martedì 19 maggio 2009

Il Papa in Terra Santa: il coraggio del dialogo (Bobbio)


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PAPA

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IL CORAGGIO DEL DIALOGO

Successo della prima tappa in Giordania: «Vengo semplicemente con una intenzione, una speranza: pregare per il regalo dell’unità e della pace».

Alberto Bobbio

Amman (Giordania)

Entra in Terra Santa da una porta più aperta di altre, la Giordania di re Abdullah II e della regina Rania, un Paese che non teme il dialogo, un Paese dove la memoria della saggezza di re Hussein nel cercare mediazioni e negoziati, dopo la stagione della guerra e del terrorismo, resta intatta e inchioda responsabilità circa il futuro.
La Giordania è un luogo cruciale negli equilibri mediorientali e Benedetto XVI riconosce «gli sforzi d’avanguardia a favore della pace nella regione» della corona hashemita.
È una missione difficile quella di Joseph Ratzinger. È un pellegrinaggio alle radici della fede, sui passi della Bibbia, ma è anche una visita a una terra sbriciolata tra popoli che ancora non si sentono amici. È una missione religiosa e insieme politica.
Serve per aiutare i cristiani di qui, che soffrono più di altri, a ritrovare coraggio e pazienza, per non emigrare a frotte verso un Occidente che disperde identità e favorisce la diaspora, ma anche per offrire contributo alla pace. Il Papa lo dice subito, sull’aereo prima di atterrare ad Amman e avverte che la Chiesa «non è un potere politico».
Eppure, anzi proprio per questo, il Papa è convinto che per la Chiesa e la Santa Sede sia «più facile capire e appoggiare posizioni veramente ragionevoli».
Nei tre giorni passati in Giordania Ratzinger intreccerà le riflessioni della fede con le ragioni del dialogo interreligioso, senza mai perdere di vista il fatto che da queste parti tutto si lega alle dispute di carattere geopolitico.
Il Papa è preoccupato del ruolo dei cristiani, che hanno il diritto di proporre la loro visione. Sulle rive del Giordano, nel sito dove gli archeologi hanno scovato le prove del battesimo di Gesù, in quella "Betania al di là del Giordano", Ratzinger pronuncia l’appello più accorato di tutta la prima tappa del viaggio ai cristiani del Medioriente.

Il bisogno di lavorare "insieme"

«Promuovete il dialogo e la comprensione nella società, specialmente quando rivendicate i vostri legittimi diritti. In Medio Oriente, segnato da tragica sofferenza, da anni di violenze e di questioni irrisolte, i cristiani sono chiamati a offrire il loro contributo, ispirato dall’esempio di Gesù, di riconciliazione e pace con il perdono e la generosità».
È esattamente quello che qui si fatica a vedere. Lo ammette re Abdullah, davanti al Papa, appena arrivato in Giordania, in un discorso che fa il punto politico e diplomatico di ciò che va perseguito per arrivare alla pace. Intanto bisogna lavorare "insieme" per «allentare le ombre del conflitto» e poi bisogna procedere «attraverso presìdi negoziali», che «soddisfino il diritto dei palestinesi alla libertà e a una nazione e il diritto degli israeliani alla sicurezza». Accanto, il re pone la questione di Gerusalemme e degli altri luoghi santi, di cui anche lui è custode, in forza della discendenza diretta della monarchia hashemita dal profeta Maometto: «Vanno protetti e l’identità di Gerusalemme va preservata come luogo di culto per tutti».
Il metodo è sempre quello del dialogo. Vale per la politica e vale per le religioni. E in Giordania funziona più che altrove, al punto che molte volte il Papa ne parla come esempio per favorire «un’alleanza di civiltà tra mondo occidentale e quello musulmano», indispensabile per «smentire le predizioni di coloro che considerano inevitabili la violenza e il conflitto». La regina Rania, fuori da ogni protocollo, invia al suo sito sul social network di Twitter un Sms fulminante e preciso: «Appena ascoltato il discorso del Papa. La nostra regione ha bisogno di messaggi di pace così».

