martedì 30 giugno 2009

I Legionari sotto torchio. Nomi e incarichi dei visitatori apostolici (Magister)


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I Legionari sotto torchio. Nomi e incarichi dei visitatori apostolici

Lo scorso marzo l’annuncio, il 15 luglio il via.
I visitatori apostolici dei Legionari di Cristo interrogheranno le centinaia di sacerdoti e religiosi della congregazione fondata dal sacerdote messicano Marcial Maciel Degollado, sotto choc a causa dell’acclarata cattiva condotta del loro stesso fondatore, già messo da parte nel 2006 per abusi sessuali, e ora, un anno dopo la morte, scoperto colpevole d’aver avuto in Spagna un’amante e una figlia.
Come visitatori, le autorità vaticane hanno nominato cinque vescovi di cinque paesi diversi, ciascuno con l’incarico di ispezionare i Legionari di una particolare area del mondo:

Ricardo Watti Urquidi, vescovo di Tepic nel Messico, incaricato per il Messico e il Centroamerica, dove i Legionari hanno 44 case con 250 sacerdoti e 115-120 religiosi e aspiranti sacerdoti;

Charles J. Chaput, arcivescovo di Denver, incaricato per Stati Uniti e Canada, dove i Legionari hanno 24 case con 130 sacerdoti e 260 religiosi e aspiranti sacerdoti;

Giuseppe Versaldi, vescovo di Alessandria, incaricato per Italia, Israele (Gerusalemme), Filippine e Corea del Sud, dove i Legionari hanno 16 case con 200 sacerdoti e 420 religiosi e aspiranti sacerdoti (in Italia rispettivamente 13, 168 e 418);

Ricardo Ezzati Andrello, arcivescovo di Concepción in Cile, incaricato per Cile, Argentina, Colombia, Brasile e Venezuela, dove i Legionari hanno 20 case con 122 sacerdoti e 120 religiosi e aspiranti sacerdoti;

Ricardo Blázquez Pérez, vescovo di Bilbao, incaricato per Spagna, Francia, Germania, Svizzera, Irlanda, Olanda, Polonia, Austria e Ungheria, dove i Legionari hanno 20 case con 105 sacerdoti e 160 religiosi e aspiranti sacerdoti.

L’investitura dei cinque visitatori è avvenuta la mattina di sabato 27 giugno in Vaticano, in una riunione con i cardinali Tarcisio Bertone, William J. Levada, Franc Rodé e Stanislaw Rylko.
Ai cinque è stata data lettura delle conclusioni dell’indagine della congregazione per la dottrina della fede che portò alla condanna di Maciel nel 2006. Per gli spostamenti avranno a disposizione un budget di 10 mila euro ciascuno. In autunno depositeranno in Vaticano un rapporto.

Il visitatore italiano, monsignor Versaldi, 66 anni, è legatissimo al cardinale Bertone. È vescovo di Alessandria dal 2007.
In precedenza è stato vicario generale della diocesi di Vercelli, nominato a questo incarico nel 1994 dal conterraneo Bertone, che all’epoca era il suo vescovo.
È ferrato in diritto canonico e ha insegnato questa materia alla Pontificia Università Gregoriana. Ha il titolo di avvocato rotale ed è membro del supremo tribunale della segnatura apostolica. Lo scorso 26 aprile, in occasione delle festività della Madonna della Salve, patrona della diocesi di Alessandria, il cardinale Bertone si è recato in visita da lui, celebrando messa in cattedrale.
Ricade sotto la competenza di monsignor Versaldi l’ispezione, a Roma, della casa generalizia dei Legionari e quindi dei loro massimi dirigenti, quelli che sono stati più in simbiosi col fondatore.
Intanto, il 30 giugno sono stati ordinati a Roma 38 nuovi diaconi dei Legionari, la metà messicani, gli altri di altri otto paesi.

© Copyright Settimo Cielo, il blog di Sandro Magister consultabile online qui.

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LEGIONARI DI CRISTO: MONS. PIACENZA A 38 NUOVI DIACONI, “SIATE PROFETI NELLA SOCIETÀ”

