venerdì 8 maggio 2009
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Il nunzio apostolico Antonio Franco parla del viaggio del Pontefice
Per la Terra Santa la speranza di una convivenza pacifica nella giustizia
di Gianluca Biccini
Benedetto XVI ha spiegato che quello in Terra Santa sarà un pellegrinaggio di fede e di pace.
Ma sin dall'annuncio i media hanno cominciato a offrire all'opinione pubblica chiavi di lettura diverse. Ne abbiamo parlato con l'arcivescovo Antonio Franco, da tre anni nunzio apostolico in Israele e in Cipro e delegato apostolico in Gerusalemme e Palestina.
Una vita nella diplomazia della Chiesa, questo presule settantaduenne originario della Campania non smentisce il proprio cognome che nella lingua italiana è un aggettivo per indicare schiettezza, sincerità.
Quale risonanza ha avuto la notizia del viaggio del Papa? Ci sono stati in Terra Santa atteggiamenti poco favorevoli o segnali di strumentalizzazione?
Se ne iniziò a parlare nell'ottobre 2008 in ambienti ristretti della Chiesa. Poi pian piano, a motivo della necessità dei contatti con i Governi interessati per organizzare il viaggio, la notizia è cominciata a filtrare. Così a dicembre era già stata in qualche modo ufficializzata: l'atteggiamento era di grande attesa e soddisfazione, anche se c'era qualche riserva. Le preoccupazioni sono aumentate dopo il 27 dicembre, quando è iniziato l'attacco a Gaza. Tanto che a fine gennaio, quando cessate le ostilità si è ricominciato a parlare del viaggio, sembrava aumentato il numero di quanti non lo ritenevano opportuno. Per altri invece, proprio perché c'erano delle situazioni difficili e di grande tensione tra le popolazioni della Terra Santa, il Papa doveva venire con il suo messaggio di pace e di speranza.
Quel che posso affermare con certezza è che se c'è stata qualche voce contraria al viaggio tra i cristiani è stato solo per la difficoltà della situazione politica e sociale e che la Chiesa locale è felice di accogliere il Papa come Padre e pastore. Sono anche sicuro che la volontà dei presidenti dello Stato di Israele e dell'Autorità palestinese è retta.
Eppure c'è stato chi ha voluto vedere nella visita di Benedetto XVI soprattutto i possibili risvolti politici nel contesto del Vicino Oriente.
Il Papa ha parlato in modo chiaro durante il conflitto. Sin dall'Angelus del 28 dicembre, subito dopo i primi attacchi a Gaza, ha rivolto un inequivocabile appello al cessate il fuoco. Di fronte all'escalation delle operazioni militari, la Santa Sede ha chiesto a israeliani e palestinesi di uscire dal vicolo cieco dello scontro e di ricercare soluzioni negoziali. C'è stata la condanna della violenza da una parte e dall'altra, sebbene ai più la reazione militare israeliana sia apparsa fuori misura.
I media occidentali hanno dato ampio rilievo al clima positivo di attesa diffuso tra i musulmani. Come giudica questo atteggiamento?
Vi è certamente un interesse vivo alla visita del Papa da parte dell'Autorità Palestinese e del popolo che lotta per vedere riconosciuti i propri diritti. La posizione della Santa Sede, del resto, è sempre stata di sostegno a questi diritti, così come a quelli del popolo israeliano. Una posizione un po' scomoda, a ben vedere, perché ci sono diritti per entrambe le parti, per tutti e due i popoli. Non ci sono più diritti per una parte e meno per l'altra. I diritti hanno valore universale.
I palestinesi sanno che nel corso degli anni c'è stato un impegno crescente della Santa Sede: per questo guardano al Papa come a una persona che conosce la loro realtà e ne difende i diritti. Del resto, lo stesso si potrebbe dire dal punto di vista ebraico, perché la Santa Sede proclama e sostiene chiaramente anche i diritti di Israele.
Ecco allora l'invito a conciliare e armonizzare i diritti nel rispetto reciproco degli uni e degli altri.
E le polemiche che hanno riguardato Benedetto XVI in questi ultimi tempi?
Ci sono state le prese di posizione relative al ruolo di Pio XII durante la seconda guerra mondiale e quelle legate alle dichiarazioni negazioniste del vescovo lefebvriano sulla Shoah. Ma bisogna dire che allo stato attuale tutto è stato ampiamente chiarito, soprattutto durante l'incontro del 12 marzo scorso tra Benedetto XVI e una delegazione del Gran Rabbinato d'Israele.
