grado di parlare all'intelligenza dell'uomo e indicare una strada che va al di là del semplice fenomeno. È la lezione di Galileo che conduce a questa considerazione" (Messaggio in occasione del convegno "Dal telescopio di Galileo alla cosmologia evolutiva. Scienza, Filosofia e teologia in dialogo")

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Considerazioni che vanno oltre il dibattito sul Crocifisso sì/Crocifisso no (Salvatore Gentile e Nicola Bux)

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È morto lo storico gesuita Pierre Blet per sessant'anni al servizio della Santa Sede

Intellettualmente nel cuore del cattolicesimo

di Andrea Riccardi

"Leggete padre Blet" - rispose Giovanni Paolo II ai giornalisti che lo interrogavano su Pio XII e la sua politica durante la seconda guerra mondiale. Papa Wojtyla veniva dalla Chiesa polacca, che non solo aveva sofferto durante l'occupazione tedesca, ma aveva vissuto problemi di comunicazione con Roma, anzi era stata investita dalla propaganda nazista che ritraeva Papa Pacelli lontano dai polacchi. Giovanni Paolo II conosceva la drammaticità e la complessità dei problemi della Chiesa durante l'ultima guerra mondiale e per questo aveva detto: "Leggete padre Blet". Infatti Pierre Blet era tutt'altro che uno scrittore di corte, qualcuno per cui la storia coincideva con l'interesse della sua istituzione, come è stato troppo a lungo pensato. È stato uno storico attento alla complessità, un ricercatore che non prescindeva mai da una scrupolosa inchiesta negli archivi. Si è spento a più di novant'anni, ma non ha perso mai la passione per il dibattito storico. Recentemente, in un'ultima intervista sui "silenzi" di Pio XII, rispondeva a chi gli chiedeva che cosa si troverà negli archivi vaticani al momento della loro apertura: "Troveranno che non abbiamo nascosto niente".
Pierre Blet era stato uno dei quattro storici gesuiti, chiamati da Paolo VI, a pubblicare i documenti vaticani sulla seconda guerra mondiale, a seguito delle polemiche sui "silenzi" di Pio XII all'inizio degli anni Sessanta. Papa Montini aveva preso una decisione coraggiosa, che avrebbe portato alla stampa di dodici ponderosi volumi contenenti i documenti della Santa Sede tra il 1939 e il 1945. Sono una fonte essenziale per chi vuole ricostruire non solo la storia della Chiesa in quel periodo, ma anche per chi vuol fare la storia della guerra in tutti i suoi risvolti diplomatici, sociali, religiosi. L'obiezione fatta all'opera dei quattro gesuiti (conclusa con la stampa dell'ultimo volume nel 1981) è che non può sostituire il contatto diretto con la documentazione. È vero che la ricerca in archivio è altra cosa rispetto all'utilizzo delle fonti a stampa; ma si può star certi che i gesuiti hanno fatto un lavoro scrupoloso e onesto, anche quando qualche documento da pubblicare non era del tutto favorevole all'esaltazione del lavoro della Santa Sede.
La scelta di far conoscere la documentazione della Santa Sede fu un atto di coraggio e di fiducia nella storia da parte di Papa Montini, se si pensa che i primi volumi videro la luce a meno di dieci anni dalla morte di Pio XII. Paolo VI, stretto collaboratore di papa Pacelli durante la guerra, era convinto, anche per esperienza diretta, che la Santa Sede avesse fatto la scelta più giusta in quei frangenti. Qualche volta l'utilizzazione dei documenti pubblicati dai gesuiti avrebbe giovato alla ricerca storica, spesso diffidente verso questa fonte. Del resto basta scorrere i dodici volumi sulla Santa Sede e la guerra mondiale, per accorgersi - anche solo per il ponderoso apparato critico - della serietà e del rigore del lavoro fatto dai quattro storici gesuiti.
Padre Blet è stato uno storico della Santa Sede, nel senso che si è collocato intellettualmente nel cuore della Chiesa cattolica. Ha prestato tanti servizi alla Chiesa: è stato consultato su numerosi problemi, ha insegnato non solo nella Pontificia Università Gregoriana, ma ha anche formato i giovani ecclesiastici che si preparavano al servizio internazionale della Santa Sede. Era un uomo che conosceva bene la storia e il presente del governo centrale della Chiesa, erudito e saggio. Aveva il senso alto del servizio alla Chiesa, maturato in tanti anni di impegno umile e fattivo. La sua convinta appartenenza alla Santa Sede non significa che fosse uno storico di parte o un apologeta incapace di vedere la realtà. Rifiutava però un approccio sensazionalistico e scandalistico alla storia di un'istituzione di cui conosceva la complessità, le fragilità e le grandezze.
La sua vita era estremamente ritirata, a differenza del suo confratello Robert Graham, amante più di lui di dibattiti e incontri. Una volta incontrai Blet in una commissione di tesi all'università di Nanterre in Francia, dove entrambi eravamo invitati dall'amico, lo storico Philippe Levillain. Il gesuita mi disse: "Sono un uomo discreto".
Lo era. Aveva cominciato a parlare, rilasciando interviste, soltanto quando si era sentito la responsabilità di essere l'ultimo testimone di quella grande ricerca sugli archivi di Pio XII. Era così uscito dal suo abituale riserbo. Lo ha fatto sino alla fine con un'ultima intervista, perché convinto che il dibattito pubblico non rendesse giustizia alla verità della storia di Papa Pacelli e della Chiesa durante la seconda guerra mondiale. Su questa vicenda aveva pubblicato un volume in cui richiamava all'esigenza di stare ai fatti e ai documenti, ma anche di considerare il contesto internazionale in cui la Santa Sede venne a operare dal 1939.
Uomo con un alto senso della Chiesa, padre Blet non era uno storico di parte, proprio perché veniva da una scuola che l'aveva educato a stare ai documenti e ai fatti. Non era nato come storico dell'età contemporanea, ma veniva da una tradizione di ricerca sul lungo periodo, specie sull'età moderna. Aveva pubblicato vari studi sulla vicenda del clero francese tra Seicento e Settecento, durante il regno di Luigi xiv, servendosi della documentazione delle assemblee del clero e di altro prezioso materiale. Da questa esperienza traeva un rigore nella ricerca e nell'uso degli archivi. Era anche un esperto della diplomazia pontificia, di cui aveva tracciato un ampio panorama dalle origini sino all'inizio dell'Ottocento. Studioso dell'età moderna e delle relazioni internazionali, aduso a complesse ricerche archivistiche, padre Blet affrontò gli anni di Pio XII con la convinzione, maturata nelle lunghe frequentazioni delle carte della Santa Sede, che la Chiesa non avesse nulla da temere dalla storia. È la convinzione di una scuola di storici ecclesiastici che, dall'apertura degli archivi vaticani con Leone XIII, unisce rigore scientifico alla passione per la Chiesa. Questa tradizione perde, con la morte di padre Blet, un insigne esponente.