“Il diacono è profeta di un mondo nuovo, portatore di un messaggio che getta luce su tutti i problemi scottanti della società. E’ anche il primo collaboratore del sacerdote nella celebrazione dell’Eucaristia.
Possiate vivere questa missione, per tutta la vita, con quell’adorazione interiore e quella devozione che sono espressioni di un animo che crede e che rimane sempre compreso dell’altissima dignità dei propri compiti”.
Con queste parole, pronunciate nell’omelia, mons. Mauro Piacenza, segretario della Congregazione per il clero, si è rivolto ai 38 diaconi dei Legionari di Cristo ordinati oggi a Roma nella cappella del Centro studi superiori, adiacente all'Ateneo pontificio Regina Apostolorum. Erano presenti padre Álvaro Corcuera, direttore generale dei Legionari di Cristo e del movimento Regnum Christi, insieme al vicario generale padre Luis Garza.
Alla liturgia hanno assistito circa 900 persone.
Piacenza si è soffermato poi sulla triplice missione del diacono: la diaconia della Parola, dell’Eucaristia e dei poveri. In particolare, al diacono compete la proclamazione del Vangelo e l'aiuto al sacerdote nella spiegazione della Parola di Dio.
“Siamo noi che dobbiamo crescere per raggiungere la misura della Parola del Signore.
Una Parola che, con la sua forza e con la sua purezza, può cambiare la cultura degli uomini di oggi, liberandoli dalle multiformi schiavitù del peccato”, ha spiegato l’arcivescovo. Mons. Piacenza ha poi aggiunto che “al diacono è affidata in modo particolare la missione della carità, che è all’origine dell’istituzione stessa della diaconia”.
Infine, il presule si è soffermato sul significato del celibato: “Chi ha riconosciuto in Cristo il centro, la ragione e il senso della propria vita non può che amarlo con l’amore più grande di cui è capace un cuore umano”. Perciò “il celibato – ha sottolineato mons. Piacenza – non è una rinuncia ad amare. E’ la volontà generosa e magnanima di raccogliere tutti i palpiti del cuore ed offrirli alla famiglia della Chiesa”.
I nuovi diaconi provengono da 9 Paesi: Brasile (2), Canada (2), Repubblica Ceca (1), Spagna (6), Italia (1), Messico (19), Stati Uniti (5), Venezuela (1) e Vietnam (1).
Tra loro due medici, tre ingegneri, un giornalista, un dottore in Bioetica e un esperto delle opere di Tolkien. L’ordinazione sacerdotale si terrà il 12 dicembre, festa di Nostra Signora di Guadalupe.
In quest’Anno sacerdotale saranno circa 60 i nuovi preti della Congregazione, presente in 22 Paesi, con 800 sacerdoti e 2600 seminaristi.

© Copyright Sir

Lucetta Scaraffia: Paolo tra noi (Osservatore Romano)


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Paolo tra noi

di Lucetta Scaraffia

Non è certo solo in questi giorni che il mondo ci appare diviso e sconcertato, per situazioni contingenti difficili e indubbiamente sgradevoli da affrontare, ma anche e soprattutto perché è in atto nei Paesi occidentali un cambiamento scientifico e culturale che sta attentando all'umano stesso. Mai come oggi, infatti, sembra sotto attacco quella somiglianza divina riconoscibile in ogni essere umano, unica che può garantirne la dignità. Le notizie che si rincorrono sui giornali sono quasi tutte negative e ci restituiscono un'immagine della nostra società così poco positiva che, talvolta, sembra irrimediabilmente lesa.
