mercoledì 24 giugno 2009

Enrico VIII e la richiesta di annullamento del matrimonio con Caterina d'Aragona inviata a Clemente VII (Osservatore Romano)


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Enrico VIII e la richiesta di annullamento del matrimonio con Caterina d'Aragona inviata a Clemente VII

Quella lettera supplice, rispettosa e... intimidatoria

Il 23 giugno a Roma, nel Palazzo della Cancelleria, l'Archivio Segreto Vaticano e Scrinium presentano gli studi sulla lettera scritta dai Pari d'Inghilterra a Papa Clemente VII per perorare la causa di annullamento di matrimonio tra Enrico VIII e Caterina d'Aragona. Pubblichiamo il testo di uno degli interventi.

di Marco Maiorino
Archivio Segreto Vaticano

Nel 1530 non era ancora in discussione la supremazia spirituale di Roma né si pensava a quello scisma che si sarebbe consumato solo diversi anni dopo: per il momento se ne indovinavano all'orizzonte le ombre spettrali, ma la rottura era ancora di là da venire. A Enrico VIII occorreva la decisione del Papa a favore dell'annullamento del suo matrimonio con Caterina d'Aragona. Era il mezzo tradizionalmente più sicuro per mettere al riparo da qualsiasi sospetto di illegittimità la successione eventualmente garantita da una nuova unione. La sentenza di Clemente VII, però, non costituiva più per lui l'extrema ratio per la soluzione della sua "Grave Questione": se il sovrano fosse stato deluso nelle proprie aspettative, all'universale autorità spirituale rappresentata dal Pontefice se ne sarebbe contrapposta una nuova, capace di accogliere le ormai irrinunciabili istanze della nazione inglese. In questo clima di tensione, il 12 giugno del 1530, mentre a corte giungevano le opinioni favorevoli al divorzio espresse da diverse università del continente, Enrico VIII convocò un certo numero di suoi sostenitori, perlopiù appartenenti alla Camera dei Lords: ai membri di quell'assemblea extraparlamentare fu sottoposta una lettera indirizzata a Clemente VII, "al contempo supplice, rispettosa e intimidatoria", che nella sua forma compiuta, corredata delle sottoscrizioni e dei sigilli di 83 fra i personaggi di maggior rilievo del Regno, costituiva forse - per usare le parole di Scarisbrick - "il documento più impressionante mai messo in circolazione dall'Inghilterra dei Tudor".
Formalmente, la lettera è redatta su una pergamena larga quasi un metro, con 83 sottoscrizioni accuratamente ripartite in 13 colonne, delimitate da un'unica lunga fettuccia di seta abilmente intrecciata, da cui pendono 81 sigilli in teche di latta e quattro teche vuote. Gli autori del documento, cioè coloro che lo sottoscrissero e lo sigillarono, sono in gran parte membri della Camera Alta del Parlamento: due arcivescovi, due duchi, due marchesi, 13 conti, quattro vescovi, un visconte, 26 baroni e 22 abati, pari a circa il 70 per cento della Camera dei Lords del Parlamento della Riforma del 1529-1530. A essi si aggiungono cinque membri della Camera dei Comuni e altri sei personaggi: i due segretari reali, Stephen Gardiner e Brian Tuke e altri quattro arcidiaconi e teologi. La lettera è ben nota agli storici, che fino a oggi ne hanno potuto conoscere il tenore grazie alla trascrizione contenuta nell'opera del biografo di Enrico VIII, Lord Edward Herbert of Cherbury, e successivamente attraverso l'edizione di Thomas Rymer (inizi Settecento) e di Nicholas Pocock (fine Ottocento). Tutti questi lavori, tuttavia, non riproducono il testo dell'esemplare vaticano. La lettera fu infatti redatta in due esemplari originali: il primo, privo di data, era destinato a essere conservato presso gli archivi del Regno d'Inghilterra e attualmente si trova presso The National Archives di Kew; il secondo fu preparato per la spedizione a Roma, dove effettivamente giunse il 16 settembre 1530. Le due pergamene, originariamente identiche nella forma e nei contenuti - a eccezione di lievi differenze nelle dimensioni del supporto scrittorio e nel modulo grafico - hanno affrontato il trascorrere dei secoli con esiti radicalmente diversi: l'esemplare inglese è ormai privo di tutti i sigilli, sebbene mantenga ancora impressi sulla pergamena i segni del filo di seta che ne suddivideva in 13 colonne la plica, la piegatura nel margine inferiore. L'attacco di agenti batterici e i successivi interventi di restauro ne hanno inoltre compromesso la leggibilità, soprattutto nella parte destra e, in particolare, fra l'ottava e la tredicesima colonna delle sottoscrizioni. L'esemplare vaticano ha conservato invece pressoché intatto l'apparato sigillografico e si presenta in ottime condizioni. Ciò ha permesso di curare una nuova e sicura edizione del testo, comprensiva della fedele trascrizione di tutte le 83 sottoscrizioni. Si è quindi dedicato al documento uno studio particolare, che ne indagasse i moventi e le modalità di creazione e i cui risultati si offrono ora alla valutazione dei lettori.
Esaminando l'esemplare vaticano appare anzitutto evidente la non perfetta corrispondenza fra il numero dei sottoscrittori (83) e il numero dei sigilli (81): un dato imputabile perlopiù alla perdita delle impronte originariamente contenute in tre delle quattro teche attualmente vuote, l'ultima delle quali fu invece predisposta e mai utilizzata. Un'altra incongruenza risulta significativa: il mancato riscontro fra alcuni sottoscrittori e i rispettivi sigilli. Le ottime condizioni dell'esemplare vaticano hanno permesso di individuare con certezza l'identità dell'ultimo sottoscrittore. I precedenti editori del documento hanno proposto diverse interpretazioni. L'attento esame del documento vaticano ha permesso solo ora di attribuire la firma inequivocabilmente a John Bell, che si sottoscrive in latino Johannes Bellus e appone un sigillo cosiddetto parlante, contrassegnato dall'immagine di una "campana" (bell).
Le informazioni più precise sulla genesi del documento si ricavano principalmente da due fonti: due dispacci dell'ambasciatore imperiale a Londra Eustache Chapuys, e un brano della biografia del cardinale Wolsey scritta da George Cavendish. Da Chapuys si apprende la strategia messa in atto da Enrico VIII per ottenere le sottoscrizioni e i sigilli alla lettera indirizzata a Clemente VII. Consapevole delle difficoltà che avrebbe potuto incontrare, il re convocò a corte un certo numero di suoi sostenitori, specificando però che, quanti fossero stati impediti a intervenire di persona, gli inviassero almeno i loro sigilli. Allo stato attuale delle ricerche, non è dato sapere quanti aderirono a questa proposta.

