mercoledì 15 luglio 2009

Una lettura storica del Concilio Ecumenico Vaticano II di Mons. Agostino Marchetto


Vedi anche:

Il Concilio non fu una rottura con la precedente tradizione (Monumentale discorso alla curia romana, 22 dicembre 2005)

Il Papa: "Lo spirito del Concilio non ha voluto una rottura, un'altra Chiesa, ma un vero e profondo rinnovamento, nella continuità dell'unico soggetto Chiesa, che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre identico, unico soggetto del Popolo di Dio in pellegrinaggio" (Monumentale discorso del Santo Padre per l'inaugurazione del Convegno della Diocesi di Roma, 26 maggio 2009)

Grandi ritorni. "Iota unum" e "Stat veritas" di Romano Amerio. Il collegamento con il pensiero del Papa (Magister)

Come Benedetto XVI anche Newman credeva nell'"ermeneutica della continuità" (Osservatore Romano)

Grandi ritorni: Romano Amerio e le variazioni della Chiesa cattolica

Su segnalazione di un nostro caro, carissimo, amico del blog leggiamo questo testo del 2005, attualissimo anche oggi.
Leggiamolo insieme al discorso di Benedetto XVI alla curia romana (22 dicembre 2005).

R.

Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move N° 99, December 2005

Una lettura storica del Concilio Ecumenico Vaticano II*

(per i quarant’anni dalla sua conclusione)

S.E. Mons. Agostino MARCHETTO

Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti

Eminenze, Eccellenze, cari Amici,

Grazie per l’invito.
Otto-dieci minuti mi sono concessi e quindi rimando anzitutto, per chi voglia comprendere meglio il mio intervento, all’opera che ho da poco pubblicata presso la Libreria Editrice Vaticana, dal titolo Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia.
E’ la prima storia della storiografia, sul grande evento conciliare, di questi ultimi 15 anni abbondanti, da un punto di vista di critica storica, naturalmente, ma, con preoccupazione ermeneutica, dopo 40 anni dalla chiusura del Vaticano II.

A tale riguardo direi anzitutto che il magistero episcopale, e non solo pontificio, dovrebbe impegnarsi di più poiché ci sarà vera ricezione del Concilio se v’è una sua corretta interpretazione.

Dividerò il mio intervento in tre punti (dando per scontate tante cose), vale a dire l’evento, l’abbraccio fra Tradizione e rinnovamento, e due campi significativi e fondamentali che lo attestano.

I° L’evento

In genere usiamo facilmente questo termine per indicare l’oggetto, oggi, della nostra attenzione, non del tutto coscienti di quanto soggiace a una tale parola, e cioè non soltanto l’indicazione di un grande e importante avvenimento. In effetti, partendo da esso, e nel contesto di una tendenza storiografica generale, profana, che privilegia l’evento, la discontinuità, il cambiamento, ovvero il mutamento traumatico, in contrapposizione all’antecedente indirizzo dei famosi “Annales” – in cui si guardava piuttosto al periodo lungo, con sottolineatura della continuità storica (pensiamo a Braudel) – una visione da me definita ideologica, fin dall’inizio, estrema, oltranzista, non consensuale, si è imposta monopolisticamente nella presentazione storica del Vaticano II.
Essa considera il Magno Concilio come rottura, una novità assoluta, il nascere quasi di una nuova Chiesa, una rivoluzione copernicana, il passaggio da un tipo di Cattolicesimo ad un altro, che infrige proprio la sua caratteristica di continuità, pur nell’incarnazione necessaria nell’oggi di Dio, come io dico (combinata cioè al rinnovamento).
E qui viene da ricordare che il termine più indicativo del Concilio convocato da Papa Giovanni, condotto e concluso da Paolo VI, è “aggiornamento” (vocabolo abbastanza intraducibile nelle varie lingue e quindi assunto qua talis oltre l’italiano).
Tale prospettiva storica, sia pur monopolistica fino ad ora, non potrà e dovrà dunque essere accettata per quanto concerne il Cattolicesimo e la storia che consideri la sua specificità, della continuità, cioè, della realtà cattolica – come la vedeva lo stesso Newman –, continuità che dovrà esser preservata altresì nell’interpretazione dei suoi eventi e documenti (v. op. cit., specialmente pp. 223-232).