Tutto questo fa gravare su tutti noi una nuvola nera, ed è difficile pensare a come uscirne. Ma qualcosa in questi giorni è intervenuto per farci alzare lo sguardo in alto, per farci capire dove dobbiamo guardare per cambiare un mondo così deprimente. A poco a poco, tra le notizie che riempiono le pagine dei giornali, si è fatto spazio un volto nuovo, di un uomo calvo e barbuto dagli occhi profondi e dolcissimi, con la fronte segnata da tre rughe marcate, che ci osserva dopo sedici secoli: il volto di Paolo di Tarso, riemerso quasi miracolosamente dalle mani di una restauratrice nelle catacombe romane di Santa Tecla. Un viso carico di significati profondi: ci ha lasciati senza fiato non solo la straordinaria coincidenza - la scoperta è avvenuta pochi giorni prima della ricorrenza del santo, che ha concluso l'anno a lui dedicato dalla Chiesa cattolica - ma anche la sua incidenza tempestiva nel disordine dei nostri giorni.
Nel volto di Paolo - riconoscibile grazie a una iconografia affermatasi per rappresentare l'apostolo di cui, nel contesto di una cultura aniconica come quella ebraica e cristiana più antica, non c'erano veri ritratti - ravvisiamo quello tipico del filosofo greco (di Platone o di Plotino), ma insieme quello di uno degli iniziatori del cristianesimo. Vediamo così riunite le radici della nostra cultura, Atene e Gerusalemme, che ci compaiono davanti inattese, per ricordarci chi siamo, o meglio chi dovremmo essere. E a questi occhi sapienti che ci guardano si è subito aggiunta un'altra notizia strepitosa: ricerche condotte per la prima volta nel supposto sacello dell'apostolo sembrano confermare che i suoi resti mortali sono proprio lì, conservati in quella tomba, fra lini tinti di porpora e bordati d'oro, come si conviene a uno dei fondatori della Chiesa di Roma.
Con queste scoperte la straordinaria ricorrenza paolina - rimasta sinora confinata quasi solo all'interno del mondo cattolico, talvolta con celebrazioni che potevano sembrare di routine - all'improvviso ha ripreso vita, invadendo anche il mondo secolarizzato e abitualmente sordo alle vicende dei santi. È come se Paolo ci dicesse che c'è, che è ancora qui, tra noi, e che vuole farsi ascoltare. E se lo ascoltiamo, questo personaggio fondamentale che sta alle radici, non solo religiose ma anche culturali, morali e filosofiche della nostra civiltà, di cose da dirci per i nostri tempi grami ne ha tante, straordinarie e che hanno il sapore di verità e novità.
Paolo insegna che nella vita tutto può cambiare, tutto può prendere senso e imporre una direzione nuova: la sua conversione sulla via di Damasco rimane il modello di tutti i cambiamenti veri e profondi di cui può essere capace un essere umano, il modello per la svolta fondamentale che illumina una vita e, cambiando un uomo, trasforma una società intera. Paolo ci insegna che se noi diventiamo nuovi, possiamo rinnovare il mondo.
Quel momento imprevedibile e violento della conversione, cioè del cambiamento di una direzione sbagliata che diventa giusta e solleva con sé chi la compie, è stato oggetto di innumerevoli opere d'arte della nostra tradizione - anche se forse nessuno come il peccatore Caravaggio ha saputo rappresentarlo con tanta potenza - e di altrettante narrazioni, biografiche e autobiografiche. Sembra che a Paolo si addicano particolarmente le apparizioni repentine, forti, chiare, così come gli inviti a cambiare direzione, se sbagliata, e a muoversi con energia e coraggio.
Per i credenti il messaggio è chiaro, e l'ha spiegato Benedetto XVI con la sua profonda e lucida parola. Ma penso che anche da chi non crede questo segnale possa essere colto: da Atene e da Gerusalemme, cioè dalle nostre radici, a ogni persona arriva un invito a dare una risposta forte, a risollevarci dal profondo, a ricominciare una vita nuova.