Gli ultimi della società

La prima tappa della visita è tra i disabili di Amman, nel "Cottolengo di Giordania", il centro Regina Pacis, simbolo della solidarietà dei cristiani, voluto dal patriarcato latino, sostenuto da tante Ong internazionali, tra cui il Sermig di Torino, per occuparsi degli handicappati e del loro reinserimento sociale, in un Paese dove sono circa il 10 per cento della popolazione, a causa dell’elevato numero di matrimoni tra consanguinei dentro le tribù. Ratzinger va da loro e chiede a loro, agli ultimi della società, a chi soffre di più, di pregare con parole accorate: «Pregate, per favore, per me ogni giorno del mio pellegrinaggio».
Ed è a loro che rivela di non essere venuto «come gli antichi pellegrini», carico «di regali e di offerte». «Vengo semplicemente con un’intenzione, una speranza, pregare per il regalo prezioso dell’unità e della pace».
Nella moschea dedicata a re Hussein, sulla collina più alta di Amman, riprende il filo del dialogo tra islam e cristianesimo. Anche questa è una ragione del viaggio.
Fa una breve sosta davanti al Mihrab. Lo accompagna il principe Ghazi Bin Talal, cugino del re e suo consigliere per gli affari religiosi, uomo impegnatissimo nel dialogo interreligioso. Davanti alla moschea il principe e il Papa parlano di un aspetto altrettanto cruciale per arrivare alla pace. Ghazi denuncia che in Occidente vi sono troppe «interpretazioni sbagliate» dell’islam, ma aggiunge anche che i musulmani devono «spiegare meglio i valori della propria fede».
Definisce il pontificato di Benedetto XVI «marcato dal coraggio morale di alzare la voce e di tenere fede alla propria coscienza indipendentemente dalle mode del giorno», loda le due encicliche di Ratzinger sull’amore e la speranza e sorprende tutti quando riconosce il coraggio del Papa per aver «liberalizzato la Messa in latino per coloro che la seguono».
Benedetto XVI osserva che musulmani e cristiani devono opporsi insieme a «chi tenta di tacitare la voce della religione» e che la «manipolazione ideologica della religione è il catalizzatore delle tensioni e delle divisioni e, non di rado, anche delle violenze nelle società».
Il tema delle tensioni tra le diverse religioni torna anche nel discorso dopo la benedizione della prima pietra dell’Università Cattolica di Giordania che sorgerà a Madaba, antichissima città cristiana, citata anche nella Bibbia, occasione per ribadire il ruolo dell’educazione per evitare che la religione venga «sfigurata» se è «costretta a servire l’ignoranza e il pregiudizio, il disprezzo, la violenza e l’abuso».
E ai cristiani, riuniti per la Messa allo stadio internazionale della capitale Amman, ripete il concetto, chiedendo a loro «il coraggio di costruire nuovi ponti per rendere possibile un fecondo incontro di persone di diverse religioni e culture» e contrastare anche «modi di pensare che giustificano lo stroncare di vite innocenti».
Dopo la Giordania il pellegrinaggio continua in Israele e nei Territori palestinesi. Benedetto XVI si riempie gli occhi della Terra Promessa dal bastione del Monte Nebo, il monte di Mosè. Il panorama è esattamente quello raccontato nella Bibbia. Ratzinger lo osserva con emozione. Mette i suoi passi su quelli di Mosè e in attesa di metterli su quelli di Gesù, ebrei entrambi, ricordando dalla cima del Nebo «l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa e il popolo ebreo» e invitando a «superare ogni ostacolo che si frappone alla riconciliazione tra cristiani ed ebrei nel rispetto reciproco e nella cooperazione al servizio di quella pace a cui la parola di Dio ci chiama».

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