lunedì 4 maggio 2009

Per un'etica condivisa tra laici e Cattolici (Riccardi)


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IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA DEL SANTO PADRE AI VESCOVI CATTOLICI SULLA REMISSIONE DELLA SCOMUNICA AI QUATTRO VESCOVI "LEFEBVRIANI"

La nostra identità

PER UN’ETICA CONDIVISA TRA LAICI E CATTOLICI

di ANDREA RICCARDI*

La laicità è una storia che viene da lontano. Non un dogma, ma una storia.
Nell’Ottocento fu la battaglia per l’emancipazione dall’ancien régime e dalla Chiesa. Stato, nazione, cittadinanza, comunità culturale coincisero nell’identità patriottica. Due France, laica e cattolica, entrarono in lotta.
Avvenne pure in Italia con lo Stato unitario e Roma capitale. La laicità non è solo separazione dalla Chiesa o posizione anticlericale, ma realizzazione dell’identità dello Stato.
Fu religione della laicità e della nazione. Tra laici e cattolici, un forte confronto sale dal Risorgimento: è ben noto. L’accoglienza dei Patti del Laterano nella Costituzione sembrò chiudere la storia e fare della laicità un tema per studiosi. La Dc, perno del sistema italiano per 40 anni, è stata accusata di aver clericalizzato lo Stato. La «laicità democristiana» ha teso invece a superare lo scontro tra guelfi e ghibellini, come voleva De Gasperi. Ma non ha potuto gestire in Parlamento due gravi questioni, il divorzio e l’aborto, all’origine di referendum. Di nuovo, con i referendum, si profilarono due Italie: laica e cattolica. Appariva all’orizzonte la questione sull’etica, la vita. Rinasce oggi il conflitto tra laici e cattolici, come ieri, anche se non più sulla questione romana, ma su quella antropologica?
Tale conflitto mette in difficoltà i due poli politici (plurali al loro interno). Ma c’è un fatto da notare. Il tempo è passato e le culture si sono incrociate. Croce scriveva: perché non possiamo non dirci cristiani. Aveva ragione. Un laico sente le acquisizioni del Cristianesimo dentro la laicità. Anche i cattolici possono dire: perché non possiamo non dirci laici. C’è una laicità del cristiano. Tutto è complesso. Eppure il funzionamento dell’opinione pubblica, come un talk show gridato, gioca alla contrapposizione. Il problema, a mio avviso, è invece lavorare per una laicità condivisa, che affronti in modo serio le grandi questioni nazionali, umane, antropologiche, con la convinzione che nessuno ha il monopolio della modernità. Siamo tutti più perplessi di quanto sembri di fronte al futuro.
Il conflitto tra le due Italie è fuori luogo, perché il mondo è cambiato. È stato smentito quell’assioma della cultura occidentale per cui più modernità avrebbe significato meno religione: una storia che scorre inesorabile verso la secolarizzazione universale. Ci si trova invece a fronteggiare i fondamentalismi con la riscoperta della laicità. Siamo in un tempo di crisi, non solo economica, ma di identità. L’Italia è sfidata. Diventa multireligiosa con ortodossi, musulmani e altri. Non è più una questione solo tra laici e cattolici. A quale identità si avvia il Paese? Una federazione di identità differenti? Lo scenario si allarga. Di fronte ai «nuovi italiani» dell’immigrazione, alla globalizzazione, ai giganti asiatici, che vuol dire essere italiani? Bisogna riprovare a dire cos’è l’Italia e chi sono gli italiani. C’è da costruire una laicità condivisa nel senso profondo della parola, laòs, popolo.
Oggi la laicità si connette all’identità nazionale. È un grande cantiere culturale ed educativo. Ieri, partiti ideologici erano portatori di visioni del Paese. Oggi è diverso. Laicità è ricerca ragionevole, possibile, del bene comune, al di là del messianismo o delle passioni di parte. Ci sono grandi differenze, ad esempio sui temi della vita. Ma i valori del mondo religioso sono tutt’altro che regresso.
Ridire l’identità italiana in modo laico coinvolge la Chiesa, tutt’altro che estranea al Paese per la storia, l’eredità umanistica di pietas che segna l’umanesimo italiano. Perché il cristianesimo in Italia è una religione di popolo, parte vitale dell’eredità storica e dell’attualità. Se si prescinde dal cristianesimo italiano, non si può costruire un’identità nazionale condivisa.
Il rabbino Jonathan Sacks ha notato: «Il relativismo è inadeguato alla sfida dell’affermazione etnica e dei sistemi di credo esclusivi». C’è una crisi spirituale del nostro tempo, nel vuoto di menti e di cuori, all’origine della violenza dei giovani. La crisi dell’uomo italiano è anche spirituale. Resto fedele alla lezione di Olivier Clément: «Convocare lo spirituale nel cuore della cultura europea: se non vogliamo ritornare all’uomo delle caverne, dobbiamo scoprire l’uomo interiore nelle caverne dell’uomo». Nella crisi della banlieue parigina il detonatore non fu l’islam (erano bande interetniche), ma il vuoto.
Régis Debray commentò quegli episodi: «Qui il problema non è la troppa religione, ma la sua scarsa quantità». Il vuoto produce identità contro, senza cultura, espresse da una pratica aggressiva. È pericoloso in tempo di crisi. Si ricordi l’antisemitismo o i movimenti totalitari dopo la crisi economica del 1929. Esclusivismi aggressivi crescono nel vuoto e nella paura di uomini e donne spaesati.
Bisogna ridire agli italiani cos’è l’Italia. Le identità non si inventano. Come sono effimere le operazioni che creano arbitrariamente il pantheon delle nuove identità partitiche! Bisogna costruire una laicità di tutti, non facilmente irenica, capace di vivere nelle diversità, ma di dire che c’è un destino comune alla comunità nazionale: laicità di tutti per dire una nuova identità nazionale. È il problema posto da Sarkozy, parlando di «laicità positiva»: «Dobbiamo tener insieme i due capi della corda: accettare le radici cristiane della Francia, e anche valorizzarle, continuando a difendere la laicità giunta a maturità».
Benedetto XVI gli ha risposto, insistendo sulla necessità di «una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo... insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo». Il presidente francese ha auspicato «una laicità che rispetti, una laicità che riunisca, una laicità che dialoghi. E non una laicità che escluda e che denunci».
In Italia non c’è un culto sacro della laicità o un complesso cattolico di fronte allo spazio pubblico. Ci sono però un involgarimento del dibattito e tanta timidezza verso le grandi imprese. Non si deve pensare invece a un grande disegno, a cui lavorino cultura, cristiani, laici, ebrei? Dobbiamo non avere paura di investire sul lungo periodo. C’è bisogno di visioni. Nel 2011 ricorrerà il centocinquantesimo dell’Unità: è il tempo di dire al Paese qualcosa di nuovo, coinvolgente, dalle radici antiche, ma proiettato sul futuro.