(©L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2009)

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Clicca qui per leggere il commento di Sandro Magister segnalatoci da Alessia.

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La fede e gli apostoli

Per la festa dei santi patroni di Roma Benedetto XVI ha rivolto a tutti i cattolici parole che meritano ascolto anche oltre i confini visibili della Chiesa e che resteranno, meditando su ciò che è essenziale: la verità.
Quella verità che Pietro e Paolo hanno predicato sino a versare il loro sangue sotto Nerone, rendendo a Cristo l'estrema testimonianza (in greco, martýrion) nella capitale dell'impero. Il martirio dei due apostoli ha fondato la Chiesa romana, come nei secoli hanno riconosciuto milioni di fedeli inginocchiati davanti alle loro tombe indicate già diciotto secoli fa dalla pietà cristiana, che è radicata visibilmente nella storia.
Come hanno affermato Pio XII e Paolo VI per san Pietro e ora il loro successore per san Paolo.
Parlando del convertito sulla via di Damasco il Papa ha ricordato come con Cristo sia iniziato un nuovo modo di adorare Dio, un culto personale e profondamente vero perché si realizza con la vita. Con quel rinnovarsi interiormente che è l'unica via per cambiare il mondo senza conformarsi a esso. Per un nuovo modo di pensare e di essere, non da bambini ma da adulti.
Certo, non nel senso, bambinesco appunto, con cui si è giunti a stravolgere l'espressione "fede adulta", vedendo in essa un atteggiamento maturo e coraggioso, eventualmente anche contro il magistero della Chiesa. Con amara ironia Benedetto XVI ha ricordato come in questo modo non si dimostri molto coraggio, nelle attuali società scristianizzate.
Adulta è invece la fede che, nella verità, sa impegnarsi - ha esemplificato il Papa - per l'inviolabilità della vita umana fin dal primo momento e per l'ordinamento, che è naturale e cristiano, del matrimonio indissolubile. Opponendosi in nome della verità, che non può essere separata dalla carità, alla menzogna. E l'impegno per la verità che guarda a Cristo è profondo: "Noi abbiamo bisogno di una ragione illuminata dal cuore, per imparare ad agire secondo la verità nella carità", ha sintetizzato Benedetto XVI.
Sin dagli studi e dalle opere giovanili Joseph Ratzinger, imbevuto della tradizione cristiana, si è prefisso il compito di spiegare "l'alfabeto della fede" nel nostro tempo, e questo servizio, che è teologico e pastorale insieme, continua a svolgere come successore di Pietro.
E attraverso il primo degli apostoli ha guardato ancora una volta a Cristo "vescovo delle anime" nella solenne liturgia della consegna del pallio, che esprime anche visibilmente la comunione cattolica. Per scendere nel profondo della verità testimoniata dagli apostoli e ripetere che - nonostante i conformismi del mondo e nonostante i nemici, ancora una volta chiamati evangelicamente "lupi" - sull'esempio di Pietro e di Paolo e di santi come Francesco, il curato d'Ars e padre Pio, i vescovi e i sacerdoti hanno soprattutto il compito di aprire i cuori e le anime a Dio. Perché soltanto così è possibile rendere presente Dio nel mondo e rinnovarlo.

g. m. v.

