domenica 26 aprile 2009
J. Ratzinger: "Ebrei e Cristiani devono accogliersi reciprocamente in una più profonda riconciliazione, senza nulla togliere alla loro fede..." (1994)
Vedi anche:
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Discorso del card. Ratzinger a Gerusalemme nel 1994: "Quelle parole che spiazzarono Cattolici e rabbini" (Bernardelli)
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Pubblichiamo, grazie ad Avvenire, questo testo dell'allora cardinale Ratzinger.
Si tratta di un discorso tenuto a Gerusalemme nel 1994.
R.
«Dopo Auschwitz il compito della riconciliazione e dell’accoglienza si è presentato davanti a noi in tutta la sua imprescindibile necessità»: così esordiva l’allora cardinale Ratzinger, nel 1994, in un discorso tenuto a Gerusalemme.
Indicando alcune tracce teologiche per il «come»
Chiesa e Israele: un incontro possibile?
di Joseph Ratzinger
La storia dei rapporti tra Israele e la cristianità è intrisa di lacrime e sangue, è una storia di diffidenza e di ostilità, ma anche – grazie a Dio – una storia sempre attraversata da tentativi di perdono, di comprensione, di accoglienza reciproca.
Dopo Auschwitz il compito della riconciliazione e dell’accoglienza si è presentato davanti a noi in tutta la sua imprescindibile necessità. Pur sapendo che Auschwitz è la terrificante espressione di un’ideologia che non si limitava a volere la distruzione dell’ebraismo, ma che odiava l’eredità ebraica anche nel cristianesimo e cercava di cancellarla, dinanzi a eventi di questo genere resta la domanda sulle ragioni della presenza nella storia di tanta ostilità tra coloro che, invece, avrebbero dovuto riconoscere la propria affinità in forza della fede nell’unico Dio e della professione della sua volontà.
Questa ostilità proviene forse proprio dalla fede dei cristiani, dall’'essenza del cristianesimo', così che per giungere a una vera riconciliazione bisognerebbe di necessità astrarre da questo nucleo e negare il contenuto centrale del cristianesimo?
Si tratta di una ipotesi che, dinanzi agli orrori della storia, è stata formulata negli ultimi decenni proprio da alcuni pensatori cristiani. Ma allora la professione di fede in Gesù di Nazareth come figlio del Dio vivente e la fede nella croce come redenzione dell’umanità implicano necessariamente una condanna degli ebrei per la loro ostinazione e cecità, in quanto colpevoli della morte del figlio di Dio? Davvero le cose stanno così, quasi che il nucleo stesso della fede cristiana porti all’intolleranza, anzi all’ostilità nei confronti degli ebrei e che, al contrario, l’auto-considerazione degli ebrei, la difesa della loro dignità storica e delle loro convinzioni più profonde esiga da parte dei cristiani la rinuncia al centro stesso della propria fede, e dunque una rinuncia alla tolleranza? Il conflitto è insito nella natura più intima della religione e può essere superato solo con il suo abbandono?
In questa sua drammatica acutizzazione il problema si pone oggi ben al di là di un dialogo puramente accademico tra le religioni, coinvolgendo le scelte fondamentali di questo momento storico.
Si cerca spesso di sdrammatizzare il problema presentando Gesù come un maestro ebreo che, nella sostanza, non si è di molto scostato da quel che era concepibile nella tradizione giudaica. La sua uccisione dovrebbe allora essere intesa nel quadro delle tensioni tra giudei e romani: in effetti, la sua condanna a morte fu eseguita secondo modalità che l’autorità romana riservava alla punizione dei ribelli politici.
La sua esaltazione come figlio di Dio sarebbe quindi avvenuta in seguito, nel quadro del contesto culturale ellenistico, e la responsabilità della sua morte in croce sarebbe stata trasferita dai romani ai giudei proprio in considerazione della situazione politica dell’epoca.
Questa interpretazione dei fatti può rappresentare una sfida che costringe l’esegesi a un ascolto attento e preciso dei testi e, in tal modo, può forse essere anche di qualche utilità.
Tuttavia letture di questo genere non parlano del Gesù delle fonti storiche, ma costruiscono un Gesù nuovo e differente; relegano nell’ambito mitico la fede storica della Chiesa in Cristo. Egli appare così come un prodotto della religiosità greca e di particolari interessi politici nell’impero romano. In tal modo, però, non si rende ragione della serietà della questione, semplicemente ci si ritrae da essa.