(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 1 dicembre 2009)

Non c'è Chiesa senza Roma

di Philippe Levillain

Padre Blet aveva un nome: Pierre. Veniva utilizzato raramente. Si diceva semplicemente padre Blet. Eppure era tutto lì, nella tessitura onomastica del membro della Compagnia di Gesù, nella quale era entrato nel 1937, dedicandosi al servizio di Pietro. È questa obbedienza ai voti dell'ordine da lui scelto che lo avrebbe portato ad accettare di partecipare in modo rilevante all'edizione degli Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, voluta da Paolo VI dopo le insinuazioni spettacolari del Vicario di Rolf Hochhut nel 1964, che stigmatizzavano Pio XII per la sua complicità nello sterminio del popolo ebreaico, la Shoah.
Nato il 18 novembre 1918, padre Blet nel 1950 venne chiamato come professore di storia moderna presso la Facoltà di storia ecclesiastica della Pontificia Università Gregoriana. Visse intensamente gli anni di Pio XII. Insegnò storia diplomatica presso la Pontificia Accademia Ecclesiastica dal 1965 al 1995 e formò molti grandi diplomatici della Santa Sede in seno a una istituzione un tempo detta l'Accademia dei nobili ecclesiastici. La matrice del suo pensiero in termini di Chiesa si colloca nella tesi sostenuta nel 1959: Le Clergé de France et la monarchie. Étude sur les assemblées Générales du clergé de 1615 à 1666. Padre Blet aveva visto giusto: non c'è Chiesa senza Roma. La monarchia aveva bisogno di consulenze. In modo spontaneo padre Blet formava un collegamento tra la diplomazia, la Santa Sede e il temperamento francese.
La sua grande opera, pubblicata nel 1962, su Girolamo Ragazzoni, vescovo di Bergamo, testimoniava questa straordinaria capacità dello sguardo di Roma su un mondo lacerato. La visione di Giovanni XXIII vi aveva contribuito. Come Papa, nonostante la brevità del pontificato.
La ricca opera di Padre Blet, il cui ultimo libro Richelieu et l'Église Bruxelles, André Versaille éditeur, 2007) ha riscosso un grande successo in Francia, non basta a dare conto della sua sorprendente personalità. Uomo pio, modesto, sempre accogliente, sempre sorpreso dall'interesse che gli veniva mostrato, padre Blet viveva alla Gregoriana la pienezza della vita al quarto piano dal lungo corridoio dove accompagnava gli ospiti con la massima cortesia. Parlava di cose importanti e, soprattutto, verso la fine della sua vita si preoccupava che venisse compresa quale fosse la forma di santità di Pio XII, Papa disperato, Papa sacrificato alla ragione di Stato: quella dello stato del cristianesimo, che forse sarebbe morto. Affrontava gli eventi con serenità, era fiducioso. È così che ha accettato con calma l'ordine storico delle sue convinzioni.