(©L'Osservatore Romano - 24 giugno 2009)

1 commento:

Scipione ha detto...

E' proprio vero: historia est magistra vitae. Questa può sembrare solo una notizia di pura erudizione storica eppure contiene almeno due grandi attualissimi insegnamenti su cui meditare.
Il primo riguarda il rapporto della Chiea con i potenti. Questa vicenda dimostra oltre ogni dubbio quanto sia falsa l'idea che da 200 anni ci presentano di na Chiesa intrallazzona epoliticante sempre pronta a fare affari con il potere, sempre china e obbediente ai vleri dei potenti quanto crudelee spietata nei confronti dei deboli. Questa vicenda dimostra che la Chiesa cattolica è sempre stata fedele solo a Cristo e alla missione che le ha affidato, incurante di pericoli e ritorsioni, la Chiesa in tutta questa vicena è emblematicamente rappresentata da quel Tommaso Moro (Thomas Moore) che uomo potentissimo e fedelissimo al suo re Enrico VIII non ha però sistato un istante ad anteporre a quella fedeltà terrena e umana la fedeltà soprannaturale a Cristo e alla Sua Chiesa pagando con la vita (sarà fatto decapitare dal re) il suo rifiuto di giustificare e appoggiare l'istanza di divorzio del sovrano. sarebbe questa la chiesa schiava e serva dei potenti?
La seconda riflessione riguarda la ogica di quel che accadde, le motivazioni... un'esigenza personal, un desiderio nazionale, un'interesse terreno e contingenrte che pretenevano di piegare a sè (magari con la scusa dell'aggiornamento...) i valori eterni della Chiesa, di riformare viste le nuove esigenze i suoi precetti e principi. La situazione si sarebbe ripetuta ancora varie volte nella storia e, alvo recentemente..., mai la chiesa ha tentennato lasciandosi abbindolare o abbagliare da questi pretese esigenze universali di riforma che di fatto nascondevano solo meschini nteressi particolari. E la fine che poi ha fatto la chiesa inglese quando per rimanere fedele al sovrano e giustificare le sue voglie e i suoi interessi di parte, ha deciso di staccarsi da Roma... la dice lunga su chi avesse ragione, su quali fossero il tronco (ancora vivo) e i tralci staccati oramai secchi.