*fondatore della Comunità di Sant’Egidio

© Copyright Corriere della sera, 3 maggio 2009 consultabile online anche qui.

2 commenti:

mdeledda ha detto...

Questo articolo può essere una risposta anche a Riccardi.

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Romano Amerio risponde ad Enzo Bianchi

di Francesco Agnoli,
da Il Foglio (26/04/09)

Sono reduce dalla lettura dell’ultimo libro di Enzo Bianchi, Per un’etica condivisa (Einaudi), e non posso non riflettere sulla spaventosa distanza che esiste tra il pensiero di questo famoso monaco mediatico e l’ortodossia cattolica. L’errore di fondo, che inficia tutto il ragionamento di Bianchi, è quell’ottimismo mondano che si è insinuato profondamente nel pensiero ecclesiastico e cattolico nell’epoca del post Concilio. Mondano, intendo, perché ignora o sminuisce del tutto l’esistenza del peccato. «Quando la Chiesa», scriveva parecchi anni fa il Cardinal Journet al cardinal Siri, «prenderà coscienza sino a che punto lo spirito del mondo è penetrato dentro essa, si spaventerà».

Ma come è penetrato questa mentalità, di cui Bianchi è oggi uno dei massimi alfieri? A mio modo di vedere all’epoca del Concilio, allorchè in molti si diffuse l’idea che col mondo, inteso in senso evangelico, occorresse trovare un modus vivendi pacifico e conciliante, sempre e comunque. Bisognerebbe anzitutto ritornare a quegli anni, per evitare di costruire leggende e miti come quelli che piacciono ai vari Melloni, Mancuso e, appunto, a Enzo Bianchi: il concilio non fu una pacifica e simpatica riunione di vescovi e periti, tutti in perfetto accordo tra loro, ma fu una lotta dura, che vide la presenza di posizioni problematiche e critiche, rispetto alla volontà di “aggiornamento” e “innovazione”, di molti uomini di grande spessore, dal cardinal Siri, più volte papabile, ai cardinali Ottaviani, Ruffini, Bacci, sino al Coetus Internationalis patrum, formato da centinaia di padri conciliari, e raccolto intorno a mons. Marcel Lefebvre.