(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 1 dicembre 2009)

Esperto non solo di Pio XII

Noto universalmente per i suoi studi su Pio XII e la seconda guerra mondiale padre Pierre Blet oltre all'opera monumentale in dodici volumi Actes et Documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale redatta in collaborazione con Robert Graham, Angelo Martini, Burkhart Schneider (Città del Vaticano, Libreria editrice Vaticana, 1965-1982) è autore del volume Pie XII et la Seconde guerre mondiale d'après les archives du Vatican (Paris, Perrin, 1997).
Ma il gesuita Blet era anzitutto un modernista. Ecco alcuni titoli della sua bibliografia: Le Clergé de France et la monarchie. Étude sur les assemblées Générales du clergé de 1615 à 1666, (Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1959); Girolamo Ragazzoni évêque de Bergame nonce en France. Correspondance de sa nonciature 1583-1586, (Paris-Rome, De Boccard - Université Grégorienne, 1962); Correspondace du nonce en France Ranuccio Scotti 1639-1641, (Paris-Rome, De Boccard - Université Grégorienne, 1965); Les Assemblées du clergé et Louis XIV de 1670 à 1693 (Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1972); Histoire de la représentation diplomatique du Saint-Siège des origines à l'aube du XIX siècle (Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 1982 e 1990); Le Clergé de France, Louis XIV et le Saint-Siège de 1695 à 1715, (Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 1989); Le Clergé du Grand Siècle en ses assemblées, (Paris, Cerf, 1995).

(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 1 dicembre 2009)

E il Re Sole tramontò davanti a Papa Pacelli

di Raffaele Alessandrini

"Padre Blet in ospedale? L'ho trovato lucidissimo, pieno di vita nonostante le sue serie condizioni di salute. Era davvero molto divertito dal cancan mediatico suscitato dalle sue dichiarazioni su Pio XII e sulla Humani generis unitas, di cui, giorno dopo giorno, era aggiornato dal confratello Peter Gumpel, il postulatore della causa di canonizzazione di Pio XII". Così Filippo Rizzi, il collega di "Avvenire" al quale lo storico gesuita aveva rilasciato pochi giorni fa la sua ultima intervista, racconta al nostro giornale le sue impressioni e i suoi ricordi a caldo sulla notizia, appena giunta, della morte dell'ultimo dei quattro studiosi della Compagnia di Gesù che per incarico di Paolo VI curarono la pubblicazione dei dodici volumi degli Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1965-1982). Dopo la morte dei padri Burkhart Schneider (1976) e Angelo Martini (1981) i superstiti dell'impresa erano stati Robert Graham - che, sul finire del 1981, aveva con fierezza potuto scrivere a un vecchio amico giornalista: "Missione compiuta. Due morti" - e proprio lui, Pierre Blet. Padre Graham sarebbe morto nel 1997, dopo quindici intensi anni di studi e approfondimenti. Sulla breccia sarebbe rimasto solo padre Blet. Proprio lui che era il meno contemporaneista dei quattro storici. Agli inizi, come raccontava, aveva accettato l'incarico per obbedienza. I suoi interessi specifici riguardavano soprattutto la Francia del Seicento, del Re Sole e di Richelieu, come dimostra ampiamente la sua bibliografia. Eppure il gesuita francese si sarebbe grandemente appassionato della figura di Pio XII. Un Papa il cui atteggiamento accorto, di riservato e operoso "silenzio" - ricordava Blet in questi ultimi giorni - avrebbe avuto un significativo riconoscimento anche da Martin Gilbert, il biografo di Winston Churchill. Per Gilbert infatti proprio l'atteggiamento di Pio XII fu decisivo per la salvezza di un grande numero di ebrei dallo sterminio. Padre Blet, come ricorda ancora Rizzi, dopo essersi tanto dedicato agli anni della guerra, sperava di poter scrivere una sintesi del pontificato di Papa Pacelli. Studiando le sue encicliche era certo di vedere in lui l'autentico precursore del concilio Vaticano II.

(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 1 dicembre 2009)

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Su segnalazione di Eufemia leggiamo:

