giovedì 14 maggio 2009

Nazaret città dell'Annunciazione (Gianfranco Ravasi)


Nazaret città dell'Annunciazione

Una risposta risolutiva nel luogo più inatteso

di Gianfranco Ravasi

Dopo aver sostato in preghiera nella Grotta dell'Annunciazione, giovedì 14 maggio, Benedetto XVI salirà nella Basilica superiore di Nazaret per la celebrazione dei vespri. Forse nella sua memoria echeggeranno le parole che aveva pronunciato quand'era ancora arcivescovo di Monaco e che erano state raccolte nel libro Il Dio di Gesù Cristo (1977). Evocando la figura di Charles de Foucauld - che beatificherà da Papa nel 2005 - il grande testimone e mistico, vissuto e martirizzato nel deserto del Sahara nel 1916, che aveva trovato la via della sua conversione proprio a Nazaret, l'allora cardinale Ratzinger affermava: "Nazaret ha un messaggio permanente per la Chiesa. La Nuova Alleanza non comincia nel Tempio, né sulla Montagna Santa, ma nella piccola casa della Vergine, nella casa del lavoratore, in uno dei luoghi dimenticati della "Galilea dei pagani", dal quale nessuno aspettava qualcosa di buono. Solo partendo da lì la Chiesa potrà prendere un nuovo slancio e guarire. Non potrà mai dare la vera risposta alla rivolta del nostro secolo contro la potenza della ricchezza se, nel suo stesso seno, Nazaret non è una realtà vissuta".
Noi ora vorremmo partire idealmente proprio da quella grotta - anche se essa è ora inglobata, con le precedenti chiese bizantina e crociata, nell'imponente basilica progettata dall'architetto Giovanni Muzio e inaugurata il 25 marzo 1969 - per ricomporre la scena che là si è compiuta più di duemila anni fa, mostrando però soprattutto la scia che l'evento ha lasciato nella storia culturale dell'Occidente. Un evento apparentemente minimo, simile al granello di senapa evangelico, cresciuto in un albero gigantesco di arte e di spiritualità.
Noi tutti abbiamo in mente la scena dell'Annunciazione con i colori teneri ed estatici del Beato Angelico nel convento di San Marco a Firenze. Nell'ultimo dei suoi Canti spirituali Novalis confessava: "In mille immagini, Maria, ti vedo / amabilmente ritratta. / Ma nessuna di esse può fissarti / come ti vede la mia anima". L'annunzio dell'angelo a Maria è uno dei soggetti spirituali capitali nella memoria dell'Occidente: solo per citare qualche esempio a noi vicino, pensiamo all'Annuncio a Maria di Paul Claudel (1912), al Rosario della gioia di Marie Noël (1930), all'Evangéliaire di Pierre Emmanuel (1961), all'oratorio "cristico" omonimo di Georges Migot (1945-46), alla veglia natalizia musicale di Daniel-Lesur (1951), al brano liturgico ortodosso dell'Angelo a Maria messo in musica sia da Modest Mussorgskij (1878-80), sia da Pëtr Il'iè Èajkovskij (1887).
Già san Bernardo di fronte all'esitazione e allo sconcerto di Maria - che alla fine però si dichiara "serva del Signore", un titolo biblico di onore e di consapevolezza di un'alta missione - affermava: "L'angelo aspetta la tua risposta, o Maria! Stiamo aspettando anche noi, o Signora, questo tuo dono, che è dono di Dio. Sta nelle tue mani il prezzo del nostro riscatto. Rispondi presto, o Vergine! Pronunzia, o Signora, la parola che terra e inferi e persino il cielo aspettano... Alzati, corri, apri!".
La pagina di Luca è, comunque, da leggere tenendo in sottofondo la più antica e la più cara preghiera mariana, l'Ave Maria che prende spunto dalle parole dell'angelo Gabriele e che è stata messa in musica infinite volte: Tomas L. da Victoria, Schubert, Gounod, Bruckner, Liszt - ne compose ben sei! Verdi ne ha elaborate tre: una nel 1880, attingendo però al testo de La Divina Commedia, per soprano solo e coro; un'altra nel 1889 seguendo la "scala enigmatica armonizzata" a quattro voci miste; e, tra le due, nel 1887 quella dell'ultimo atto dell'Otello, cantata da Desdemona.
Il Palestrina ha nel suo catalogo una Messa a 6 voci intitolata Ave Maria, Kodály ha composto una sua Ave Maria a tre voci in sol minore nel 1935 e il cantante francese Georges Brassens nel 1953 ha reso popolare un ritornello con la preghiera mariana desunta dalla rielaborazione poetica della Chiesa vestita di foglie del poeta Francis Jammes (1906), mentre il parigino Claude Ballif nel 1966 nel suo Chapelet opera 44 n.2, a quattro voci, ha offerto un "rosario" di dieci "Ave Marie". Ma anche un poeta ateo come Louis Aragon in Museo Grévin (1943) faceva ripetere questa preghiera ai prigionieri di Auschwitz. E tutta la storia di Maria da quel giorno in avanti sarà trascritta in modo "laico" e per certi versi scandaloso dal film Je vous salue Marie di Jean-Luc Godard (1985).
Ma il tema originario non può che essere teologico ed è la radice stessa del cristianesimo: è la persona di Cristo, "non concepita mai dai sensi umani" bensì dalla "purezza senza macchia di Maria" e dall'irruzione stessa del divino nella storia, come canterà Rilke nella sua Annunciazione a Maria.
L'improvvisa e sorprendente maternità di Maria crea, però, sconcerto in un'altra persona evangelica, il promesso sposo Giuseppe.