I documenti conciliari sorsero dunque in mezzo alla tempesta, agli scontri, talora veramente aspri, tra “conservatori” e “progressisti”, con correzioni, emendamenti, e ambiguità, inevitabili laddove un documento nasca come mediazione, come compromesso tra posizioni divergenti. A mio modo di vedere, l’ambiguità più grande fu quella sull’atteggiamento da tenere, appunto, rispetto al mondo, allo spirito moderno e alle sue filosofie. Il concilio volle essere pastorale, e quindi soffermarsi proprio e soprattutto, in questo caso senza godere dell’infallibilità, sui modi, le strategie, per una nuova evangelizzazione, efficace e fruttuosa. Il principio guida, che fu indicato da Giovanni XXIII, fu quello di utilizzare, rispetto alla “severità” del passato, la “medicina della misericordia”.

Ci fu insomma un cambio di passo, che Romano Amerio (nella foto), oggi riscoperto e finalmente ristampato da Fede & Cultura, commentò tra l’altro con queste profetiche parole: «Questo annuncio del principio della misericordia contrapposto a quello della severità sorvola il fatto che, nella mente della Chiesa, la condanna stessa dell'errore è opera di misericordia, poiché, trafiggendo l'errore, si corregge l'errante e si preserva altrui dall'errore. Inoltre verso l'errore non può esservi propriamente misericordia o severità, perché queste sono virtù morali aventi per oggetto il prossimo, mentre all'errore l'intelletto repugna con un atto logico che si oppone a un giudizio falso. La misericordia essendo, secondo S. theol., II, II, q. 30, a. 1, dolore della miseria altrui accompagnato dal desiderio di soccorrere, il metodo della misericordia non si può usare verso l'errore, fatto logico in cui non vi può essere miseria, ma soltanto verso l'errante, a cui si soccorre proponendo la verità e confutando l'errore. Il Papa peraltro dimezza un tale soccorso, perché restringe tutto l'officio esercitato dalla Chiesa verso l'errante alla sola presentazione della verità: questa basterebbe per sé stessa, senza venire a confronto con l'errore, a sfatare l'errore. L'operazione logica della confutazione sarebbe omessa per dar luogo a una mera didascalia del vero, fidando nell'efficacia di esso a produrre l'assenso dell'uomo e a distruggere l'errore» (Romano Amerio, Iota unum, Fede & Cultura).

Questo brano magistrale mi sembra possa essere utile per far fronte anche oggi a questo ottimismo mondano, che nasce all’interno del mondo cattolico, e che si presenta con alcune caratteristiche costanti: la condanna più o meno aspra delle decisioni e della pastorale della Chiesa del passato; il ripudio della Tradizione e il tentativo di presentare il Vaticano II come una sorta di nuova Pentecoste, di vero e proprio atto di nascita della cosiddetta “Chiesa conciliare”. Ottimismo mondano di cui il citato Bianchi costituisce uno degli esempi più solari, in quanto espressione di un tipo di cattolicesimo adulterato che ritiene che l’essenziale sia raggiungere una posizione condivisa, una mediazione, un punto di incontro, quale esso sia, tra la Verità di Cristo e le posizioni, anticristiche, del mondo. Se analizziamo il libro citato ne troviamo subito, nell’incipit, il significato di fondo: Bianchi vuole fare pulizia, anzitutto all’interno del mondo cattolico, mettere i puntini sulle i, spiegare quale debba essere il comportamento dei suoi fratelli di fede. Costoro, scrive Bianchi, debbono smetterla di riunirsi in “gruppi di pressione (sic) in cui la proposta della fede non avviene nella mitezza e nel rispetto dell’altro, per diventare intransigenza e arrogante contrapposizione a una società giudicata malsana e priva di valori”. La lettura del seguito fa capire bene il significato di queste parole, del tutto simili a quelle di un Augias o di un Odifreddi: esse sono una condanna chiara, anche se un po’ ipocrita nelle modalità, della posizione della Chiesa e dei cattolici, riguardo al referendum sulla legge 40 e alla questione dei pacs-dico.

Una condanna, in generale, di ogni tentativo legale e leale da parte dei cattolici, e non solo, di affermare valori non negoziabili in politica. Bianchi lo ripete più volte, spiegando quello che è ovvio, e cioè che “il futuro della fede non dipende da leggi dello stato”, ma dimenticando che i cattolici, come tutti gli altri cittadini, sono chiamati ad esprimere la loro visione di società, qui e oggi, e non a ritirarsi nelle sagrestie. Il cattolicesimo che Bianchi vorrebbe è invece insignificante e inesistente sul piano culturale e politico, e finisce addirittura per delineare una religiosità amorfa, astratta, spiritualista, che è lontanissima dall’idea originaria del cattolicesimo.