Missili e campanili

FRANCO CARDINI

Non c’è bisogno di aver letto Landscape and Memory (1995) di Simon Schama sulla storia del paesaggio per sapere che ambienti e landscapes si modificano col tempo.
Anche e soprattutto grazie all’opera dell’uomo: e che poco c’è in essi di puramente «naturale», niente di definitivamente «bello». Agli antichi elvezi, probabilmente, le torri e i templi dei romani sulle prime non piacevano affatto; e, agli elvezi romanizzati, non dovevan garbare granché i campanili. Che quindi qualche minareto avrebbe davvero compromesso l’armonioso paesaggio svizzero, con i suoi laghi e i suoi pascoli, è lecito dubitare. Le ragioni del «sì» degli abitanti della felice Confederazione Elvetica al referendum sul bando alla costruzione delle torri da cui si chiamano i musulmani alla preghiera debbono essere anche altre.
«Simboli del potere islamico», è stato detto. Ma quale potere? Un campanile cattolico in Svezia significa forse che quel Paese è passato al papismo? I templi buddhisti di New York simboleggiano il passaggio degli States alla fede in Gautama Siddharta? E la monumentale sinagoga di Roma significa forse che la Città Eterna è in mano agli ebrei? «Niente minareti se non c’è reciprocità», ha cristianamente sentenziato qualcuno. Ma di quale reciprocità si tratta? Di campanili cristiani molti Paesi musulmani abbondano: dalla Turchia alla Siria alla Giordania all’Egitto all’Algeria; e il fatto che il re dell’Arabia Saudita ne vieti la costruzione autorizza forse moralmente gli svizzeri a negare un minareto a una comunità musulmana fatta di turchi o di maghrebini, che col monarca wahhabita non hanno proprio nulla a che fare?
Ma le moschee sono fonte d’inquinamento fondamentalista, proclama qualcun altro. Dal che s’inferisce che l’unico modo per controllare e contrastare il fondamentalismo sia quello di umiliare molte decine di migliaia di credenti rifiutando loro un simbolo di libertà religiosa. E’ arrivata a questo, la nostra regressione verso l’intolleranza?
Giratela come volete: ma il risultato del referendum svizzero è un altro tassello nell’allarmante puzzle della perdita delle virtù di tolleranza e di ragionevolezza di cui l’Europa e il mondo occidentale stanno dando di questi tempi prove sempre più chiare. E che questa febbre sia grave è prova il contestuale rifiuto, opposto dal medesimo popolo svizzero, all’altro referendum, che gli chiedeva il divieto dell’esportazione di armi e materiale bellico al fine di sostenere lo sforzo internazionale per il disarmo. Qui, di fronte a ovvi motivi di ben concreto interesse economico, il popolo per definizione più pacifico d’Europa - ma anche quello militarmente parlando meglio esercitato - ha rifiutato di arrestare il «commercio di morte». E’ vero, le armi fanno male alla gente. Ma in fondo anche il tabacco e gli alcolici: e allora perché non continuarne produzione e vendita, magari con l’apposizione di qualche scritta d’avvertimento (tipo: «Sparare al prossimo fa male anche a te»)?
C’è del metodo, in questa follia. Curioso che il minareto somigli dannatamente a un missile, o anche a un bel proiettile lucente di fucile. I Mani di Charlton Heston, ex Mosè, ex Ben Hur, che tra 1998 e 2003 fu presidente dell’americana National Rifle Association, ne saranno estasiati. Lo ricordate, senescente eppur fiero della sua armeria simbolo di libertà, nel Bowling for Columbine di Michael Moore? Chi oggi esulta per l’esito del doppio referendum svizzero può prendere il vecchio Charlton a emblema del suo trionfo. A questo punto, per il momento, è arrivata la nostra notte.

© Copyright La Stampa, 30 novembre 2009 consultabile online anche qui.

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ISLAM: BANDO MINARETI DELUDE VESCOVI SVIZZERI MA LEFEBVRIANI SODDISFATTI

(ASCA) - Roma, 30 ott

''Un ostacolo e una grande sfida sul cammino dell'integrazione nel dialogo e nel rispetto reciproco'': commentano cosi' i vescovi svizzeri la vittoria del si' nel referendum che proponeva il bando alla costruzione di minareti nel Paese elvetico.
I vescovi si erano impegnati, a fianco delle Chiese protestanti e naturalmente della comunita' musulmana, perche' la proposta di legge fosse respinta.
L'esito delle urne e' stato invece diverso e i vescovi assicurano di ''averne preso atto con grande attenzione''.
''Evidentemente - scrivono - non siamo riusciti a mostrare al popolo che il divieto alla costruzione dei minareti non contribuisce ad una sana coabitazione delle religioni e delle culture, ma al contrario la deteriora''. La campagna referendaria, per i vescovi, ''con le sue esagerazioni e caricature'', ha mostrato che ''la pace religiosa non viene da se' e va sempre difesa''. Il si' al referendum ''aumenta i problemi di coabitazione tra le religioni e le culture'' e non aiutera' ''i cristiani perseguitati e oppressi nei Paesi islamici'', anzi ''diminuisce la credibilita' del loro impegno in quei Paesi''.
Adesso, concludono i presuli, ''la sfida principale e' quella di ridare alla popolazione la fiducia necessaria nel nostro ordine giuridico e un'attenzione adeguata agli interessi di tutti''.

