sabato 14 marzo 2009

Boffo commenta la lettera del Papa ai vescovi della Chiesa Cattolica


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Un testo che lascerà traccia

Giocarsi tutto, senza rete
Il segreto di un gesto riuscito


Dino Boffo

Che la lettera di Benedetto XVI ai vescovi del mondo sia un’ini­ziativa inedita, è già stato detto. Una valutazione precisa, e giu­stissima. Qualcuno ha anche osservato che la forza interna di que­sto scritto sta nel saperci portare diritti al cuore stesso di Joseph Rat­zinger, papa non per sbaglio ma per essere stato scelto da Dio in questo nostro tempo. E già ieri qualcuno aveva notato, anche dalle colonne di questo giornale, che la prosa della lettera papale ha in sé come un’eco dominante, quella dei padri della Chiesa.
Di quegli au­tori cioè a lui particolarmente cari, e dei quali sta facendo una co­spicua rassegna nelle catechesi del mercoledì. Ha cominciato il 7 marzo 2007 con san Clemente Romano, per riprenderle mercoledì scorso, incentrando quest’ultimo discorso su san Bonifacio, l’apo­stolo – guarda caso – dei germani, vissuto nell’VIII secolo. Induce qua­si a vertigine che una frequentazione così assidua di certe pagine del­la letteratura cristiana antica sia oggi come trasbordata nelle cinque cartelle vergate di proprio pugno da papa Benedetto. Con i padri della Chiesa egli ha – in sé e nel suo magistero – non pochi punti di contatto, a cominciare dal linguaggio limpidissimo e profondo, spes­so immaginifico. Lo so, è un affiancamento storicamente impossi­bile, eppure alle sensazioni talora non si comanda. Ma a rileggerla, ancora una volta, la lettera papale ci spinge a un pensiero vieppiù ardito.
A ogni suo tornante infatti rinvia con im­peto crescente agli scritti di san Paolo, l’apostolo delle genti, di cui proprio in questi mesi stiamo celebrando su impulso di Ratzinger il bimillennario della nascita. Di colui che all’inizio era Saulo di Tarso, papa Benedetto si è fatto nell’ultimo periodo cantore, facendo e­mergere ancora una volta il tessuto della sua teologia profonda­mente imbevuto di Sacra Scrittura, in particolare del Nuovo Testa­mento. Come Paolo sa partire da un episodio contingente, di cronaca ec­clesiale, per aprirsi al respiro di una riflessione che ha destino uni­versale. Come Paolo rivela il suo sguardo fisso su Gesù, e altro non vuole sapere che Lui. Come Paolo si lascia pervadere dal fuoco del­la missione, e non scorge altra priorità che questa: «rendere Dio pre­sente in questo mondo».
E ad essa ne individua inscindibilmente con­nessa un’altra: la carità ecclesiale, condizione di qualsiasi fecondità spirituale. Come Paolo non rinuncia alla veemenza del discorso che sa farsi sorprendentemente duro per la franchezza che l’amore, quando è vero, esige. Come Paolo diventa capace dello sfogo inat­teso, dell’iperbole che colpisce e disarciona, e sa metterli al servizio della pretesa apostolica di suscitare con i fedeli mutua solidarietà e stima reciproca. Come Paolo non nasconde le nefandezze di cui u­na comunità credente può diventare capace, e lascia intendere la de­lusione che talora può venire da chi sta più vicino. Come Paolo non ha paura di spogliarsi dei diritti che discendono dal Vangelo pur di non offrire alibi ai suoi interlocutori. Come Paolo sceglie di affron­tare il problema che più acutamente duole. E lo prende di petto, sen­za mezze misure, affrontando il rischio di farsi lui male per primo, esponendosi senza rete di protezione. Come Paolo.
Benedetto si è messo in gioco perché la sua coscienza nitida glielo consentiva, anzi per certi versi glielo imponeva. Ha rivendicato una coerenza antica di contributo a livello teologico e magisteriale sul­la questione del rapporto con gli ebrei, indispettito che per l’insi­pienza di qualcuno tale rapporto potesse anche solo per un istante incrinarsi. La lealtà che sente di dovere all’esterno della Chiesa fa il paio solo con la carità che offre (e chiede) all’interno. In questi ter­mini parla anche ai lefebvriani, senza indulgenze e impossibili gra­dualismi. Nessuno può irridere o strumentalizzare il gesto buono del­la mano tesa. E se nella Spe salvi era arrivato a sollecitare un’auto­critica del cristianesimo, oggi sollecita un’auto-critica della Chiesa, a partire dai suoi vertici, e includendo anzitutto se stesso. Dovremo ricordarcelo questo picco di onestà, davanti agli occhi del mondo.
C’è stato un momento negli ultimi giorni – perché negarlo? – in cui ci siamo scoperti quasi senza fiato. Ma più scorrono le ore, e più si fa nitida la consapevolezza che le circostanze ingeneranti questa let­tera passeranno, mentre certo non passerà questo testo né la limpi­da, disarmante e coinvolgente testimonianza che l’ha generato.

© Copyright Avvenire, 14 marzo 2009 consultabile online anche qui.

6 commenti:

Anonimo ha detto...

nessun commento?

Raffaella ha detto...

No...
R.

mariateresa ha detto...

ehm, dice che in questi ultimi tempi erano rimasti senza fiato.....
Il punto è, cari amici, che nei momenti di reale difficoltà, bisogna tirarli fuori.
Anche se si va controcorrente.
Anche se si prendono secchiate di buano in faccia.
Ma questo coraggio, nella nostra Chiesa ce l'hanno solo papa Benedetto e pochi altri.
Per il resto si possono tranquillamente distribuire i pannoloni.

Raffaella ha detto...

Cara Mariateresa, hai detto tutto tu ed io aderisco al cento per cento :-)
Sono sicura che a Gemma piacera' molto la tua ultima frase :-)
R.

euge ha detto...

Cara mariateresa sei grande......

analisi perfetta! :-)))

Beh oltre a gemma l'ultima frase è piaciuta anche a me rende bene l'idea!

Anonimo ha detto...

un po' lunghetta come apnea