Dicevamo documenti. A questo proposito la tendenza storiografica monopolistica attuale ha pure una seconda caratteristica, oltre la questione dell’evento, e cioè la contemporanea svalutazione dei documenti conciliari.
Noi non accettiamo, invece, la prospettiva di staccare evento e decisioni conciliari (lo “spirito conciliare” lo è di questo “corpus”), che portano il marchio del consenso e della unità.
Quell’unità necessaria fra due tendenze ugualmente legittime, se rimangono nella communio hierarchica, vale a dire di coloro che hanno più sensibilità e attenzione alla Tradizione o, invece, all’incarnazione nell’oggi di Dio. Per noi dunque i testi non vanno svalutati, né scelti ad usum delphini (anche perché così facendo si danneggia il processo della loro ricezione), sia pur tenendo in conto il “genere letterario”, i criteri di impegno di ciascuno e i temi trattati.
Non consideriamo, dunque, che si possa arrivare al pensiero conciliare qua talis, prescindendo dalla preoccupazione di quel consensus (che fu il martirio di Paolo VI, come disse il Card. König), il quale consensus fu proprio caratteristica sinodale e non fu cercato solo per se stesso.

Inoltre soltanto i testi definitivi “fanno testo”, altrimenti qualcuno li riceverà – come spesso si fa –, alla sua maniera, a pretesto per il proprio cammino personale o per la preferenza teologica o di “scuola” di ciascuno.

II° Tradizione e rinnovamento, in concilio, si sono abbracciati

Affronto questo tema, per noi fondamentale, nel citato volume (pp. 358-370), partendo dall’intenzione di Papa Giovanni XXIII nel convocarlo e dal significato di T(t)radizione.
Il Papa distingueva – come si sa – la sostanza, l’intera, precisa ed immutabile dottrina e la sua presentazione (formulazione).

L’aggiornamento, dunque, era inteso, da chi lo volle “conciliare” – ripeto – non come cesura con il passato o contrapposizione di momenti storici, ma quale crescita, perfezionamento del bene sempre in atto nella Chiesa. Il suo rinnovamento è di fatto continuo.

Analizzavo poi l’intenzione di Paolo VI, fedele interprete del pensiero del suo predecessore – così lo definì lo stesso Mons. Capovilla –, e non suo affossatore, come ha tendenza a fare una “officina” (quella bolognese) che va per la maggiore nell’interpretazione conciliare.

In effetti Paolo VI, pur di formazione e carattere diverso dal suo predecessore, mantenne la sua stella polare dello “sviluppo nella continuità”. Con lui il Concilio proseguì con le stesse finalità (pastorali).

Non sarebbe dunque nel vero – affermò Paolo VI – chi pensasse che il Concilio Vaticano II rappresenti un distacco, una rottura o una liberazione dall’insegnamento della Chiesa, o autorizzi o promuova un conformismo alla mentalità del nostro tempo, in ciò che essa ha di effimero e di negativo.

In effetti Paolo VI così attestò all’inizio del suo ministero pastorale universale: “Riprenderemo … l’opera dei nostri predecessori, difenderemo la santa Chiesa dagli errori di dottrina e di costume, che dentro e fuori dei suoi confini ne minacciano l’integrità e ne velano la bellezza; cercheremo di conservare e accrescere la virtù pastorale della Chiesa”. E rimase fedele al suo impegno senza mai tradire il santo vero.

Ebbene quello che Papa Paolo VI attribuisce a sé, nel senso della fedeltà, lo si deve certamente anche dire del Concilio Vaticano II, il quale prosegue con spirito pastorale il cammino di promozione della fede cattolica e di rinnovamento dei costumi e della disciplina ecclesiale intrapresa dai concili che lo precedettero.
In questa linea non possiamo aderire alle critiche formulate contro le ottime regole ermeneutiche di Kasper, e pure di Ratzinger e Jedin, circa il Vaticano II (ibidem, p. 223) per sottolineare la peculiarità, fra i Concili, del Vaticano II.