Nella prassi matrimoniale ebraica antica il fidanzamento era considerato a tutti gli effetti il primo atto del matrimonio stesso. A segnalarci questo sconcerto è l'evangelista Matteo che ci narra un'"Annunciazione a Giuseppe". Leggiamone le battute fondamentali. "Maria, promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe, suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre stava pensando questo, ecco apparirgli in sogno un angelo che gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quello che in lei è generato viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù; egli, infatti, salverà il suo popolo dai suoi peccati" (1, 18-21). Giuseppe si trova di fronte a una scelta drammatica. Il libro della legge biblica, il Deuteronomio, era chiaro: "Se la donna fidanzata non verrà trovata vergine, la si farà uscire sulla soglia della casa paterna e la popolazione della sua città la lapiderà per farla morire, perché ha commesso un'infamia in Israele" (22, 20-21). Il giudaismo posteriore aveva attenuato la norma, imponendo però il ripudio: è ciò che deve fare anche Giuseppe.
Ma egli, da "uomo giusto", cioè mite e buono, vuole scegliere la via segreta, quella di un atto senza clamore, senza denunzia legale e processo ma solo alla presenza di due testimoni, come gli consentiva la legge. Maria se ne sarebbe ritornata alla casa paterna per una vita emarginata e difficile. Ecco, però, l'irrompere dell'angelo: egli è per eccellenza il segno di una rivelazione divina, come lo è il sogno - se ne contano cinque nel vangelo dell'infanzia di Gesù secondo Matteo - è il simbolo della comunicazione di un mistero. Giuseppe è invitato a perfezionare il matrimonio con Maria, superando ogni perplessità o sdegno, e ad assumere la paternità legale nei confronti del nascituro: l'imporre il nome - che viene spiegato etimologicamente come "salvatore" ("Gesù" deriva dalla radice ebraica jasha' "salvare") - era un atto tipico della patria potestà. L'origine misteriosa di Gesù Cristo sarà, comunque, oggetto di polemica fin nei primi secoli. Lo scrittore cristiano Origene citava un filosofo platonico del ii secolo, Celso, il quale, a sua volta, rimandava a un giudeo che affermava: "Gesù era originario di un villaggio della Giudea e aveva avuto per madre una povera indigena che si guadagnava da vivere filando. Accusata di adulterio, perché resa incinta da un certo soldato di nome Panthera, fu scacciata da suo marito, un artigiano. Errando in modo miserevole, dette alla luce di nascosto Gesù. Costui, cresciuto, spinto dalla povertà, andò in Egitto a lavorare; qui apprese alcune di quelle arti segrete per cui gli Egiziani sono celebri, ritornò dai suoi tutto fiero per le arti apprese e grazie a esse si autoproclamò Dio" (Contro Celso, 1, 28 e 32). Si intravede in questo testo il tentativo di spiegare anche i miracoli di Cristo e forse in quel nome "Panthera" c'è la deformazione del greco parthènos, "vergine", applicato a Maria dai vangeli. Infatti, la verginità è nel racconto evangelico un dato importante a livello teologico: Cristo, anche se è generato nella pienezza di una maternità e dell'umanità, non è frutto della "carne" e del "sangue", cioè non deriva dai puri e semplici meccanismi biologici di una generazione creaturale. In lui c'è il sigillo del divino ed è a questo che è finalizzata la verginità della madre.
In questa luce ascoltiamo, allora, l'annunzio dell'angelo a Maria, dopo il saluto dell'"Ave": "Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce, lo chiamerai Gesù. Sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo. Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine (...) Lo Spirito Santo scenderà su di te, la potenza dell'Altissimo stenderà su te la sua ombra colui che da te nascerà sarà Santo e chiamato Figlio di Dio" (Luca, 1, 32-33.35). È la stessa proclamazione dell'Incarnazione, cioè dell'incontro tra il divino e l'umano in Gesù, che è espressa da Giovanni nella frase essenziale "Il Lògos si è fatto carne" (Giovanni, 1, 14). È per questo che Maria è allusivamente rappresentata come l'arca dell'alleanza del tempio di Sion su cui si stendeva l'"ombra" della presenza divina ed è interpellata dall'angelo nel suo saluto come kecharitomène, "ricolma di grazia" da parte di Dio. Suo figlio sarà, come dice Novalis nei suoi Inni alla notte scritti tra il Natale 1799 e l'Epifania 1800, "frutto infinito di misterioso amplesso". E il filosofo Johann G. Fichte, in un sermone pronunziato nella festa dell'annunciazione a Maria, il 25 marzo 1786, esclamava: "Ci sembra poco che fra tutti i milioni di donne della terra soltanto Maria fosse l'unica eletta che doveva partorire l'Uomo-Dio Gesù? Ci sembra poco l'esser madre di Colui che doveva rendere felice l'intero genere umano e grazie al quale l'uomo sarebbe divenuto un'immagine della divinità e l'erede di tutte le sue beatitudini?".

(©L'Osservatore Romano - 14 maggio 2009)

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