martedì 15 settembre 2009

Il santuario sotto il cielo di san Giovanni Maria Vianney: Nel piccolo villaggio di un grande santo (Roncalli)


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Il santuario sotto il cielo di san Giovanni Maria Vianney

Nel piccolo villaggio di un grande santo

da Ars

Marco Roncalli

Sta per calare il tramonto nella cittadella del sacerdozio. E non si vede troppa gente in giro. Preti a parte, che ad Ars sembrano non mancare mai. Alcuni sono soli e capita di vederli in clergyman, fermi nelle loro auto sotto i platani, mentre recitano il breviario.
Altri indugiano a gruppetti fuori dal Foyer Sacerdotale Jean-Paul ii, lo spazio d'accoglienza gestito dalla società Saint Jean-Marie Vianney che li fa sentire a casa propria. Qualcuno è lì nel centro del paese, scatta l'ultima foto o esce dalla libreria religiosa, quasi davanti alla basilica costruita a ridosso della vecchia chiesa. Senti sempre ripetere che non ci sono vocazioni e a vedere tanti sacerdoti insieme, anche giovani, ti si rinfranca il cuore.
Non importa se sono volti anonimi di cui tutt'al più intuisci la provenienza, complici il dialetto veneto o la cadenza milanese, la lingua francese o polacca, i lineamenti orientali, dell'America Latina, dell'Africa. Sono gli stessi volti fugacemente incrociati lungo il giorno. Quando hai visto i loro occhi curiosi nella disadorna Maison du Saint Curé o il loro abbandono orante nella Cappella del Cuore edificata nel 1930, luogo di profondo raccoglimento. O quando li hai guardati in ginocchio sulla balaustra davanti all'urna con le spoglie dell'abbé nella sua chiesa parrocchiale e ti sei chiesto per chi stessero pregando. Un bagno spirituale la loro sosta nel piccolo borgo del grande santo, l'incontro con colui che è stato proclamato da Pio xi patrono universale dei parroci. Adesso torneranno a casa, o, meglio, nelle loro parrocchie.
Già, la parrocchia. Non aveva ragione don Primo Mazzolari a continuare a indicarla come la cellula indispensabile della Chiesa, il luogo privilegiato dell'annuncio cristiano, anche di fronte alle crisi di certi modelli bisognosi di rinnovamento, vuoi per il mutare dei tempi e dell'ecclesiologia? Me lo chiedo mentre penso che forse Bozzolo non è così lontana da Ars. E me lo chiedo ben convinto, con lo storico Philippe Boutry, di un fatto: è attraverso le parrocchie che nella Francia dell'Ottocento passa il riassetto dei quadri della vita religiosa dopo l'uragano della Rivoluzione; lì si esprime la maggior parte della vita spirituale, che si nutre dei sacramenti - a cominciare dalla confessione e dalla comunione - spesso posti ai fedeli dai parroci con tale forza che pietà popolare e culto cattolico finiscono per sovrapporsi.
Ecco perché, nonostante l'attenzione degli storici sia spesso concentrata sul volto più istituzionale della Chiesa - con i suoi vescovi, i fondatori di ordini e di opere, i suoi teologi - anche semplici preti di campagna, ma vicini ai loro piccoli greggi, hanno poi trovato interesse. Ne è un esempio proprio Jean-Marie-Baptiste Vianney: alla guida per quarantuno anni di una piccola parrocchia rurale, l'ha santificata nella prospettiva di una conversione totalizzante, con un impegno tale da sacralizzare persino lo spazio del suo agire, trasformandolo in un santuario a cielo aperto, fuori dal tempo: che è stato il suo, ma che è anche il nostro.
Arrivando ad Ars, alla vigilia e dopo la morte di Vianney, ma anche oggi, il pellegrino s'emozionava un po' mettendo i piedi su questo fazzoletto di terra benedetta dalla presenza di un santo vivo: nella carne come nel ricordo. A sfuggirgli, piuttosto, dietro il volto del borgo, proprio le sequenze storiche che avevano avuto protagonista l'eccezionale pastore, capace di trasformare "la Siberia della diocesi di Lione" - dove era stato mandato perché era ritenuto un parroco poco affidabile - in una sorta di "Eldorado cristiano", per riprendere le parole di un pellegrino dell'Ottocento. Nulla, a ben guardare, predisponeva questo villaggio dell'Ain a tale avventura, portata a compimento in più momenti, fra il 1818 e il 1830, poi dopo la morte del curato d'Ars nel 1859, centocinquant'anni fa, un'avventura per certi versi ancora aperta.