Soddisfatta, invece, la lefebvriana Fraternita' Sacerdotale San Pio X, che proprio in Svizzera, ad Econe, ha il suo quartier generale.
In un comunicato diffuso alla vigilia del voto, la Fraternita' aveva ''invitato tutte le persone di buona volonta' a non sostenere la propagazione della dottrina islamica e a votare si' all'iniziativa contro la costruzione dei minareti''. ''La dottrina islamica - aveva affermato il distretto svizzero dei lefebvriani - non e' ammissibile per chi la conosca. Come infatti si potrebbe incoraggiare la diffusione di un sistema di pensiero che incita i mariti a picchiare le loro mogli, i 'fedeli' a massacrare gli 'infedeli', la giustizia a praticare punizioni e mutilazioni corporali , e l'insieme dei musulmani a respingere ebrei e cristiani'?''. I lefebvriani aveva criticato anche la posizione dei vescovi svizzeri, che ''radicati nella piu' retta linea di quei testi del Concilio Vaticano II che la Fraternita' non smette di contestare dalla sua fondazione, contravvengono alla dottrina tradizionale e alla missione apostolica della Chiesa cattolica al punto di arrivare, nell'oblio totale del primo Comandamento, a mettere sullo stesso piano la parola di Colui che ci chiede di amare i nostri nemici e quella di colui che ci ordina di metterli a morte''.

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Il no ai minareti in Svizzera: critiche dai vescovi e dall’Ue

La presidenza di turno svedese dell'Ue ha espresso sorpresa e rammarico per lo svolgimento del referendum con il quale ieri gli svizzeri hanno detto "no" alla costruzione di nuovi minareti sul loro territorio. Secondo i risultati ufficiali del referendum, promosso dalla destra nazional-conservatrice, il 57,5% degli elettori si è espresso contro. Il ministro svizzero di Giustizia e Polizia, Eveline Widmer-Schlump, ha sottolineato: "La decisione riguarda soltanto l'edificazione di nuovi minareti e non significa un rifiuto della comunità dei musulmani, della loro religione e della loro cultura. Il governo se ne fa garante". Per i vescovi svizzeri, si tratta di un duro colpo all’integrazione e alla libertà di religione. Nell’intervista di Massimiliano Menichetti, la riflessione di mons. Felix Gmür, segretario generale della Conferenza episcopale svizzera:

R. - I vescovi non sono contenti, è un colpo alla libertà di religione. Il Concilio Vaticano II dice chiaramente che è lecito per tutte le religioni la costruzione di edifici religiosi e il minareto è un edificio religioso. E’ un colpo all’integrazione di tutti quelli che vengono in Svizzera.

D. - Perché si è arrivati a vietare la costruzione dei minareti?

R. – Perché la gente ha paura di chi viene da lontano, di chi non si capisce. Poi c’è stata una propaganda assai forte, non hanno parlato solo di minareti ma hanno parlato degli estremisti… Dunque la gente ha paura e adesso si chiude.

D. - Come si vince la paura, secondo lei, per poter cambiare le cose?

R. – Si vince quando si vive insieme perché a Basilea, città dove c’è la percentuale più grande di musulmani in Svizzera, loro hanno respinto l’iniziativa. Pure a Ginevra, dove ci sono tanti musulmani. Hanno vietato la costruzione soprattutto nei cantoni dove ci sono pochi musulmani. Sempre la stessa situazione, quello che non si conosce si respinge.

D. – Voi ribadite: in questo momento è necessario sottolineare che la religione non è un fatto privato, perché secondo voi questo aspetto ha avuto delle ricadute anche sul referendum sui minareti…

R. – Perché quelli che erano per l’iniziativa hanno detto: la religione è una cosa privata. Dunque, loro possono pregare dove vogliono ma non con un minareto in pubblico. Nello stesso tempo dicono: la nostra cultura è cristiana. Ma dire che la cultura è cristiana non è un fatto privato ma pubblico! Qui si deve fare un dibattito perché la società su questo punto è un po’ disorientata, c’è una contraddizione che forse c’è un po’ in tutte le società europee. Anche per quanto riguarda i crocifissi in Italia è la stessa cosa, dicono: è un affare privato

D. – Qual è il vostro appello come vescovo?

R. – Che adesso, ancora di più, dobbiamo aiutare i cristiani nei Paesi musulmani, perché lì i cristiani non sono liberi, non possono costruire chiese, non possono pregare in luoghi pubblici. Adesso, ancora di più, dobbiamo lottare per questi cristiani.

Ma, ieri, gli aventi diritto al voto in Svizzera sono stati chiamati anche a pronunciarsi su un quesito relativo all’esportazione di armi. Fausta Speranza ne ha parlato con Maurizio Simoncelli dell’Archivio Disarmo:

