sabato 29 novembre 2008
Mons. Fisichella: Diritti umani e diritto naturale. La lezione di re Mida (Osservatore Romano)
Vedi anche:
Il cuore «verde» della Santa Sede. La responsabilità di proteggere l'ambiente (Osservatore Romano)
India. I cristiani tra due fuochi (Magister e Amaladoss)
A maggio il Papa andrà in Israele (Politi)
Donato al Papa il libro d’arte Fmr-Marilena Ferrari. Il volume è in soli cinque esemplari
Jean-Louis Bruguès: Passa ancora per Aquino il dialogo con la modernità (Osservatore Romano)
Don Éric Jacquinet: La Chiesa deve imparare il linguaggio delle nuove generazioni (Osservatore Romano)
Marcello Pera: Benedetto XVI può aiutare il liberalismo a riscoprire le sue radici cristiane (Radio Vaticana)
Card. Arinze: le celebrazioni siano ben curate in ogni parte (Radio Vaticana)
Il Papa a maggio in Terra Santa (Galeazzi)
Gli attacchi a Mumbai e la persecuzione dei Cristiani in India: il doppiopesismo dei media (Agnese)
Sincretismo e relativismo, Messori: "Ad Assisi "sacrificavano" anche i polli". Le riserve di Ratzinger limitarono i danni (Stampa 2005)
Lettera-prefazione del Papa al libro di Marcello Pera: La fede non si può mettere tra parentesi. Urge il dialogo interculturale
Diritti umani e diritto naturale
La lezione di re Mida
In occasione della giornata inaugurale del master in bioetica del Pontificio Ateneo Regina Apostolorum a Roma, ha tenuto una relazione l'arcivescovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita e rettore della Pontificia Università Lateranense. Ne pubblichiamo un estratto.
di Rino Fisichella
Mida, il mitico re della Frigia, un giorno incontrò nel suo giardino il vecchio Silene, precettore di Dioniso. Il vecchio, alquanto brillo, era caduto dalla groppa del suo asino e girando per il giardino si smarrì. Il re Mida, consapevole di chi avesse dinanzi lo ospitò con grandi onori per ricondurlo poi a Dioniso.
In segno di riconoscenza per il suo aiuto, Dioniso chiese al re in quale modo avrebbe potuto ricompensarlo. Noto per la sua avidità, il re chiese che diventasse oro tutto ciò che avrebbe toccato; la sua richiesta fu prontamente esaudita. Re Mida fu felice: tutto ciò che toccava diventava davvero oro. Ben presto però si accorse di quanto infausta fosse stata la sua richiesta; diventava oro, infatti, anche ciò che portava alla bocca, ogni sorta di cibo e di bevanda.
Per non morire di fame e di sete, il re ritornò dal dio Dioniso chiedendogli di accogliere la sua rinuncia al dono ricevuto. Fu accontentato a patto di lavarsi prima nelle acque del fiume Pattolo che, da quel giorno, fu ricolmo di pagliuzze d'oro.
Sappiamo che nella mitologia antica Dioniso rappresenta tutto ciò che vi è di istintivo, sensuale e irrazionale nella vita; non è un caso, quindi, che l'incontro con l'avidità di Mida abbia prodotto una miscela di morte. Il mito antico è una parabola per l'uomo contemporaneo. Se si vuole procedere sulla strada che tutto ciò che si vuole venga riconosciuto come un diritto, alla fine non resterà che dichiarare la morte per incapacità a formare una società.
Chiuso in se stesso, l'uomo non potrà andare troppo lontano; la linfa per vivere gli è data dalla relazionalità, senza della quale non rimane che la più oscura solitudine e, quindi, la sterilità per non poter generare con l'inevitabile conclusione della fine per la vita.
Re Mida dovette compiere un gesto simbolico: il bagno nelle acque del fiume. La stessa cosa sarà necessaria per il nostro contemporaneo se vuole sopravvivere; avrà bisogno di purificazione e di rinuncia. È una strada che non si vuole percorrere per la presunzione di non aver nulla di cui privarsi che non sia un proprio diritto; eppure, senza questa rinuncia è difficile vedere un reale futuro per la società. Il diritto è fondamentale, ma l'avidità per averne sempre di più conduce all'autodistruzione. Il momento di saper discernere ciò che vale e porta progresso genuino da quanto, invece, è solo frutto del desiderio e di una visione ideologica solipsistica è improrogabile.