(©L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2009)

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CONCLUSO L’ANNO PAOLINO

Nell’atto conclusivo di questi dodici mesi 'speciali', il Pontefice lo ha esaltato come «l’Apostolo del non-conformismo, della fede adulta e della verità nella carità»

Il Papa: sue le ossa, la scienza conferma

DA ROMA MIMMO MUOLO

San Paolo continua a camminare anche sulle strade del terzo millennio.
Alla fine dell’an­no che Benedetto XVI ha voluto dedicargli, l’esempio dell’ « Apostolo del non- conformismo, della fede adulta e della verità nella carità» – come lo stesso Pontefice l’ha definito nell’atto conclusi­vo di questi 12 mesi speciali – continua infatti a ir­radiarsi dalla tomba situata nella Basilica di San Paolo fuori le Mura.
Tomba mai aperta in venti se­coli, ma che (in base a una indagine effettuata con una microsonda) contiene frammenti ossei ap­partenuti a una persona vissuta tra il I e il II seco­lo. e «sembra confermare, dunque – ha commen­tato Papa Ratzinger – l’unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell’apostolo Paolo».
L’annuncio, molto importante non solo sul piano archeologico, è giunto domenica sera, dallo stesso Benedetto XVI, durante la celebrazione dei Primi Vespri del­la Solennità dei santi Pietro e Pao­lo che il Vescovo di Roma ha pre­sieduto nella grande Basilica sul­la via Ostiense.
«L’anno comme­morativo della nascita di san Pao­lo si conclude stasera – ha ricor­dato il Papa –. Siamo raccolti pres­so la tomba dell’Apostolo, il cui sarcofago, conservato sotto l’alta­re papale, è stato fatto recente­mente oggetto di un’attenta ana­lisi scientifica: nel sarcofago, che non è stato mai aperto in tanti secoli, è stata praticata una picco­lissima perforazione per introdurre una speciale sonda, mediante la quale sono state rilevate trac­ce di un prezioso tessuto di lino colorato di por­pora, laminato con oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di lino. È stata anche rilevata la presenza di grani d’incenso rosso e di so­stanze proteiche e calcaree. Inoltre, piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14 da parte di esperti ignari della loro provenien­za, sono risultati appartenere a persona vissuta tra il I e il II secolo». Dunque, con tutta probabilità quella è la tomba di san Paolo.
E «questo riempie il nostro animo di profonda emozione » , ha ag­giunto il Pontefice. Ecco, quindi, che i milioni di pellegrini che sono sfilati nell’ultimo anno davanti a quel sarcofago, hanno in un certo senso «seguito le vie dell’Apo- stolo». «Quelle esteriori e più ancora quelle inte­riori », ha rimarcato Benedetto XVI. E anche in fu­turo avverrà lo stesso.
«L’Anno Paolino si conclu­de – ha fatto notare in effetti il Pontefice –, ma es­sere in cammino insieme con Paolo, con lui e gra­zie a lui venir a conoscere Gesù, e, come lui, esse­re illuminati e trasformati dal Vangelo – questo farà sempre parte dell’esistenza cristiana».
Nel corso dell’omelia Benedetto XVI ha anche pro­posto una sorta di bilancio degli insegnamenti pao­lini maggiormente messi in evidenza dall’Anno appena terminato.
Prima di tutto «l’Apostolo ci e­sorta ad un non-conformismo». In pratica «non sottomettersi allo schema dell’epoca attuale». Il modo di pensare comune è rivolto, in genere, ha ricordato infatti il Papa, «verso il possesso, il be­nessere, l’influenza, il successo, la fama e così via». Invece «bisogna imparare a comprendere la vo­lontà di Dio, così che questa pla­smi la nostra volontà».
Secondo insegnamento. «Paolo desidera che i cristiani abbiano una fede adulta». Frase che negli ultimi anni «è diventata uno slo­gan diffuso». Il problema è che la si intende «nel senso dell’atteg­giamento di chi non dà più a­scolto alla Chiesa e ai suoi Pa­stori, ma sceglie autonomamen­te ciò che vuol credere o non cre­dere ». Il Papa ha ricordato, inve­ce, che «fa parte della fede adul­ta impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana, riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vita». In altri termini «non lasciarsi trasportare qua e là da qualsiasi corrente» e «opporsi ai venti del­la moda». In definitiva (ed è il terzo insegnamento sottoli­neato da Benedetto XVI) «l’Apostolo ci dice che, a­gendo secondo verità nella carità, noi contribuia­mo a far sì che il tutto (l’universo) cresca ten­dendo a Cristo. Chi insieme con Cristo serve la verità nella carità, contribuisce al vero pro­gresso del mondo».
La celebrazione dei vespri ha a­vuto anche una coloritura ecu­menica, grazie alla partecipa­zione di una delegazione del Pa­triarcato ecumenico di Costanti­nopoli. Così san Paolo continua a camminare anche sulle vie dell’u­nità dei cristiani.