R. – In Svizzera, in realtà, è già la terza volta che viene affrontato il problema della messa al bando dell’esportazione delle armi: la prima volta era avvenuto agli inizi degli anni Settanta, dove si arrivò addirittura ad un 49 per cento di voti a favore della messa al bando; nel ’97 è stato nuovamente riproposto, ma ugualmente è fallito; ed ora, nuovamente, con il 68,2 per cento dei voti è stato bocciato. Sostanzialmente si chiedeva un impegno della Confederazione nel campo del disarmo e del controllo degli armamenti a livello internazionale e veniva richiesto il divieto di esportazione di transito attraverso la Svizzera di materiale bellico, comprese le relative tecnologie che possono servire alla produzione degli armamenti. Si chiedeva anche un intervento della Confederazione nei confronti di quei distretti, di quelle persone e di quegli addetti che avrebbero risentito ovviamente di questo divieto, ma purtroppo tutto questo non è passato. La Svizzera rimane uno dei principali esportatori di armamenti a livello mondiale. Non è certamente uno dei grandi produttori: siamo intorno al 14.mo posto, ma in realtà contribuisce con un uno per cento della produzione mondiale. Comunque non è poco: parliamo di circa 1.262 milioni di dollari esportati nel quinquennio 2004-2008.

D. – Un voto locale ma che apre a una riflessione di ordine generale…

R. – Anzitutto ha coinciso con il voto contro la costruzione dei minareti. Quindi, sembra emergere che si teme più l’invasione dell’Islam, attraverso i minareti e quant’altro, piuttosto che la vendita delle armi. Il problema di fondo, comunque, è che tutti gli Stati devono operare in sintonia nel campo del controllo degli armamenti. Personalmente, non credo che iniziative di un singolo Paese riescano a risolvere il problema della produzione degli armamenti e del commercio indiscriminato. Ovviamente non sono contrario, ma ritengo che se un Paese non vende armamenti, ci sarà certamente qualche altro Paese che prenderà il suo posto. Da questo punto di vista è, invece, importantissimo operare affinché la Comunità internazionale, la maggior parte dei Paesi, adotti una normativa internazionale per la produzione e il commercio degli armamenti. Pensiamo alle normative che si stanno adottando a livello dell’Unione Europea con il Codice di Condotta e le nuove normative che sono in fase di elaborazione. Pensiamo al Trattato internazionale per il commercio degli armamenti, indicato con la sigla Att. Le Nazioni Unite si stanno impegnando per averlo nel 2012. Bisogna operare a livello internazionale.

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Accostare i minareti ai Crocifissi mi pare un'operazione quantomeno discutibile. I vescovi riflettano piuttosto sulla necessita' dell'evangelizzazione dei Cattolici.
R.

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I vescovi africani: la Chiesa non è seconda a nessuno nella lotta all'Aids

“La Chiesa non è seconda a nessuno nell’affrontare l’Hiv in Africa e nel prendersi cura delle persone sieropositive malate di Aids”.
E’ quanto si legge nel messaggio del Simposio delle Conferenze episcopali d’Africa e Madagascar (Secam) per la Giornata Mondiale contro l’Aids che si celebrerà domani. Questa malattia – scrivono i vescovi - continua ad essere devastante ma “non è più tra i temi prioritari nell’agenda dei governi, della società civile e delle organizzazioni internazionali”.
“L’assistenza – si legge inoltre nel messaggio ripreso dall’agenzia Fides – è assolutamente più che mai necessaria: il virus Hiv e l’Aids non sono scomparsi”. L’idea che le cure siano ora disponibili per tutti è falsa: solo un terzo di coloro che necessitano di cure le ricevono. “Dopo due anni dall’inizio del trattamento – sottolineano i presuli – solo il 60% di queste persone continuano ad essere curate”. La pandemia compromette inoltre lo sviluppo e la giustizia: “La crisi economica mondiale e la recessione – si ricorda nel documento – hanno un impatto negativo”. L’aumento dei prezzi del cibo e degli altri beni di base ostacola il progresso della terapia. “Solo una strategia basata sull’educazione alla responsabilità individuale nel quadro di una visione morale della sessualità umana, in particolare attraverso la fedeltà coniugale – concludono i vescovi del Secam – può avere un impatto reale sulla prevenzione di questa malattia”.
Anche Benedetto XVI ieri all’Angelus ha ricordato la Giornata mondiale contro l’Aids.
Il pensiero del Papa è per ogni persona colpita da questa malattia: “La Chiesa – ha detto il Santo Padre - non cessa di prodigarsi per combattere l’Aids, attraverso le sue istituzioni e il personale a ciò dedicato”. “Esorto tutti - ha aggiunto - a dare il proprio contributo con la preghiera e l’attenzione concreta, affinché quanti sono affetti dal virus Hiv sperimentino la presenza del Signore che dona conforto e speranza. Auspico infine che, moltiplicando e coordinando gli sforzi, si giunga a fermare e debellare questa malattia”. Alla vigilia della Giornata, infine, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e il Programma dell’Onu sull’Hiv/Aids e Unaids hanno reso note le stime della malattia a livello mondiale. Ammontano a 33,4 milioni di persone portatrici del virus dell’Hiv nel mondo. Il dato è in crescita rispetto a 2 anni fa. Il rapporto sottolinea che i connotati dell’epidemia stanno mutando e che le varie forme di prevenzione non sono certo adeguate a questo cambiamento.

