venerdì 8 maggio 2009

Il Papa che piace agli ebrei d'Israele (Di Giacomo)


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Il Papa che piace agli ebrei d'Israele

FILIPPO DI GIACOMO

Il Papa, come tutti i pastori, non è obbligato a essere sempre ottimista con il suo gregge.
Mercoledì, invece, all’udienza generale Benedetto XVI ha salutato le popolazioni della Terra Santa che incontrerà durante la visita apostolica che inizia oggi dicendosi fiducioso che il futuro riserverà a palestinesi e israeliani «molti frutti per la vita spirituale e civile di tutti quelli che abitano in Terra Santa».
Ha anche alluso, guadagnandosi gl’insulti della radio dei coloni in Cisgiordania, ai possibili sviluppi del dialogo interreligioso musulmani-ebrei, osservando che lui, come tutti i capi religiosi della regione «siamo determinati nel nostro desiderio e negli sforzi per la pace» e per «l’unità».
C’è un tempo per ogni cosa, dice la Bibbia. E forse, a Gerusalemme è giunto il tempo di parlare di cose concrete. Anche il ministro degli Esteri israeliano, in Italia qualche giorno fa, ha definito di «grandissima, infinita importanza» il viaggio di Benedetto XVI in Giordania, Palestina e Israele.
Un viaggio, secondo il ministro Liebermann, di «duplice importanza» per i rapporti tra Israele e arabi moderati; un dialogo tra cristianesimo ed ebraismo che potrebbe funzionare «da stimolo per un confronto tra islam ed ebraismo».
Quando nel marzo 2000 Giovanni Paolo II riuscì a portare le parole con la richiesta di perdono negli interstizi del Muro del Pianto, per l’opinione pubblica della Terra Santa i cattolici erano poco più che degli sconosciuti. Fu padre David Jaeger, francescano d’origine ebraica, a lamentare che a quasi 50 anni di distanza dalla fondazione dello Stato d’Israele i cattolici continuavano a non voler avere voci autorevoli che s’inserissero nel vivace dialogo sociale e politico della democrazia israeliana. Per settimane dopo la visita papale, nelle librerie israeliane andarono a ruba più di 60 titoli sul cattolicesimo e il suo Papa. Da allora gli israeliani sanno che tutti i documenti contro l’antisemitismo d’ogni colore, dalla conciliare Nostra Aetate in poi, portano la firma del teologo Ratzinger.
Tale consapevolezza, può essere dedotta anche da una recente ricerca che l’inglese Smith Institut, società indipendente di studi socio-politici, ha condotto in Israele per valutare la percezione che i cittadini hanno del cattolicesimo.
I risultati, pubblicati da Yediot Ahronot a fine febbraio, appaiono sorprendenti perché l’inchiesta è stata condotta tra le due querelles che hanno infiammato il mondo cattolico-ebraico d’inizio 2009: quella seguita alle affermazioni negazioniste del vescovo Williamson e l’altra causata dalle battute sacrileghe anticristiane d’un comico ebreo sulla tv commerciale Canale 2. I dati, come d’abitudine per le cose israeliane, tengono conto di coloro che abitano Israele da laici e di quelli che vi risiedono come «osservanti». Una distinzione assai particolare che, fuori d’Israele, rischia di avere poco senso: se l’ortodossia è determinata dal grado di aderenza alle leggi e alle pratiche religiose ebraiche, solo il 20% degli ebrei israeliani adempie a tutti i precetti religiosi, il 60% segue una forma di combinazione di leggi secondo scelte personali e tradizioni etniche, e il 20% è non osservante.
Benedetto XVI si reca in un Paese dove il 54% dei cittadini che si definiscono laici considera il cristianesimo vicino all’ebraismo e molto più amichevole dell’islam; la quasi totalità ritiene gli arabi israeliani di fede cristiana ottimi cittadini; il 91% non è in alcun modo disturbato dai simboli cristiani; l’80% non ha difficoltà a visitare le chiese cristiane; il 71% riconosce ai cristiani il diritto al proselitismo anche in Israele; il 68% vorrebbe che il cristianesimo fosse studiato nelle scuole (e il 52% estende tale desiderio ai Vangeli) e oltre il 50% sarebbe d’accordo se le chiese cristiane fossero finanziate dallo Stato come le sinagoghe. Queste percentuali sono invece quasi simmetricamente rovesciate tra il 20% degli ebrei osservanti come il ministro Liebermann che, nonostante tutto, ieri si è mostrato aperto a un’opinione pubblica espressa nel suo Paese da correnti politiche diverse dalla sua. Che l’attuale ministro degli Esteri veda nei rapporti cattolico-ebraici un paradigma da sviluppare anche tra ebraismo e islam sembra perciò un nuovo presagio di quella provocazione culturale che, sin dalla nascita, la democrazia d’Israele rappresenta per tutto il Medio Oriente: un invito a svuotare se stessi, a liberarsi da legami contingenti, da sentimenti, desideri, progetti, per aprirsi all’Altro. Magari anche con l’aiuto delle parole del Papa di Roma.

© Copyright La Stampa, 8 maggio 2009 consultabile online anche qui.

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