© Copyright Avvenire, 30 giugno 2009

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Caritas in veritate: Davanti a tutto l'uomo, non il denaro (Carlo Marroni)

Capitani non coraggiosi. Benedetto XVI mette a nudo i cattolici “adulti” (Magister)

Il Papa: "Rendere sempre di nuovo presente la parola di Dio e dare così nutrimento agli uomini è il compito del retto Pastore. Ed egli deve anche saper resistere ai nemici, ai lupi. Deve precedere, indicare la via, conservare l’unità del gregge" (Straordinaria omelia del Santo Padre)

«C'è San Paolo nella tomba, ecco le conferme». L'annuncio direttamente da Benedetto XVI (Bobbio)

Il Papa: La scienza conferma che nella tomba vi sono i resti mortali dell’apostolo Paolo (AsiaNews)

Il Papa: "E' ormai prossima la pubblicazione della mia terza Enciclica, che ha per titolo Caritas in veritate" (Izzo)

Il Papa chiude l'Anno Paolino: La parola “fede adulta” negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso...E lo si presenta come “coraggio” di esprimersi contro il Magistero della Chiesa. In realtà, tuttavia, non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo “schema” del mondo contemporaneo. È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una “fede adulta” (Monumentale omelia del Santo Padre)

L'ESAME DEL CARBONIO 14 CONFERMA: IL CORPO CUSTODITO NELLA BASILICA OSTIENSE E' DELL'APOSTOLO PAOLO. ANNUNCIO DEL PAPA E COMMENTI

DOPO I RINVENIMENTI LO SAPPIAMO ANCORA DI PIÙ

Cristò affidò la sua Chiesa a uomini in carne e ossa

MARINA CORRADI

«Tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato con oro zecchino...
Grani di incenso rosso...
Piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14... risultati appartenere a persona vissuta fra il I e il II secolo».
Le parole di Benedetto XVI nella Basilica di San Paolo fuori le Mura descrivono minutamente l’inventario di ciò che una sonda ad alta tecnologia introdotta nel sarcofago sotto l’altare ha trovato. Lino color della porpora, intessuto di oro: quel defunto era stato avvolto in un sudario da imperatore. Sepolto come un re, sulla strada verso Ostia, sul luogo noto per il martirio di Paolo. «Ciò – dice il Papa dopo un istante di pausa – sembra confermare l’unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell’apostolo».
Il corpo di Paolo.
Le sue ossa, incenerite da due millenni; la sua ultima veste drappeggiata sulle membra straziate, che ancora, nel buio sigillato della tomba, luccicano d’oro e di porpora, il colore del martirio. In qualcuno, nella folla dei fedeli, e tra quanti il giorno dopo hanno saputo, un tonfo al cuore.
Paolo è lì. Così come Pietro, in Vaticano. La tomba di Pietro è stata identificata, quasi sessant’anni fa, in un’edicola funeraria esattamente sottostante l’altare centrale della basilica. Sulla lapide era inciso, in greco: Petros enì,
Pietro è qui. E anche di Pietro furono rintracciate, dall’archeologa Margherita Guarducci, le ossa: frammenti d’ossa avvolti in porpora e oro.
Fu Paolo VI, il 26 giugno 1968, a dichiarare: Pietro è qui. Ma, potrebbe obiettare un non credente o un cristiano distratto, avete bisogno di queste ossa? A cosa serve, nella dinamica della Chiesa e della fede, quel povero cumulo d’ossa prosciugate dal tempo? Paolo, Pietro, non contano forse per ciò che ci hanno lasciato? Sì, certo. E tuttavia il corpo, tuttavia la carne è cosa straordinariamente rilevante, in questa storia di terra e di radici su cui sono piantate, come cose vive, le basiliche della cristianità. È la ragione per cui la basilica di San Pietro sorge sulla verticale di quella tomba, anche se poi la lapide e i graffiti vennero dimenticati per secoli. L’altare centrale è esattamente sopra quella piccola edicola, e la verticale della cupola cade proprio su quel punto del sottosuolo – come un raggio tagliente, o una ferita, fra la terra e il cielo di Roma.
In alto, dentro all’anello da cui si affacciano attoniti i turisti, sta scritto: «Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo aecclesiam meam». Super hanc petram, su questa pietra; su questa, e non altrove.
E ora anche a San Paolo fuori le Mura le sonde e il carbonio 14 ricostruiscono composizione chimica e età del contenuto di una tomba. Un uomo vissuto nel primo secolo, sepolto con gli onori di un re. I resti di Paolo. Ha bisogno il cristianesimo di queste ossa?
A stretto rigore si potrebbe dire di no. E tuttavia Cristo ha affidato la sua Chiesa a degli uomini, uomini di carne e di ossa. Non a discorsi, non a eteree parole ha consegnato il suo mandato: ma a uomini, che da una generazione all’altra lo trasmettessero ai figli. E noi, cronologicamente di questi figli gli ultimi, siamo emozionati e commossi dal sapere che, sotto le pietre delle nostre basiliche, ci sono i corpi dei primi dei santi. I loro volti, le loro mani, le instancabili forti gambe di Paolo: certo, polverizzate dai secoli, e però resti di carne. Vuol dire una gran cosa, quella tomba, quelle tombe, lì, e non altrove: vuol dire che crediamo in un fatto che è storia, storia carnale di uomini, e non leggenda, filosofia, o, come tristemente si equivoca oggi, astratti 'valori'. Crediamo in un Dio uomo che ha scelto Pietro, e che ha mandato Paolo, il suo persecutore, a annunciarlo. È storia.
Sui luoghi del martirio restano tombe con incensi e ori. E noi, uomini di ossa e carne, siamo grati di questi segni; perché, da uomini, abbiamo bisogno di toccare.