Il tema dei diritti umani si coniuga con una visione antropologica che ne determina l'orizzonte interpretativo. Ciò comporta la centralità della persona come essere relazionale. Nessun uomo è un'isola non è solo il titolo di un felice romanzo di Thomas Merton. Indica, giustamente, la verità sottesa alla visione dell'uomo che porta ognuno naturalmente ad entrare in relazione con altri per formare una società di persone.
Le stesse neuroscienze, nel momento in cui indagano il mistero dell'esistenza racchiusa nella mente umana, giungono alla conclusione che l'uomo trova nella relazione interpersonale e sociale il suo spazio vitale. Da soli e rinchiusi in noi stessi non potremmo produrre molto; il linguaggio non esisterebbe, la scienza non sarebbe mai nata né il pensiero avrebbe mai avuto uno sviluppo logico.
Queste semplici realtà, per restare solo nelle esemplificazioni, richiedono l'apertura di noi stessi all'altro come luogo del confronto e della complementarità. Questa relazionalità non si conclude con il proprio simile, ma si apre alla trascendenza; in forza di questa apertura, infatti, ognuno riconosce l'altro come depositario della stessa dignità, perché tutti racchiusi nello stesso abbraccio di un Dio che ama e crea. La centralità della persona, quindi, non annulla l'individuo né umilia la coscienza; al contrario, ne esalta le qualità e ne eleva lo sguardo.
Viviamo un periodo che permette di verificare le grandi conquiste della scienza e della tecnica. L'uomo in questa visione non si sente più intimamente legato alla natura come nel passato; il fatto di poter intervenire in essa e di produrre qualcosa di impensabile nel passato, come ad esempio la clonazione, porta come conseguenza ovvia un mutato atteggiamento nei confronti della natura e dell'uomo stesso. La vita diventa un prodotto da laboratorio, non più un dono della natura o il frutto della provvidenza.
La tentazione che sovrasta costantemente il nostro tempo - in maniera esplicita o implicitamente - è quella di raggiungere un uomo perfetto in tutte le sue componenti; quanti non rientrano più in questo schema devono trovare altre alternative siano esse la soppressione prima della nascita con una evidente selezione eugenetica, l'emarginazione sociale o l'interruzione della vita prima del suo fine naturale. Non bisogna essere nemici della scienza e del progresso per verificare che questo stato di cose non è frutto della fantasia, ma purtroppo realtà dei nostri giorni.
Quale possa essere la reazione dell'uomo comune dinanzi a queste scoperte è facile indovinarlo; da una parte, emerge un tratto di meraviglia ed entusiasmo per le possibili mete che possono essere raggiunte e che produrranno non solo un prolungamento della vita, ma anche una sua migliore qualità; dall'altra, tuttavia, non è esclusa una sorta di paura sempre sottesa quando ci si trova dinanzi a qualcosa di misterioso ed enigmatico che non si riesce a controllare fino in fondo e non si lascia pienamente dominare.
Il giudizio etico, a questo punto, diventa più problematico perché la nuova visione della natura e dell'esistenza personale traccia mete finora inesplorate e la prospettiva ideologica si lascia difficilmente guidare dalla ragione che ricerca il vero bene.
Sottoposta a una pressione comunicativa, spesso legata a interessi economici, la ragione personale non sempre trova la giusta via per il proprio giudizio. Accade così che la notizia può essere manipolata e la verità fatta dipendere non più in relazione al bene, ma ai sondaggi di opinione.
In un simile contesto, appare sempre più evidente quanto sia necessario ritrovare la strada perché laici e cattolici alla luce di un dialogo fecondo possano produrre un pensiero comune al di là delle differenze. Dovremo convincerci tutti, presto o tardi, che esiste un ordine nella creazione e questo fondamento va rispettato e custodito; preservare la natura non può essere il desiderio di pochi, ma la responsabilità di tutti. Il progresso della scienza, d'altronde, è veramente tale quando i risultati raggiunti non sono mai a danno dell'uomo, ma una sua salvaguardia. Ricerca e conquista scientifica, quindi, o si coniugano con i principi etici fondamentali che regolano l'ordine della natura e della vita personale o sono destinate al fallimento.
È urgente, a nostro avviso, recuperare in modo serio il tema della legge naturale come il principio a cui ricorrere, in una società laica e pluralista, per la rinnovata fondazione dei diritti dell'uomo. Questa legge diventa garanzia di libertà e fondamento per un giudizio etico che si relazioni al vero e al bene senza lasciarsi imbrigliare nelle secche del positivismo. Questa legge è ciò che consente di affermare che i diritti a cui facciamo appello non sono un'invenzione dovuta all'ingegno degli uomini di epoche storiche remote, ma la riscoperta perenne che ogni generazione compie di un contenuto che le viene offerto come puro dono. Quanto più cresce la conoscenza del creato e dell'uomo in esso e tanto più si tocca con mano il mistero che circonda la natura e l'esistenza personale. Più la scienza progredisce nel suo indagare sull'universo con le sue forme e maggiormente si scopre l'inadeguatezza dello strumento per entrare fino in fondo nel cosmo.