Resta allora la domanda: può la fede cristiana, senza perdere il suo rigore e la sua dignità, non solo tollerare l’ebraismo, ma accoglierlo nella sua missione storica?
Può esserci vera riconciliazione senza abbandono della fede oppure la riconciliazione è legata a una simile rinuncia?
Per rispondere a questa domanda non voglio esporre le mie riflessioni, ma piuttosto cercare di mostrare quale sia la posizione del Catechismo della Chiesa cattolica edito nel 1992.
Questo libro fu pubblicato dal magistero della Chiesa come espressione autentica della propria fede; allo stesso tempo, proprio avendo davanti agli occhi Auschwitz e il compito lasciato dal Vaticano II, la questione della riconciliazione vi è affrontata come intimamente connessa alla questione stessa della fede. Vediamo dunque in che modo esso si ponga rispetto alla nostra domanda a partire da questo suo compito (...).
Non c’è nulla di tanto discusso quanto la questione del Gesù storico.
Il Catechismo, come libro della fede, muove dalla convinzione che il Gesù dei Vangeli è l’unico Gesù autenticamente storico. Qui ci occuperemo in particolare del capitolo centrale su Gesù e Israele, che è fondamentale anche per l’interpretazione del concetto di regno di Dio e per la comprensione del mistero pasquale. Ora, sono proprio i temi della Legge, del Tempio, dell’unicità di Dio a portare in sè tutta la carica esplosiva delle lacerazioni ebraico-cristiane.
È possibile comprenderli in maniera storicamente corretta, coerente con la fede e nel primato della riconciliazione?
A dare di farisei, sacerdoti e giudei un’immagine generalmente negativa non sono state solo le prime interpretazioni della storia di Gesù.
Proprio la letteratura liberale e moderna ha riportato in auge il cliché delle contrapposizioni: farisei e sacerdoti vi compaiono come sostenitori di un rigido legalismo, come rappresentanti della legge eterna del potere costituito, delle autorità religiose e politiche, che impediscono la libertà e vivono dell’oppressione altrui.
In linea con queste interpretazioni ci si pone a fianco di Gesù e si ritiene di continuare la sua battaglia, impegnandosi contro il potere clericale nella Chiesa e contro l’ordine stabilito nello Stato.
Le immagini del nemico di certe battaglie moderne per la libertà si confondono con le immagini della storia di Gesù e tutta la sua storia è in fondo interpretata, in tale prospettiva, come una battaglia contro il dominio dell’uomo sull’uomo mascherato dalla religione. Se Gesù dev’essere visto così, se la sua morte va intesa in un contesto del genere, il suo messaggio non può essere la riconciliazione.
È di per sè chiaro che il Catechismo non condivide questa ottica. Per tali questioni esso si attiene soprattutto all’immagine di Gesù del Vangelo di Matteo e vede in Gesù il Messia, il più grande nel regno dei cieli; come tale egli si sapeva obbligato a «osservare la Legge, praticandola nella sua integralità fin nei minimi precetti» (578).
Il Catechismo collega dunque la particolare missione di Gesù alla sua fedeltà alla Legge; vede in lui il Servo di Dio, che porta davvero il diritto (Is 42,3) e diventa perciò «Alleanza del popolo» (Is 42,6; Catechismo 580).
Il nostro testo è dunque molto lontano dai superficiali tentativi di armonizzazione della storia di Gesù carica di tensioni. E anziché interpretare il suo cammino in modo superficiale, nel senso di un presunto attacco profetico al rigido legalismo, cerca di far emergere la sua autentica profondità teologica.
Lo si vede chiaramente nel passo che segue: «Il principio dell’integralità dell’osservanza della Legge, non solo nella lettera ma nel suo spirito, era caro ai farisei. Mettendolo in forte risalto per Israele, essi hanno condotto molti ebrei del tempo di Gesù a uno zelo religioso estremo. E questo, se non voleva risolversi in una casistica 'ipocrita', non poteva che preparare il popolo a quell’inaudito intervento di Dio che sarà l’osservanza perfetta della Legge da parte dell’unico Giusto al posto di tutti i peccatori» (579). Questo pieno adempimento della Legge implica che Gesù prenda «su di sé 'la maledizione della legge' (Gal 3,13 ), in cui erano incorsi coloro che non erano rimasti fedeli 'a tutte le cose scritte nel libro della Legge' (Gal 3,10)» (580). La morte in croce trova così una spiegazione teologica a partire dall’intima solidarietà con la Legge e con Israele; in questo contesto il Catechismo pone un legame con il giorno dell’Espiazione e intende la morte di Cristo come il grande evento espiativo-conciliativo, come piena e completa realizzazione di ciò che i segni del giorno dell’Espiazione significano (433; 578).
