lunedì 9 marzo 2009

La forza di un Papa inerme in Terra Santa (Brunelli)


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La forza di un Papa inerme in Terra Santa

Lucio Brunelli

È il viaggio dei viaggi. Il sogno di ogni successore dell'apostolo Pietro tornare nei luoghi dove tutto iniziò. Terra Santa, appunto. L'annuncio ieri, all'Angelus, in una piazza San Pietro scaldata da un sole primaverile, con le mimose portate dalle donne per la festa dell'8 marzo. Benedetto XVI ha indicato le date (8-15 maggio) e il senso del suo pellegrinaggio: «Domanderò al Signore, visitando i luoghi santificati dal suo passaggio terreno, il prezioso dono dell'unità e della pace per il Medio Oriente». Sarà il terzo pellegrinaggio di un Papa in Terra Santa. Il primo fu Paolo VI nel 1964. Era dai tempi apostolici che un Papa non si inginocchiava a baciare la pietra del Santo Sepolcro. Gerusalemme era ancora territorio giordano. Papa Montini fu letteralmente sommerso e trascinato dalla folla, la sicurezza non era ancora un'ossessione. Mancavano tre anni alla guerra che in sei giorni avrebbe rivoluzionato i confini politici della regione. E acceso nuovi odi. Fra la Santa Sede e lo Stato ebraico non s'erano ancora stabilite relazioni diplomatiche. L'inasprimento del conflitto israelo-palestinese rese impossibile un altro viaggio in Terra Santa per quasi 40 anni. Giunse l'anno del Grande Giubileo, il Papa giramondo non poteva rischiare di concludere il suo lungo pontificato senza essersi mai prostrato in preghiera nel luogo dove il Verbo si è fatto carne. Fu un'emozione per tutti. Marzo 2000. Una raffica di istantanee entrata nei libri di storia. Wojtyla, alla maniera ebraica, poggia in una fessura del Muro del Pianto un biglietto-preghiera di riconciliazione con i «fratelli maggiori». Wojtyla, mano nella mano con Yasser Arafat, visita il campo profughi di Betlemme. E poi il vecchio Papa che si curva sul marmo del sepolcro di Cristo e lo accarezza con le mani già tremanti per il Parkinson. Sembrò in quei giorni che anche la pace fosse più vicina. Ma, sei mesi dopo, la passeggiata di Sharon sulla spianata delle Moschee fu la scintilla di nuove infinite violenze.

Fin dall'inizio del pontificato Benedetto XVI espresse il desiderio di pregare nei luoghi santi. Dietro l'annuncio di ieri c'è una storia lunga e complicata. La guerra di Gaza costrinse a sospendere i preparativi. Poi, quando la macchina organizzativa si era appena rimessa in moto, esplose il caso Williamson. Con le reazioni di fuoco del mondo ebraico alle dichiarazioni sconcertanti del vescovo lefebvriano negazionista. E le pazienti, ripetute, umili chiarificazioni del Papa.
Molti gli sconsigliavano di affrontare i rischi di questo viaggio. Non solo quelli legati alla sicurezza. Ma anche i rischi politici. Una parte dei cristiani palestinesi temeva un pellegrinaggio troppo condizionato dalle ultime polemiche e quindi politicamente sbilanciato a favore di Israele. Si chiedeva di legare il sì al viaggio ad alcune condizioni, come la soluzione del problema dei visti per i sacerdoti, che sono spesso impediti di spostarsi nei territori palestinesi. Anche ieri, tra l'altro, a tre preti cattolici è stato negato di raggiungere Gaza dove avevano in programma una messa nell'unica parrocchia del posto.
Il Papa ha valutato tutte queste obiezioni e tutti i possibili rischi. Ma poi ha deciso. Ed è il caso ora che tutti lascino da parte le loro perplessità e si stringano attorno al successore di Pietro che torna nella terra del Nazareno. C'è un valore di testimonianza in questa coraggiosa inermità del Papa che supera e deve superare ogni altra considerazione. E poi non ci saranno mai, purtroppo, in quella regione santa e martoriata, le condizioni ottimali sul piano politico. Lo disse mesi fa, con grande saggezza, il patriarca latino di Gerusalemme monsignor Fouad Twal: «Se aspettiamo che da noi i tempi siano maturi, allora passeranno altri due o tre pontificati…».

© Copyright Eco di Bergamo, 8 marzo 2009

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