(A cura di Amedeo Lomonaco)

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Pupi Avati: una dichiarazione d’amore del Papa agli artisti

Intervista con il regista italiano

di Silvia Gattas

ROMA, lunedì, 30 novembre 2009 (ZENIT.org).

Il regista Pupi Avati è uno dei 260 artisti che il 21 novembre scorso hanno partecipato all’incontro con Papa Benedetto XVI in Vaticano. La Cappella Sistina, con le sue volte michelangiolesche e i suoi affreschi del ‘400, ha spalancato le porte a pittori, artisti, cantanti, registi, ballerini.
Secondo il regista, sceneggiatore e produttore cinematografico italiano, è stato un incontro di “reciproca curiosità” nel quale il Papa “è riuscito a rivolgersi a tutti”, “è stata una dichiarazione d’amore”.

Con quali emozioni e sentimenti ha incontrato Benedetto XVI?

Pupi Avati: L’incontro con il Papa ha avuto due aspetti molto interessanti. In primo luogo la Chiesa nei suoi vertici, ai suoi massimi livelli, si è resa conto del ruolo della cultura, di quella cultura che si ispira alla bellezza, a tutto ciò che è bello e buono e positivo.
Un’attenzione che la Chiesa non ha mai avuto in dieci anni, se si esclude la Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti. È stata una mancanza di comunicazione tra i due mondi. Finalmente si è palesato un interesse tra i due nel comunicare, di diventare complici in un progetto comune per migliorare la bellezza del nostro vivere.
Il secondo aspetto è forse ancora più sorprendente, e cioè la risposta che c’è stata da parte di alcuni miei colleghi. Solamente durante l’udienza con il Papa mi sono reso conto che c’era un’infinità di persone lontane anni luce dalla fede, o meglio che io pensavo fossero lontane anni luci dagli aspetti spirituali e sacrali, e che definivo ferventi atei. In quell’occasione li ho visti presenti, attenti, compiti, in ascolto della lettera di Giovanni Paolo II, dell’intervento di monsignor Ravasi e poi del discorso di Benedetto XVI, applaudendolo. La loro partecipazione e la loro presenza è stata una reciproca curiosità.
Questo mondo ha risposto positivamente, partecipando positivamente. I due mondi si sono avvicinati. Non so bene come si possa poi realizzare in concreto. Ma intanto un avvicinamento c’è stato. Tra l’altro, sono stati gli artisti ad andare dal Papa e non il contrario.

Come ha trovato il discorso del Papa?

Pupi Avati: Un discorso intelligente. Il Papa si è rivolto veramente a tutti, anche agli agnostici e agli atei, o a chi segue altre religioni. Benedetto XVI ha colto intelligentemente nel segno, forse ispirato dallo Spirito Santo, e ha avuto un approccio che non escludeva nessuno. È riuscito a rivolgersi a tutti, è stata una dichiarazione d’amore, un gesto di estrema intelligenza, di grandissima generosità.

Qual è il suo rapporto con la fede?

Pupi Avati: E’ il rapporto con una fede che vado cercando quotidianamente e che recupero quotidianamente. Prego Dio di esistere, lo sento indispensabile nelle mie vicende umane. Ho bisogno del Trascendente. In un mondo pieno di sofferenza, c’è bisogno di una entità che ti risarcisca. Io posso capire chi è ateo o non credente, ma non capisco perché occorre fare propaganda dell’ateismo. Invece occorre dire che c’è qualcuno che ti ama e ti accoglie, e che c’è una casa del Padre che ti aspetta e ti accoglie.

Una fede che è presenza costante…

Pupi Avati: La fede è una mia necessità, un’urgenza, qualcosa che mi è indispensabile. È bello pensare che c’è Qualcuno che si sta occupando di me sempre, giorno e notte, una sorta di pronto soccorso sempre aperto.

Quali sono i progetti futuri di Pupi Avati?

Pupi Avati: Ho fatto un film, che uscirà nelle sale cinematografiche a febbraio del prossimo anno. Si intitola “Il figlio più piccolo”, che conclude una trilogia sui padri, dopo “La cena per farli conoscere” e “Il papà di Giovanna”, che ha delineato tre ritratti di uomini alle prese con i figli. In “Il figlio più piccolo”, Christian De Sica interpreta il ruolo di un padre terribile. È un film sul denaro, su quanto oggi il denaro sia diventato padrone.