Con queste affermazioni siamo giunti al centro del dialogo ebraico-cristiano, al decisivo punto nodale tra riconciliazione e lacerazione.
Laddove il conflitto di Gesù con il giudaismo del suo tempo viene presentato in maniera superficialmente polemica, si finisce per derivarne un’idea di liberazione che può intendere la Torah solo come una servitù a riti e osservanze esteriori.
La visione del Catechismo porta logicamente a una prospettiva del tutto diversa: «La Legge evangelica dà compimento ai comandamenti della Legge (= della Torah).
Il Discorso del Signore sulla montagna, lungi dall’abolire o dal togliere valore alle prescrizioni morali della Legge antica, ne svela le virtualità nascoste e ne fa scaturire nuove esigenze: ne mette in luce tutta la verità divina e umana. Esso non aggiunge nuovi precetti esteriori, ma arriva a riformare la radice delle azioni, il cuore, là dove l’uomo sceglie tra il puro e l’impuro, dove si sviluppano la fede, la speranza e la carità [...]. Così il Vangelo porta la Legge alla sua pienezza mediante l’imitazione della perfezione del Padre celeste [...]» (1968).
Questa visione di una profonda unità tra l’annuncio di Gesù e l’annuncio del Sinai viene ancora una volta sintetizzata con riferimento a un’affermazione neotestamentaria, che non è solo comune alla tradizione sinottica, ma ha un carattere centrale anche negli scritti giovannei e paolini: dall’unico comandamento dell’amore di Dio e del prossimo dipendono tutta la Legge e i Profeti. Per i popoli l’inclusione nella discendenza di Abramo si compie concretamente aderendo alla volontà di Dio, in cui precetto morale e confessione dell’unicità di Dio sono inseparabili, come risulta particolarmente chiaro nella versione marciana di questa tradizione, in cui il duplice comandamento è espressamente legato allo Shema’ Isra’el, al sì all’unico Dio. All’uomo viene comandato di assumere come criterio la misura di Dio e la sua perfezione.
Con ciò si palesa anche la profondità ontologica di queste affermazioni: con il sì al duplice comandamento l’uomo assolve il compito della sua natura, che è stata voluta dal creatore come immagine e somiglianza di Dio e che, in quanto tale, si realizza nella condivisione dell’amore divino. Qui, al di là di tutte le discussioni storiche e strettamente teologiche, veniamo a trovarci proprio al cuore della responsabilità presente di ebrei e cristiani dinanzi al mondo contemporaneo.
Questa responsabilità consiste precisamente nel sostenere la verità dell’unica volontà di Dio davanti al mondo e di porre così l’uomo davanti alla sua verità interiore, che è al tempo stesso la sua via. Ebrei e cristiani devono rendere testimonianza all’unico Dio, al creatore del cielo e della terra (...).
Con le riflessioni svolte fin qui non si è certo sviscerato fino in fondo il tema proposto, lo si è solo introdotto. Si sono quindi poste le basi per affrontare la questione del rapporto Israele-Chiesa, nella consapevolezza che una trattazione dettagliata richiederebbe uno studio il cui svolgimento andrebbe ben oltre i limiti di questo saggio. Ancor meno si può qui affrontare la grande questione di un compito comune di ebrei e cristiani nel mondo attuale.
Mi pare però che il nucleo fondamentale di tale compito traspaia da quanto si è detto e risalti di per se stesso: ebrei e cristiani devono accogliersi reciprocamente in una più profonda riconciliazione, senza nulla togliere alla loro fede e, tanto meno, senza rinnegarla, ma anzi a partire dal fondo di questa stessa fede. Nella loro reciproca riconciliazione essi dovrebbero divenire per il mondo una forza di pace.
Mediante la loro testimonianza davanti all’unico Dio, che non vuole essere adorato in nessun altro modo che attraverso l’unità tra amore di Dio e amore del prossimo, essi dovrebbero spalancare nel mondo la porta a questo Dio, perché sia fatta la sua volontà e ciò possa avvenire in terra così come «in cielo»: «perché venga il Suo Regno'».
© Copyright Avvenire, 26 aprile 2009
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