Lontano geograficamente dal polo economico-sociale di Lione, il piccolo paese - nemmeno trecento abitanti per lo più contadini, piccoli proprietari e giornalieri chini su terre a lungo già beni ecclesiastici - costituì la realizzazione dei sogni degli abbés della Restaurazione. Eppure, per dar forza al sogno, Vianney capì che doveva trovare accanto a sé non solo lo sparuto mannello di anime affidatogli, ma anche quanti, allora, reggevano le sorti di istituzioni come il Comune, il consiglio municipale, i piccoli consigli delle realtà lavorative, pronti ad aderire alle sue mete, colpiti dalla sua credibilità persino nel condannare, senza farne una leggenda nera, il cabaret o il ballo, rare occasioni di socializzazione laica ma imperniate su feste depotenziate del loro significato religioso.
Ecco dunque l'innescarsi di un progetto totalizzante per la comunità che aveva visto svanire dietro di sé l'irruzione della pietà barocca e viveva le conseguenze dell'ondata rivoluzionaria ormai dimentica del sentire cattolico. Tutto inizia il 13 febbraio 1818 quando il giovane Jean-Marie-Baptiste arriva qui dove si apre la zona dei mille stagni, le Dombes modificate da generazioni di monaci, costellate di piccionaie, lavatoi, fattorie, chiese romaniche. Si narra che al giovane pastore cui aveva chiesto la strada per il villaggio Vianney avesse detto, con il suo grazie, la frase "e io ti mostrerò il cammino del cielo". Oggi una statua che i dépliant chiamano pomposamente "il monumento dell'incontro", ricorda quella prima lontana tappa, oggetto proprio in questi giorni di un approfondimento qui ad Ars da parte dei seminaristi del San Carlo di Lugano guidati dal teologo monsignor Ettore Malnati e dal vescovo di Belley-Ars, Guy Bagnard.
Un ingresso quello del curato - ça va sans dire - senza alcun festeggiamento. In ogni caso, varcato il limes dove tra i frutteti si trovavano sparse sì e no una quarantina di casupole di argilla e, dove, a mezza costa, si vedeva un edificio sormontato da travi che dovevano sostenere una campana - la sua chiesa - ecco Vianney inginocchiarsi e baciare la sua nuova terra. Cerchi di immaginarti la consapevolezza di un gesto devoto, ma pure i pensieri del prete contadino: quelli di un uomo di trentadue anni, piccolo, magro, al quale i superiori avevano detto: "Non c'è molto amor di Dio in quella parrocchia; voi ce ne metterete".
E provi a fantasticare sul suo primo ingresso nella canonica - ora trasformata in un piccolo museo - affacciata su un cortile dove è fermo, chissà da quanto, un antico carretto. Un piano terra con cucina e sala da pranzo e un piano superiore con tre stanze, le pareti di pietra, gli utensili, i libri, le tazze, una tonaca rattoppata; tutto lasciato lì come se il tempo si fosse fermato, come se l'acqua del Formans, il ruscello che tranquillo attraversa il paese, fosse sempre la stessa.
Più facile, liberandoci d'ogni immaginazione, dar conto di tutto quanto accadde dopo, magari attingendo alla valanga di libri dedicati al curato d'Ars, che, a partire dai "grandi vecchi" come l'abbé Alfred Monnin, suo commensale, o monsignor François Trochu, arriva ai nostri giorni. Senza dimenticare pagine nate dalla penna di autori celebri. Da Henri Ghéon a Jean de La Varende, da Michel de Saint-Pierre a Georges Bernanos, da Ernest Hello al poeta Jean Follain. Sino a Cristina Campo che in una lettera definì Vianney "una terribile aquila che ti rapisce nel suo forte becco ad altezze spaventose e poi, come l'uccello Roc che trasportava Sindbad, ti lascia cadere con la massima indifferenza; e peggio per te se non sai volare", aggiungendo "non mi stupisce che Simone [Weil] lo amasse tanto".