Se si vuole, la stessa osservazione può valere per il diritto. "Forse nessuna epoca meno della nostra - scriveva Sergio Cotta nel 1987 - ha saputo che cosa sia il diritto. È il comando del potere oppure la decisione dei giudici; una pluralità di ordinamenti chiusi oppure una unità sistematica; una prescrizione esteriore oppure comunitaria o, addirittura, interiore; l'imperativo della storia dello Spirito oppure dei rapporti di produzione?".
L'interrogativo non può rimanere senza risposta; obbliga in qualche modo a fare chiarezza, ma soprattutto a cercare di individuare la fonte stessa del diritto e il suo fondamento inalienabile. Se il diritto si limitasse a un accordo tra gli individui oppure a una convenzione tra gli Stati o a una ratifica di privilegi e obblighi da parte dei cittadini saremmo sempre all'insegna dell'arbitrarietà. Con ragione Benedetto XVI ha potuto affermare: "È opportuno ricordare che ogni ordinamento giuridico a livello sia interno che internazionale, trae ultimamente la sua legittimità dal radicamento nella legge naturale, nel messaggio etico inscritto nello stesso essere umano. La legge naturale è, in definitiva, il solo valido baluardo contro l'arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica. La conoscenza di questa legge iscritta nel cuore dell'uomo aumenta con il progredire della coscienza morale" (Discorso ai partecipanti al congresso internazionale sulla legge morale naturale, febbraio 2007).
Per parlare con coerenza del "diritto naturale" è necessario far riferimento alla "legge naturale" di cui rappresenta il contenuto oggettivo. Nelle sue determinazioni fondamentali, questo diritto è immutabile, ma la consapevolezza del suo valore storico, dei contenuti che esprime e dell'incidenza che questi hanno presso i singoli e le società matura con il crescere della coscienza etica che non può fermarsi mai, pena l'interruzione stessa del progresso spirituale dell'umanità.
La legge naturale non è un'invenzione cattolica come qualcuno vorrebbe semplicisticamente liquidare per non affrontare nei termini dovuti l'importanza e l'attualità del tema. Dietro questa espressione si nasconde la maturazione della ragione umana in diverse epoche storiche nel suo tentativo di saper cogliere il reale e poter dare risposta intelligente ai permanenti interrogativi che essa pone.
Le prime esperienze filosofiche, d'altronde sono legate alle domanda sulla natura; prima di qualsiasi altra questione, la ragione ha dovuto cercare di rispondere proprio all'interrogativo su cosa fosse la physis, la natura, termine equivoco eppure fondamentale per comprendersi. Bisogna ritornare ai libri della Fisica e della Metafisica di Aristotele per trovare un primo abbozzo articolato del concetto: "Natura è un principio e una causa del movimento e della quiete in tutto ciò che esiste di per sé e non per accidente" (Fisica, ii, 1); in altre parole, la natura è la generazione di tutto ciò che ha vita e si sviluppa.
Il termine physis viene fatto derivare dal verbo phyein che indica tutto ciò che viene generato, che nasce e che cresce; insomma, ciò che ha forma e sostanza è racchiuso nel termine "natura". Per avere una visione ancora più elaborata della legge naturale, si deve prendere tra le mani il famoso testo di Cicerone: "La legge naturale è la diritta ragione, conforme a natura, universale, costante ed eterna, la quale con i suoi ordini invita al dovere, con i suoi divieti distoglie dal male. Essa non comanda né vieta invano agli onesti pur non smuovendo i malvagi. A questa legge non è lecito fare alcuna modifica né sottrarre qualche parte, né è possibile abolirla del tutto; né per mezzo del Senato o del popolo possiamo affrancarci da essa né occorre cercarne il chiosatore o l'interprete. E non vi sarà una legge a Roma, una ad Atene, una ora, una in seguito; ma una sola legge eterna e immutabile governerà tutti i popoli in tutti i tempi, e un solo dio sarà come la guida e il signore di tutti: lui, appunto, che ha concepito, redatto e promulgato questa legge; alla quale l'uomo non può disobbedire senza fuggire da se stesso e senza rinnegare la natura umana, e senza per ciò stesso scontare gravissima pena, quand'anche sfuggisse le punizioni ordinarie" (La Repubblica, 3, 22, 33).