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BENEDETTO XVI - Il tempo della pazienza

Avvento: l'esperienza dell'attesa

Fabio Zavattaro

Inizia un nuovo anno liturgico e la Chiesa, ricorda il Papa all’Angelus citando il Concilio, “nel ciclo annuale presenta tutto il mistero di Cristo, dall’Incarnazione e Natività fino all’Ascensione, al giorno di Pentecoste e all’attesa della beata speranza e del ritorno del Signore. In questo modo, ricordando i misteri della Redenzione, essa apre ai fedeli le ricchezze delle azioni salvifiche e dei meriti del suo Signore, così che siano resi in qualche modo presenti in ogni tempo, perché i fedeli possano venirne a contatto ed essere ripieni della grazia della salvezza”.
Con Luca possiamo dire che l’atteggiamento che caratterizza questo tempo per il credente è la pazienza; l’attesa della realizzazione delle promesse di bene, come scrive Geremia. Pazienza in vista della liberazione, di quel “risollevatevi e alzate il capo”.
“Chi entra in casa nostra ammiri noi piuttosto che le suppellettili”, scriveva Seneca. Come dire, siamo sommersi dalle cose esteriori, dal superfluo. Nei mass media è già la frenesia degli acquisti, nonostante la crisi, ad avere spazio. Nelle nostre strade sono le luci natalizie ad attrarre. Luca ci dice di stare bene attenti che “i cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita”. Il tempo di Avvento è, dunque, invito a non guardare alla facciata, ma ad andare in profondità, a cogliere il significato interiore. Il mondo, afferma il Papa all’Angelus, “ha bisogno soprattutto di speranza: ne hanno bisogno i popoli in via di sviluppo, ma anche quelli economicamente evoluti. Sempre più ci accorgiamo che ci troviamo su un’unica barca e dobbiamo salvarci tutti insieme. Soprattutto ci rendiamo conto, vedendo crollare tante false sicurezze, che abbiamo bisogno di una speranza affidabile, e questa si trova solo in Cristo, il quale, come dice la Lettera agli Ebrei, è lo stesso ieri e oggi e per sempre”. Cristo “è venuto in passato, viene nel presente, e verrà nel futuro. Egli abbraccia tutte le dimensioni del tempo, perché è morto e risorto, è il Vivente e, mentre condivide la nostra precarietà umana, rimane per sempre e ci offre la stabilità stessa di Dio.
È carne come noi ed è roccia come Dio. Chiunque anela alla libertà, alla giustizia, alla pace, può risollevarsi e alzare il capo, perché in Cristo la liberazione è vicina”. Gesù Cristo, afferma ancora Benedetto XVI, “non riguarda solo i cristiani, o solo i credenti, ma tutti gli uomini, perché egli, che è il centro della fede, è anche il fondamento della speranza. E della speranza ogni essere umano ha costantemente bisogno”. Per il credente, la speranza viene dalla certezza che il tempo non si ferma il venerdì sulla croce.
Forse non è un caso che il Movimento dell’amore familiare abbia scelto proprio questa domenica per una marcia silenziosa, per dire il suo “no” alla sentenza emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che vieta il crocifisso nelle aule scolastiche. Una marcia, ricorda il Papa, “per manifestare profondo amore al Crocifisso, riconoscendone il valore religioso, storico e culturale”.
Un tema, il crocifisso nelle aule, che richiama un’altra grande questione, le radici cristiane dell’Europa, più volte tornate in primo piano in seguito alla mancata menzione nel preambolo della Costituzione europea. Forse una riflessione va accennata: se l’Europa è luogo di civiltà, tolleranza e pace, se è il continente dell’affermazione dei diritti umani lo deve molto al Vangelo e ai monasteri.
Gli storici hanno illustrato che le prassi elettorali e deliberative dei monasteri hanno aiutato il formarsi delle istituzioni degli Stati moderni; lo stesso Codice che regolava gli Stati generali del 1789, secondo alcuni studiosi, era costruito sulla base delle disposizioni canoniche in uso all’epoca. E d’altra parte il “Parliamentum” degli abati dal 1100 regolava le decisioni dell’Ordine Cistercense, evitando eccessivi individualismi e introducendo il concetto che era la comunità nel suo insieme, attraverso un voto, a impegnarsi in iniziative che la vedevano spendersi direttamente. È sempre nei monasteri che appare il termine suffragio, di derivazione romana, e lo scrutinio: “scrutari” significa pensare, ponderare, esaminare. Ma anche il voto segreto, il quorum e il voto di fiducia: quest’ultimo nelle Certose aveva il compito di valutare ogni anno l’operato del superiore, che, ovviamente, non assisteva al voto. Anche il ballottaggio nasce in ambiente cristiano e serviva, attraverso l’uso di “ballotte”, fave chiare e scure, palline di diverso colore o altro ancora, a permettere a chi non era in grado di leggere e di scrivere, di partecipare al voto. Potremo continuare a lungo, ma è sufficiente a questo punto ricordare che le Università nascono in ambiente cristiano, da Bologna a Cracovia, da Parigi a Toledo: nel 1600 nel mondo esistevano un centinaio di atenei, tutti nell’Occidente cristiano.
Il cristianesimo, dunque, pur non essendo partito dall’Europa, proprio nel Vecchio Continente ha “ricevuto la sua impronta culturale e intellettuale storicamente più efficace”, come diceva l’allora cardinale Joseph Ratzinger, parlando a Subiaco, il 1° aprile 2005.

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