Nei fatti, Jean-Marie-Baptiste stilò quel che oggi si definirebbe il suo programma pastorale in più modi. Meditando ai piedi del tabernacolo, entrando nelle famiglie e condividendone i problemi, scuotendo l'indolenza con la predicazione: "Sarebbe da augurarsi che tutti i parroci di campagna predicassero bene come lui", disse Lacordaire dopo aver ascoltato una sua omelia il 4 maggio 1845. E, ancora, facendosi prigioniero del suo confessionale nella vecchia sagrestia, offrendo con la sua persona la testimonianza di una vita povera, indicando nella comunione frequente il necessario alimento spirituale, rompendo così col dominante rigorismo di tendenza giansenista e gallicana che aveva fatto del sacramento il premio di una vita cristiana irreprensibile. Nonché intensificando i momenti pubblici - messe quotidiane, catechismo, vespri, preghiere della sera, letture devote, rosario, processioni, pellegrinaggi, rogazioni - della sua restaurazione spirituale per Ars, che andò a braccetto con quella materiale; diceva che "niente è troppo bello per Dio", e da qui vennero gli abbellimenti della chiesa, il campanile, il coro, le cappelle Jean-Baptiste nel 1823, Ecce Homo nel 1833, Sainte Philomène nel 1837.
Certo, c'è poi Vianney apostolo della carità, il fondatore della Provvidenza, la casa prima scuola gratuita, poi orfanotrofio a pochi passi dalla canonica, dove oggi le suore di San Giuseppe - venute ad Ars nel 1848 - invitano il visitatore a scoprire la cosiddetta madia miracolosa dalla quale il parroco prendeva il pane anche quando non sembrava esserci. E c'è il taumaturgo che già attorno alla metà del secolo attirava malati nel corpo e nello spirito, genitori angosciati dalla mortalità infantile - anche quelli di Marie-Joseph Lagrange, il fondatore dell'École biblique di Gerusalemme assai legato a Vianney - e poi folle sempre più grandi, sino alla morte, ed oltre.
Con numeri significativi che registrano dalle ottantamila presenze annue già nell'Ottocento al quasi mezzo milione di oggi: specie in questo periodo giubilare in cui "ci si rallegra del dono che è la vita di un santo" per usare le parole di monsignor Bagnard. La vita di un santo prete vissuto fra Rivoluzione e Restaurazione, nel quale - ribadiva tempo fa il cardinale André Vingt-Trois - "ciò che è esemplare non è il luogo e il tempo in cui gli è toccato di vivere, ma l'amore pastorale per il suo popolo, la catechesi di tutti i giorni attraverso la predicazione e il catechismo per i piccoli e per i grandi, la misericordia offerta e elargita attraverso il sacramento della penitenza e la conversione della sua vita". Un santo, ancora, la cui celebrazione se l'ha esposto al rischio di risvegliare piccole frange di neoconformismo clericale di ritorno pronte a farlo ostaggio o involontario testimonial di nostalgie passatiste, ha in realtà offerto ai più l'occasione di scoperta straordinaria, e dentro di questa, la sorpresa di un'impensabile prossimità.
Tra i più, tanti giovani. Seminaristi che hanno scoperto nel profilo di questo prete il significato delle attese di Benedetto XVI circa l'anno sacerdotale, ma anche la devozione per lui di Karol Wojtyla - pellegrino ad Ars già nel 1947, poco dopo l'ordinazione sacerdotale - o del futuro Giovanni xxiii, giunto nella parrocchia del santo curato già nel 1905 e che da Pontefice firmò l'enciclica Sacerdotii nostri primordia a lui dedicata.
E poi laici, come quelli che il 18 settembre parteciperanno al pellegrinaggio intitolato a san Francesco Régis. Infine, sacerdoti: i molti incontrati nello scorcio di questa estate che sta finendo e i tanti attesi ad Ars per il ritiro sacerdotale internazionale che dal 27 settembre al 3 ottobre sarà predicato dal cardinale Christoph Schönborn su un tema centrale in questo anno voluto da Benedetto XVI: "La gioia di essere sacerdote: consacrato per la salvezza del mondo".

(©L'Osservatore Romano - 14-15 settembre 2009)

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