© Copyright Avvenire, 30 giugno 2009

Sulla foto di Lefebvre con Padre Pio ed il sacrificio dell'Eucarestia (Francesco Colafemmina)

Clicca qui per leggere l'articolo di Francesco Colafemmina.

Toccare il sacro, San Paolo è qui (Bruno Forte)


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L'ESAME DEL CARBONIO 14 CONFERMA: IL CORPO CUSTODITO NELLA BASILICA OSTIENSE E' DELL'APOSTOLO PAOLO. ANNUNCIO DEL PAPA E COMMENTI

TOCCARE IL SACRO, SAN PAOLO È QUI

di BRUNO FORTE

«SIAMO raccolti presso la tomba dell’Apostolo, il cui sarcofago, conservato sotto l’altare papale, è stato fatto recentemente oggetto di un’attenta analisi scientifica: nel sarcofago, che non è stato mai aperto in tanti secoli, è stata praticata una piccolissima perforazione per introdurre una speciale sonda, mediante la quale sono state rilevate tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato con oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di lino. È stata anche rilevata la presenza di grani d’incenso rosso e di sostanze proteiche e calcaree. Inoltre, piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14 da parte di esperti ignari della loro provenienza, sono risultati appartenere a persona vissuta tra il I e il II secolo. Ciò sembra confermare l’unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell’apostolo Paolo. Tutto questo riempie il nostro animo di profonda emozione».
È con queste parole che nella celebrazione dei primi Vespri della solennità dei Santi Pietro e Paolo Benedetto XVI ha annunciato al mondo il risultato delle indagini svolte sulla tomba dell’Apostolo nella Basilica romana di San Paolo fuori le Mura.
La cautela dell’uomo di studio evidente nella precisa ricostruzione del procedimento seguito e in quell’espressione «sembra confermare» si è unita alla sincera confessione dell’uomo di fede e del pastore: «Tutto questo riempie il nostro animo di profonda emozione». Perché? Che cosa ha di così importante il risultato della ricerca compiuta? Che cosa dice alla sensibilità spesso scettica e distratta di noi, figli del post-moderno, eredi della crisi della ragione totalizzante e del tramonto dei suoi miti ideologici?
Il primo motivo che rende “intrigante” quanto il Papa ha annunciato è l’idea che la traccia sicura dell’esistenza storica dell’Apostolo e della sua conclusione a Roma è lì, a portata di mano, tangibile come la pietra che l’avvolge. Paolo che giganteggia nella storia del cristianesimo e dell’Occidente, fino a essere chiamato il secondo “fondatore del cristianesimo” non è una figura evanescente, un mito costruito dal desiderio, ma quella persona storica, che in quel luogo preciso ha realizzato il commovente compimento della sua parabola terrena, descritto con immagini potenti in una delle Lettere: «Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2 Timoteo 4,6). È lì, in quel luogo della Roma di oggi, che Paolo si è offerto in sacrificio, ha sciolto le vele, ha concluso la sua lotta, è giunto al traguardo, conservando in tutto questo il dono più grande, quello che gli ha cambiato la vita e che con la sua passione ha consegnato al mondo: la fede. È come se le parole scritte ardessero di vita nuova in quel sarcofago custodito nei secoli: le spoglie terrene di Saulo di Tarso, i resti di quella carne di Paolo schiaffeggiata dall’angelo di Satana e vittoriosa sul male, sono proprio lì. Uno come noi, uno di noi, che come noi ha corso, ha lottato, ha chiuso gli occhi alla scena del mondo, si è offerto lì per amore in sacrificio, fedele al suo Signore, a dimostrare col dono totale di sé la verità del suo annuncio. Tutto questo, veramente e senza retorica, «riempie il nostro animo di profonda emozione».
C’è poi una seconda ragione che rende significativo il risultato dell’indagine compiuta: sin dagli inizi quel corpo devastato dalla morte cruenta è stato oggetto non solo di immensa pietà, ma di venerazione e tenerissimo amore. Lo dimostrano con la loro silenziosa eloquenza quelle «tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato con oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di lino». Sembra perfino gridarlo quella rilevata «presenza di grani d’incenso rosso»: in pieno contrasto con l’apparente vittoria dei loro persecutori, i cristiani sin dall’inizio hanno tributato all’Apostolo i segni di un onore e di una venerazione, che esprimevano la consapevolezza di un immenso debito verso di lui, di una gratitudine profonda e commossa. Se a questo si aggiunge il fatto che quel «sarcofago, conservato sotto l’altare papale, non è stato mai aperto in tanti secoli», custodito come reliquia preziosa fino a quasi scomparire nella solenne sacralità del luogo eretto a testimoniarne la presenza, si comprende come quell’amore per Paolo ha attraversato i secoli, ha legato fra loro generazioni di cristiani, quasi a trasmettere di testimone in testimone la sua passione per il Vangelo, il suo ardente amore per il Signore Gesù, di cui ha voluto essere nient’altro che il servo e l’Apostolo, il prigioniero innamorato e fedele fino alla fine. L’emozione dei risultati dell’indagine scientifica comunicati dal Papa si colora qui dell’altro, provocatorio significato: quanto Paolo è stato, quanto egli ha annunciato al mondo e consegnato alle sue lettere, quanto i suoi resti mortali ci comunicano, non vuol essere soltanto oggetto di stupita ammirazione. Paolo, come Cristo, chiede imitatori. Così Søren Kierkegaard chiarisce la differenza: «Un imitatore è ossia aspira a essere ciò ch’egli ammira; un ammiratore invece rimane personalmente fuori: in modo conscio o inconscio egli evita di vedere che quell’oggetto contiene nei suoi riguardi l’esigenza d’essere o almeno d’aspirare a essere ciò ch’egli ammira» (da Esercizio del cristianesimo). Perciò «tutta la vita del Cristo sulla terra, dal principio alla fine, fu indirizzata assolutamente ad avere solo imitatori e a impedire gli ammiratori». Così è anche per Paolo, che in modo rinnovato dalla traccia eloquente della sua vicenda terrena sembra lanciare la sfida a una decisione, che si può prendere solo pagando di persona: «Camminare soli! Sì, nessun uomo, nessuno, può scegliere per te oppure in senso ultimo e decisivo può consigliarti riguardo all’unica cosa importante, riguardo all’affare della tua salvezza... Soli! Poiché quando hai scelto, troverai certamente dei compagni di viaggio, ma nel momento decisivo e ogni volta che c’è pericolo di vita, sarai solo» (S. Kierkegaard, Il Vangelo delle sofferenze). Solo come lo fu Paolo, in quel tramonto della sua esistenza terrena, fiammeggiante come uno degli stupendi tramonti romani, quando fu decapitato con la spada alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense, nel luogo detto “Aquae Salviae”, per essere sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura, scrigno dei suoi resti mortali, eloquenti oggi più che mai, al pari di tutta la sua vita.

© Copyright Il Messaggero, 30 giugno 2009 consultabile online anche qui.

In attesa della “Caritas in veritate” (Stefano Fontana)


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ENCICLICA - Sostenibilità evangelica

In attesa della “Caritas in veritate”

