mercoledì 29 aprile 2009

Il Papa in Abruzzo: il primato della carità (Bobbio)


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Il primato della carità

Alberto Bobbio

Ha visto il dolore, che lascia una traccia indelebile nel cuore e nella mente, che segna la pelle con quel tremito continuo che vedi nelle mani di chi ha perso gli affetti e la casa.
Gli hanno raccontato la paura, che non passa. Lo hanno guardato negli occhi, gli hanno stretto le mani.
E lui si è lasciato abbracciare da madri e da padri con gli occhi gonfi di pianto per aver perso i figli, da mogli e mariti, da bambini e da nonni.
Eppure l'immagine che resta alla fine è quella di un Papa che abbraccia forte una donna davanti ad una tenda blu. Non è lei che abbraccia Benedetto XVI. È il Papa che stringe lei tra le braccia, donna di un popolo pieno di dignità, che ha dato per primo in questi giorni esempio di coraggio.
Quell'abbraccio è riconoscenza, ma anche monito per chi traffica con questo popolo, lo sta aiutando nell'emergenza, ma non lo deve dimenticare nei mesi a venire.
Benedetto XVI, ieri nell'Abruzzo ferito, ha usato con dolcezza e discrezione, ma allo stesso tempo con fermezza ed energia, parole e gesti.
Ha abbracciato, ha spronato, ha indicato stile e metodo di quello che la Chiesa chiama il primato della carità, che non dimentica mai, che non lascia per strada nessuno. Ha usato ad Onna una parola impegnativa per tutti. Ha detto che la solidarietà deve diventare «progetto stabile e concreto nel tempo». Ha assicurato che la Chiesa farà la sua parte. Parole semplici, dirette, come quelle del vescovo Molinari che ha chiesto a tutti di non occuparsi dei propri interessi, che è un altro modo di dimenticare. Poi il Papa ha ascoltato, perché il primato della carità significa anche porgere orecchio al lamento degli uomini che soffrono. Avrebbe voluto andare in ogni borgo, avrebbe voluto percorrere una per una le città di stoffa blu che contrappungono la piana dell'Aquila. Ha ascoltato perché sa bene che la gente ha bisogno di raccontare, anche ad un Papa, un po' del proprio dolore, delle paure che non se ne vanno, degli incubi della notte, perché anche questo è un modo per sentire più lieve il peso di ciò che ha sconvolto e ha portato via la vita.
La Chiesa, di fronte alle tragedie che la mente dell'uomo non riesce razionalmente a controllare, deve tuttavia anche rispondere ad un'altra domanda. È una domanda terribile. È la domanda su Dio, su dove Dio era quella notte. È la domanda che molti preti del terremoto si sono sentiti rivolgere. Neppure il Papa ieri l'ha elusa. Anzi, l'ha offerta a Dio «Signore del cielo e della terra, ascolta il grido di dolore e di speranza».
Alla fine del breve discorso davanti alle macerie di Onna, Benedetto XVI ha letto una preghiera speciale e bellissima, che ha scritto per le vittime del terremoto. In qualche passaggio assomiglia ad un'invettiva, genere letterario che intreccia alcuni passi delle Sacre Scritture e connota la ricerca dell'uomo di fronte al disegno, a volte misterioso, di Dio.
Il Papa teologo sa che la sofferenza, quando è così grande, quando è così improvvisa, può annientare anche la speranza. E Dio diventa un nemico, in chi non viene aiutato a capire.
Benedetto XVI è andato in Abruzzo anche per questo, per stare vicino, più vicino a chi ha provato più dolore. Ascolta Dio, ha detto, ascolta «il grido silenzioso del sangue di madri, di padri, di giovani e anche di piccoli innocenti che sale da questa terra». La gente di qui aveva bisogno delle parole di un Papa, che ha fatto dell'amore di Dio il centro del suo pontificato, scrivendo la prima enciclica proprio su quel primato della carità che solo può migliorare il mondo e i rapporti tra gli uomini.
Questa gente aveva bisogno di guardarlo negli occhi, di prenderne le mani, di abbracciarlo e di farsi abbracciare. Anche per essere confermata che Dio non la dimentica.

© Copyright Eco di Bergamo, 29 aprile 2009

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