III° Due esempi di abbraccio fra Tradizione e rinnovamento

a) Di tale abbraccio vorrei ricordare anzitutto l’esempio della collegialità e del primato pontificio, anche per la natura specifica del CCEE. Credo infatti sia opportuno, senza poterlo io fare su altri temi nodali, concretare su questo punto la presenza di nova et vetera nel Sinodo in parola e nella sua guida da parte di Paolo VI, a conferma che “cattolica” è la congiunzione “e”, come attestò von Balthasar.
In stringate e obiettive pagine, Mons. Carbone, fedele custode degli Archivi e curatore dei 62 tomi degli “Acta Synodalia”, con i quali deve confrontarsi ogni privata fonte conciliare (questione di gerarchia delle fonti), così riassume l’iter decisivo del rapporto conciliare primato-episcopato: “Nei primi giorni del II periodo … Paolo VI, al disopra delle parti, intervenne prontamente e sospese la votazione indetta dal moderatore per il giorno 17 (ottobre 1963) su quattro proposizioni. La votazione suscitava problemi di contenuto del testo e di procedura che andavano chiariti, per evitare che essa assumesse un valore che in quel tempo non poteva avere e condizionasse, quindi, la commissione dottrinale nell’emendare lo schema e la libertà dei Padri nell’esaminarlo”.
Con tenacia e pazienza Paolo VI si adoperò affinché i problemi, mediante il dibattito sereno e approfondito, fossero chiariti e si potesse raggiungere la maggioranza più larga possibile. Con prudenza e discrezione, seguì il lavoro delle singole commissioni, e senza sostituirsi ad esse, concorse a perfezionare gli schemi. I suoi interventi fermi, ma sempre delicati e rispettosi, fecero superare i contrasti, favorirono l’unità dell’assemblea e il consenso moralmente unanime di essa sui documenti. Lo riconobbero gli stessi Padri delle opposte tendenze ai quali quegli interventi – in un primo momento – non erano riusciti graditi.
Prova ne è la Nota Explicativa Praevia che egli volle al cap. III dello schema sulla Chiesa.
Essa liberò il testo dalle implicazioni e potenzialità che avrebbero potuto dare origine a distorte interpretazioni e non era in contraddizione – secondo il giudizio che più tardi ne diede lo stesso Philips, noto teologo e “ricucitore”, in parte, della Lumen Gentium, confermato da altri [Congar e Schillebeeckx, per es.] – con il relativo testo conciliare. Cessate le perplessità, nella votazione della sessione pubblica del 21 Novembre si ebbe l’approvazione unanime: 2151 placet, 5 non placet.

Certo quel consenso fu in seguito messo a dura prova, perché ciascuno aveva propensione a seguire [ed è vero anche oggi] la tendenza di prendere, di esso, per sé e per la comunità, quanto collimava con la propria visione, o, peggio, “ideologia”, senza accettazione totale dell’insieme, del corpus, dei 16 testi conciliari che “rappresentano ciò che il sinodo, nel bene o nel male, fu d’accordo nel dire … essi sono invocati giustamente come l’espressione determinata delle sue intenzioni e decisioni”.

b) Dialogo e consenso, in concilio, per giungere all’abbraccio tra rinnovamento e Tradizione. Ho fatto riferimento già al consenso sinodale, perseguito instancabilmente da Paolo VI, come espressione della “Catholica”, dell’unitas in necessariis, per noi incarnazione del combinarsi di Tradizione e rinnovamento nel magno Sinodo Vaticano. La sua assenza o carenza è infatti un qualcosa che si deve poi “pagare” a caro prezzo, come insegna la storia dei Concili. E l’esempio di molti concili importanti che si sono preoccupati faticosamente di raggiungere il consenso è una testimonianza della sua grande importanza e del suo carattere di segno, soprattutto nel senso che la verità non viene “decisa” (mediante votazione) ma “attestata” appunto con il consenso.
E qual è il cammino per raggiungerlo, se non quello del dialogo? Conoscendo la ricchezza e le contraddizioni della cultura moderna, le aspirazioni e le speranze, le gioie e le tristezze, le delusioni e le difficoltà dell’uomo contemporaneo, Paolo VI, seguendo l’interiore impulso della carità pastorale, cercò di calarsi in esse poiché – disse – “il mondo non si salva dal di fuori”.
Egli fu dunque assiduo banditore e promotore del dialogo – come lo fu il Concilio Vaticano II – con tutti gli uomini di buona volontà: con i cristiani separati, con i non cristiani, con i non credenti. “Nel dialogo così condotto, si realizza l’unione della verità con la carità, dell’intelligenza con l’amore”.