Ogni scontro e polemica attuale, ogni rinascita odierna dell’anticlericalismo, continua il monaco, è sempre colpa dei credenti, “è sempre una reazione a un clericalismo che si nutre di intransigenza, di posizioni difensive e di non rispetto dell’interlocutore non cristiano”. A parte che non si capisce bene, a leggere queste parole, a quale dibattito abbia assistito Bianchi in questi anni, il punto centrale è un altro: nel togliere al cristianesimo la sua capacità di incarnarsi nella realtà, per plasmarla concretamente, Bianchi finisce per negare cittadinanza al cristianesimo stesso e per scegliere come punto di riferimento assoluto e ingiudicabile, quasi metafisico, la Costituzione repubblicana.. Da essa deriverebbe, udite, udite, “l’assoluto diritto dello stato di legiferare su tutte quelle realtà sociali fondate o meno sul matrimonio (sia religioso che civile)”. “Diritto assoluto”, scrive Bianchi: una affermazione, a ben vedere, che oggi, dopo l’esperienza delle statolatrie totalitarie, neppure il più laicista tra i giuristi arriverebbe, almeno nella teoria, a sostenere. In tutto il suo argomentare Bianchi annulla il concetto di Verità, affermando un relativismo pieno; sostiene la perfetta equivalenza tra fede e ateismo (“l’uomo può essere umanamente felice senza credere in Dio, così come può esserlo un credente”); nega di fatto in più passaggi, con linguaggio equivoco, ma chiaro, il primato petrino, a vantaggio del “primato del Vangelo”, e propone come unico riferimento del suo argomentare, da buon protestante, solo e soltanto la bibbia, la sua “lettura personale e diretta” (sic), etsi Ecclesia non daretur.

“Per un’etica condivisa” è appunto un inno ad un “modo”, ad uno “stile”, al “come”, con cui i cristiani dovrebbero presentarsi oggi ai non credenti: un modo, uno “stile”, inaugurato dal Concilio Vaticano II, che sarebbe “importante quanto il messaggio”. Coerentemente, in tutto il libro manca, appunto, il messaggio! Non vi è mai una affermazione chiara di una verità teologica o morale: si parla di “etica condivisa”, si lanciano sfrecciatine piuttosto velenose ai cattolici, al centro destra, a Berlusconi, a Maroni, a Mel Gibson, a Ferrara, come fossero loro i problemi della cristianità, ma poi non si arriva mai ai contenuti: tutto puro stile, buonismo a buon mercato, mai una parola, una posizione, quale che sia, sulla clonazione, la fecondazione artificiale, le famiglia, l’eutanasia, la sessualità, e tutti i problemi più scottanti dell’etica odierna. Al massimo qualche vago riferimento alla pace, e un accenno, velatissimo, per carità, alla 194, la legge che legalizza l’aborto, ricordando però, anzitutto e soprattutto, che i cattolici dovrebbero rispettare ogni legge nata dal “confronto democratico”, e proclamata, lo si ricordi, da quello Stato che ha potere “assoluto” di vita e di morte.

A Bianchi sfugge, come avrebbe detto Amerio, che lo stile è questione secondaria, nel senso che viene dopo, logicamente e non cronologicamente, perché l’Amore procede dalla Verità, e non viceversa. Gli sfugge, inoltre, che il suo irenismo indifferentista e relativista è stato già bollato da san Pio X, allorché deprecava quanti alla sua epoca si adoperavano per un “adattamento ai tempi in tutto, nel parlare, nello scrivere e nel predicare una carità senza fede, tenera assai per i miscredenti”, all’apparenza, ma in realtà priva di vera misericordia, perché spoglia di verità. A chi continuava a sponsorizzare una “conciliazione della fede con lo spirito moderno”, Pio X indicava il crocifisso, e ricordava che certe idee «conducono più lontano che non si pensi, non soltanto all’affievolimento, ma alla perdita totale della fede». Perché se io non fossi un credente, e leggessi, per cercavi una parola di verità, il libro di Bianchi, arriverei alla conclusione che la verità non esiste, e che la mia sete di verità è roba da persone senza “stile”.

Caro Bianchi, la verità, nella carità, mi dice sempre un’amica pro-life, ma: la verità, per carità! Questo è l’unico stile, della Chiesa, di Cristo e del suo Evangelo, cioè della buona novella (vede che la novella, il messaggio, è importante?).

massimo ha detto...

veramente notevole ma il supposto monaco non credo che abbia quella mitezza tipica dei monaci per capire,il bianchi è davvero molto mondano,quanto amerei che almeno la smettesse di vestire con la coccolla dei cistercensi e cominciasse a parlare chiaramente non più dicendosi cattolico e monaco........