Le parole di Cicerone non hanno bisogno di particolare commento; ciò che il romano scriveva, trova riscontro nel filosofo greco e lo stesso può essere ritrovato in Israele sotto l'espressione "legge di Dio".
Nella concezione biblica, il diritto non si limita alla sola legge. Esso è concepito come un ordine che Dio stesso ha posto nel creato e ha stabilito per il suo popolo perché impari a trovare la sua volontà e metterla in pratica come premessa e condizione di felicità. Non è un caso che nella sacra Scrittura il tema del diritto venga spesso associato a quello di giustizia. La relazione riporta al primato della coscienza che si sente sempre impegnata nella ricerca della giustizia mediante l'applicazione di un "diritto" che non può essere solo ciò che è codificato, ma deve cogliere il senso profondo della volontà del Creatore.
È per questo motivo che la concezione biblica aggiunge un'originalità propria alla concezione greco-romana: la giustizia non consiste solamente nel rispettare una norma, fosse pure la più perfetta che si possa formulare, e non si conclude neppure nel garantire l'uguaglianza fra tutti i soggetti. La giustizia che si coniuga con il diritto deve essere capace di far emergere il vero bisogno di ogni persona, perché possa trovare il suo posto e svolgere il suo ruolo corrispondente in seno alla comunità. Questa esigenza fondamentale appare più necessaria del pane, a tal punto che la ricerca della dignità della persona permane nella visione biblica come il vero fondamento del diritto e la giustizia non corrisponde pienamente al suo scopo fin quando non ha realizzato questo compito.
(©L'Osservatore Romano - 29 novembre 2008)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
2 commenti:
l'uomo, in natura, avrebbe bisogno prima del pane, ma con le leggi gli imponiano di sentire prima il bisogno di essere parte integrante di una comunità. questa può anche essere una buona cosa, ma così facendo allontaniamo l'uomo dalla sua natura.
come si fa a dire che tutto si deve basare sulla legge naturale? nella natura dell'uomo esistono atteggiamenti riprorevoli e comportamenti criminali, e sono state leggi nate dalla razionalità ad allontanarlo da tale natura. a me sembra che con certi discorsi ci voglia arrogare il diritto di decidere cosa è naturale cosa non lo è. quando un cardinale fa questi discorsi è chiaro che mira a far passare come comportamento innaturale tutto cio che va contro la sua morale cattolica, entrando in contradizione con quello che dice sulla legge naturale, perchè in natura esiste la poligamia, l'omosessualità e altre cose belle e brutte che a seconda di come la vediamo ci possono piacere o no.
Io, molto modestamente, credo che un legge naturale esista. Sì, credo che ci siano leggi naturali e una legge iscritta nel cuore degli uomini. Tra l'altro credo che tra questi bisogni naturali insiti nell'uomo ci sia anche il bisogno di Dio e la coscienza di un qualcosa di invisibile e di un al di là, come si può vedere anche negli usi degli uomini primitivi, per esempio l'uomo di Neanderthal che seppelliva con cura e amore i suoi cari, come se sperasse in un al di là in cui desiderava fossero felici. Nella natura ci sono anche i comportamenti cui accenna Roberto, ma questo non mi fa trarre la conclusione che una legge naturale non esista o che tutto quello che si osserva in natura sia “naturale”nel senso che intendiamo in questa discussione, ma solo che anche nella natura esista un certo grado di libertà che però non smentisce un ordine voluto dal Padreeterno. Il Signore ha lasciato ampio margine di libertà all'uomo, anche quello di rovinarsi l'esistenza e l'anima. Ma che la Chiesa ricordi quest'ordine naturale , a me non provoca nessun moto di ribellione perchè mi sembra normale e sarei abbastanza stupita del contrario.
Non mi piace il termine "arrogarsi", ne ho pieni gli zebedei, perché l’ho letto troppe volte: esprimere il proprio insegnamento non vuol dire prepotenza, ma svolgere il proprio compito: che può piacere o non piacere , che si può accettare o non accettare ma che non si può pretendere silente. Liberamente, chiunque, può dire “io non ci credo” oppure “me ne frego”. Ma accusare chi non la pensa come noi che “si arroga” qualcosa è un espediente veramente zoppo. Sia che si tratti cardinale che di sacrestano o perpetua.
Bisogna che i laici evoluti accettino questo fatto: il diritto naturale può essere insegnato dalla Chiesa e non si può istituire un nuovo Indice dei libri e delle opinioni laico per impedirlo.
L’argomento è grosso e non si può liquidare in un post, ma insomma ho provato a dire la mia anche se in poco tempo.
Posta un commento