Stefano Fontana

Lunedì 29 giugno Benedetto XVI ha firmato la nuova enciclica sociale – la terza del suo pontificato – dal titolo “Caritas in veritate”.
Si rimane in attesa della presentazione dell’enciclica in Sala Stampa nei prossimi giorni, da parte del Presidente e del Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, rispettivamente il cardinale Martino e il vescovo Crepaldi, che hanno particolarmente coadiuvato il papa per la stesura di questo importante documento.
Parlando ai fedeli all’Angelus di lunedì scorso, il papa stesso ha ricordato l’evento della firma della nuova enciclica, invitando a pregare perché essa possa suscitare energie nuove a sostegno, ha detto, dello “sviluppo sostenibile”.
E’ probabile che questo aggettivo adoperato da Benedetto XVI – “sostenibile” – possa venire frainteso e suscitare così false aspettative sull’enciclica.
La sostenibilità di cui parla Benedetto XVI non è solo - né in primo luogo – quella ambientale, come spesso oggi si intende dire quando si adopera il termine sostenibilità. Egli nell’enciclica parlerà soprattutto della sostenibilità umana dello sviluppo e, anche, della sostenibilità evangelica. Anche nelle parole pronunciate all’Angelus di lunedì, Benedetto XVI ha ripetuto quello che dice da sempre: non c’è sviluppo se non umano e non c’è sviluppo umano senza la luce del Vangelo. Parlando infatti della chiusura dell’anno paolino, Benedetto XVI ha esortato a «rimanere fedeli alla vocazione cristiana e a non conformarvi alla mentalità di questo mondo – come scriveva l’Apostolo delle genti proprio ai cristiani di Roma -, ma a lasciarvi sempre trasformare e rinnovare dal Vangelo, per seguire ciò che è veramente buono e gradito a Dio (cfr Rm 12,2)». Gli organi di stampa aspettano l’uscita dell’enciclica per soppesare come il papa valuterà la crisi finanziaria in corso, ma il vero senso dell’enciclica sarà di riproporre la necessità pubblica della luce evangelica per capire e promuovere il vero sviluppo. Sviluppo “sostenibile” dall’uomo, quindi sviluppo umano. Lo sviluppo, infatti, o è umano o non è sviluppo.
Da questa luce il papa trarrà, come ha detto sempre all’Angelus di lunedì, alcune riflessioni in ricordo della Populorum Progresso di Paolo VI, scritta nel lontano 1967. La “Caritas in veritate”, infatti, era originariamente stata concepita come commemorativa dei 40 anni della Populorum progressio, ossia dell’enciclica che per prima parlò dello sviluppo dei popoli, dilatando la “questione sociale” a livello mondiale. La elaborazione del testo della nuova enciclica ha richiesto più tempo del previsto, per cui essa non è potuta uscire nel 2007.
Mantiene però ugualmente la struttura della commemorazione e dell’aggiornamento della Populorum progressio. E che criteri adopererà per realizzare questa attualizzazione? Sempre all’Angelus di lunedì scorso il papa ci ha detto che lo farà “alla luce della carità nella verità”, come del resto dice anche il titolo della nuova enciclica.
Si noti che la prospettiva è piuttosto originale. Nella Lettera agli Efesini, Paolo dice che si deve fare la “verità nella carità” (anche se nella prima ai Corinti dice che la carità “si compiace della verità”). Il papa invece ha qui scambiato i termini. Egli non vuole certo negare l’importanza della carità – ha scritto un’enciclica per dire che Deus caritas est – ma richiamarci al fatto che l’amore del prossimo è autentico amore quando lo rispetta nel suo essere, nelle sue profonde esigenze umane e dentro il progetto di Dio. Viceversa l’amore si riduce a sentimento, la carità a interessata assistenza e gli aiuti a chi è nel bisogno diventano preda di logiche scorrette e scomposte. Questo vale anche nelle varie forme di aiuto a chi è ancora indietro nel progresso: di fatto non si aiutano i paesi poveri se non si rispetta la verità delle regole economiche, se non si tiene conto di come vengono gestiti gli aiuti, se non si promuove lo sviluppo in tutta la verità delle sue forme e non solo in quelle materiali. Del resto la verità dello sviluppo pone molte domande inquietanti anche ai paesi ricchi e progrediti, perché il loro “supersviluppo” spesso non è vero sviluppo.
Non deve passare inosservato che se la carità è autentica solo nella verità, allora la carità cristiana può vantare una pretesa pubblica, in quanto promuove la vera umanità, rispetta le esigenze della ragione comune a tutti gli uomini, non si qualifica come un atteggiamento sentimentale ma come una proposta di umanizzazione delle relazioni sociali. Se la carità è radicata nella verità, allora può essere comunicata e fatta oggetto di dibattito razionale pubblico. Il titolo è quindi molto “ratzingeriano” ed esprime ancora una volta la convinzione che il cristianesimo è la religione “dal volto umano”.
Credo che la nuova enciclica di Benedetto XVI, proprio perché proporrà una carità dentro la verità, eliminerà molti luoghi comuni sullo sviluppo, metterà in evidenza le molte nuove ideologie che pesano anche oggi sullo sviluppo – dal terzomondismo che rimane ancora legato alla obsoleta contrapposizione Nord-Sud, all’ecologismo che condanna le “colpe” contro la natura e parla di “diritti della natura” mentre sia le colpe che i diritti riguardano solo l’uomo, alla decrescita che testimonia una scarsa fiducia nell’uomo - e proporrà la sapienza che deriva dal realismo cristiano. Alla Chiesa sta a cuore l’uomo, l’uomo concreto, peccatore e giusto, ossia l’uomo vero.

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