giovedì 25 giugno 2009

Barack Obama arriva in Vaticano. Due fazioni lo attendono (Rodari)


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Barack Obama arriva in Vaticano. Due fazioni lo attendono.

Paolo Rodari

giu 25, 2009 il Riformista

Due anime, due fronti, due pensieri distinti guarderanno il prossimo 10 luglio, dall’interno del Vaticano, Benedetto XVI ricevere Barack Obama: la notizia della visita di Barack, confermata dal portavoce vaticano padre Federico Lombardi, era stata data ieri dal Catholic News Service, l’agenzia di stampa dei vescovi americani.
C’è il fronte dei duri che ritiene che l’arrivo di Obama serva a poco se non a nulla. Le scelte di Barack - soprattutto quelle «pro choice» prese nei primi mesi di mandato alla casa Bianca -, infatti, direbbero tutto di lui e a poco servirebbe dialogare. E, per questo, il 10 luglio altro non sarebbe se non una bella ma inutile photo-opportunity.
E c’è il fronte di coloro che, all’opposto, ritengono che prima di chiudere occorra aprire e dopo valutare come comportarsi. Prima di giudicare occorra mettere in campo ogni tentativo per comprendere e, insieme, cercare di mediare laddove le differenze sono acute.
Il primo fronte è formato principalmente dai vescovi americani in servizio oltre il Tevere. Questi sono legati a doppio filo con quella parte, non esigua, dell’episcopato statunitense che criticò la scelta della Notre Dame University d’invitare Obama per il “commencement speech” del 17 maggio scorso e per offrirgli un laurea ad honorem. Il loro guru, ovvero colui al quale si riferiscono quando debbono prendere decisioni rilevanti, è il 74enne arcivescovo di Philadelphia, il cardinale Francis Rigali. È lui a dettare la linea. In passato segretario della congregazione dei Vescovi, da quando risiede a Philadelphia prende spesso l’aereo per Roma. Della congregazione dei Vescovi, infatti, è ancora membro influente tanto che si dice che la maggior parte delle nomine di vescovi per il mondo anglo-americano passino il vaglio suo e dei suoi aficionados: il penitenziere maggiore della Penitenzieria Apostolica il cardinale James Francis Stafford, il prefetto della congregazione per la Dottrina della Fede il cardinale William Joseph Levada (che deve a Rigali l’arrivo a Roma da San Francisco) e l’arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore il cardinale Bernard Francis Law. Rigali ha “dettato” come comportarsi già dal marzo scorso. Fu lui a definire «una triste vittoria della politica sulla scienza e l’etica» la decisione di Obama di firmare l’ordine esecutivo che revoca i limiti sui finanziamenti per la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Parole fatte proprie anche dal presidente della conferenza episcopale Francis Eugene George.
Il secondo fronte, trova spago nella politica messa in campo dal nunzio vaticano negli Stati Uniti Piero Sambi. Questi - come è logico che sia visto il ruolo che ricopre -, lavora per sanare gli attriti tra l’amministrazione Usa e la Santa Sede. E, in questo senso, si è adoperato per far sì che il nome del successore di Mary Ann Glendon (ex ambasciatrice Usa presso la Santa Sede) trovasse l’agreement vaticano. È stato infatti lui a definire, a dispetto di quanto non hanno fatto la maggior parte dei suoi confratelli americani, la scelta del successore della Glendon, Miguel Diaz, come «eccellente».
È tra coloro che fanno parte di questo secondo fronte che l’arrivo di Obama alla Notre Dame venne letto non negativamente soprattutto alla luce di quel lampo nel discorso nel quale lo stesso Barack tracciò i confini di un dialogo necessario per aiutare le donne a non abortire. Una lettura, quest’ultima, che in qualche modo sembra essere stata fatta propria anche dall’Osservatore Romano che, nonostante le critiche dei principali promulgatori del pensiero cattolico neoconservatore americano, promosse nero su bianco i primi cento giorni alla casa Bianca di Obama.
Più defilati restano altri due americani in curia: l’arcivescovo James Harvey, prefetto della Casa pontificia e Raymond Leo Burke, prefetto del supremo tribunale della segnatura apostolica. Quest’ultimo è tenuto in disparte dal gruppetto capitanato da Rigali, nonostante il suo pensiero su Obama sia critico e lo sia da tempi non sospetti. Quanto ad Harvey, è difficile decifrare il suo pensiero. Si sa che è molto influente e che, vista la frequentazione che per il ruolo che ricopre ha con l’appartamento papale, possa favorire o sfavorire agli occhi del Pontefice l’immagine del successore de George W. Bush. Harvey ha dato una dimostrazione della sua influenza con la recente nomina di Timothy Dolan ad arcivescovo di New York. L’ascesa di Dolan, infatti, si deve principalmente ad Harvey il quale, non per niente, è nato a Milwaukee, appunto la città dove Dolan era arcivescovo prima dell’arrivo a New York.

© Copyright Il Riformista, 25 giugno 2009 consultabile online anche qui, sul blog di Rodari.

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