Con forza Paolo VI affermò che il dialogo dev’essere immune dal relativismo che intacchi l’immutabile dottrina della fede e della morale: “La sollecitudine di accostare i fratelli non deve tradursi in un’attenuazione, in una diminuzione della verità”; “il nostro dialogo non può essere debolezza rispetto all’impegno verso la fede”; “non si può transigere con i principi teorici e pratici della nostra professione cristiana”.

E qui vi sono tutti i legami con il Vaticano II, con il suo procedere nella ricerca di un dialogo all’interno anche della Chiesa Cattolica, con la procedura costante e fervida del consenso e il desiderio, continuamente rinnovato e attuato, affinché rinnovamento e Tradizione dialoghino tra di loro, e ci sia una saldatura tra antico e nuovo, diciamo anche tra I e II Millennio ecclesiale. Insistere solo sul nuovo è quindi errato poiché in Concilio vi è pure ripresentazione e conferma dell’antico, del precedente.
Basti dire che tra le fonti più citate nei testi conciliari vi furono gli interventi di Pio XII.

Il Vaticano II si trovò cioè a sancire l’avvenuto sviluppo teologico e a tradurlo nell’azione pastorale, in risposta alle esigenze dei tempi, nella continuità della dottrina. In effetti la Chiesa – immutabile per la intrinseca vitalità che le viene da Cristo Capo e dal Suo Spirito, in fedeltà al Padre –, anche mediante l’opera dei Concili si perfeziona, rimanendo però essenzialmente la stessa. Essa si arricchisce di nuovi dogmi e insegnamenti, ma senza alterazione del sacro deposito affidatole da Cristo stesso. Verrebbe bene qui una citazione di Bossuet (lettera n. 32, a Leibniz, Oeuvres, Paris 1846, p. 716) ma mi limito a ricordare il luogo di tale bel passo.
Non vorrei concludere senza un invito – se mi è concesso – affinché anche oggi, come in concilio, continui nella Chiesa il dialogo nella ricerca di un consenso, dell’incarnazione cioè dell’eterna Verità–Bellezza, tanto antica e sempre nuova, nella fedeltà alla Tradizione e nel rinnovato aggiornamento.
______________

* Intervento d’apertura, pronunciato il 30 Settembre 2005, in occasione dell’Assemblea annuale della CCEE svoltasi a Roma. Questo testo ha fornito la base a una conferenza tenuta a Mosca, il 20 dicembre 2005, durante una riunione di presbiteri e agenti pastorali dell’Arcidiocesi della Madre di Dio. Quel giorno, lo stesso argomento è stato presentato, da S.E. Mons. Marchetto alla Commissione Teologica (Ortodossa) del Patriarcato di Mosca.

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/migrants/pom2005_99/rc_pc_migrants_pom99_lett-concil-vatII.html

2 commenti:

Antonio ha detto...

Lodevole e puntuale l'intervento di mons. Marchetto...solo che mi sembra descriva qualcosa di virtuale. La realtà è sotto gli occhi di tutti...il Vaticano II ha prodotto uno sconquasso planetario ,quella meravigliosa Cattedrale è in rovina e noi viviamo come terremotati...
per colpa di tre papi negligenti...esiste il peccato di azione ma anche quello di omissione.
Papa Vigilio per la sua debolezza e negligenza portò la Chiesa alla rovina provocando lacerazioni e lo scisma dei Tre Capitoli.
Otto von Bismark,che era un luterano poco incline al cattolicesimo, ammirarava la Chiesa Cattolica per la continuità del suo insegnamento nel corso dei secoli e per la saggia disciplina dei suoi ordinamenti...
Quel che conta è la realtà ...
sono certo che Dio salverà comunque la Sua Chiesa...

Anonimo ha detto...

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I cambiamenti dell'età del Concilio hanno intaccato o no l'essenza del cattolicesimo? "L'Osservatore Romano" riporta in auge il grande pensatore svizzero. E l'arcivescovo Agostino Marchetto demolisce le tesi dei suoi avversari: la "scuola di Bologna" fondata da Dossetti e Alberigo
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Alessia