Per questo adesso sembra esserci un'attesa sincera e molti si rendono conto che Benedetto XVI si pone in continuità con Giovanni Paolo ii e non in contrasto, come purtroppo una certa stampa tende a descrivere sovvertendo la realtà.
È in atto una sorta di esodo dei cristiani dalla Terra Santa, e più in generale da tutto il Medio Oriente, tanto che alcuni esperti parlano di emorragia senza fine. C'è il rischio concreto che la presenza cristiana in questa parte del mondo possa essere ridotta ai minimi termini?
Purtroppo è una realtà che riguarda tutta la regione, non solo la Terra Santa. Posso fare l'esempio dell'Iran che conosco bene: ai tempi dello Scià i cristiani erano più di trecentomila, sessantamila dei quali cattolici. Oggi le cifre sono ridotte all'osso: quando infatti i cristiani sono una minoranza, essi subiscono maggiormente le difficoltà ambientali e risentono delle situazioni storiche contingenti.
Ma torniamo alla Terra Santa.
Abbiamo la parte dove ci sono i palestinesi, a maggioranza musulmana, e poi c'è Israele, a maggioranza ebraica. In quest'ultimo caso la Santa Sede ha fatto e sta facendo un lavoro molto intenso per dare una base giuridica alla presenza e all'azione della Chiesa, che a tutt'oggi non ha ancora un riconoscimento legislativo. Ci sono stati due accordi: quello fondamentale del 30 dicembre 1993 - che aprì la porta alle relazioni diplomatiche - e quello del 1997, per il riconoscimento giuridico della Chiesa e delle sue istituzioni. Ma ambedue non sono stati ancora trasformati in legge dalla Knesset, il parlamento sovrano. Va anche riconosciuto che nella sostanza i Governi hanno finora rispettato tali accordi. Al presente stiamo lavorando sul cosiddetto Accordo economico, che riguarda le questioni fiscali, ma anche l'attività sociale, caritativa ed educativa delle istituzioni della Chiesa e altri aspetti della vita delle nostre comunità.
E nei Territori palestinesi?
Anche qui c'è sempre stato grande rispetto per i cattolici, soprattutto nelle aree dove c'è stata tradizionalmente la presenza della Chiesa, cioè nei Luoghi santi. Per quel che riguarda i musulmani, ad esempio, il governatore di Betlemme un giorno mi ha detto: noi qui abbiamo sempre celebrato insieme le nostre feste e abbiamo convissuto in armonia. Però anche a Betlemme, dove i cristiani erano maggioranza, oggi sono diminuiti. Molti sono emigrati e continuano a farlo.
C'è stato anche qualche atto di intolleranza a Gaza, come reazione al proselitismo di gruppi evangelici molto aggressivi. Ma in linea di massima il fenomeno migratorio va visto come un fatto sociale e non religioso: ci sono povertà e insicurezza, non c'è pace, perciò si fugge. Lo fanno anche i musulmani e gli stessi israeliani, ma quando a farlo è la minoranza cristiana le cifre acquistano una maggiore visibilità.
Il dato di fatto è che i cristiani stanno diminuendo. Nostro compito è aiutarli a rimanere facilitando loro la soluzione dei problemi essenziali, come la casa e il lavoro.
Dall'esperienza maturata sul campo quale lettura può dare del viaggio del Papa in una situazione in continua evoluzione?
Sono arrivato il 30 marzo 2006, e quindi da tre anni, durante i quali mi sono impegnato a sviluppare il dialogo per eliminare i pregiudizi tra mondi che comunicano con difficoltà. Il cristianesimo è visto con diffidenza in Israele per motivi storici. Bisogna sforzarsi di farsi capire, stabilire rapporti per far comprendere che siamo davvero sinceri, nella scia della spinta data dal concilio Vaticano ii. Occorrono stima, rispetto e, quando è possibile, collaborazione, per trovare punti di convergenza, per stare insieme. Con Israele abbiamo continuato i negoziati per gli accordi. Ora, con questo Governo da poco in carica si apre una nuova fase, nella quale non abbiamo ancora segnali chiari. Ecco allora che bisogna partire dagli sviluppi positivi degli ultimi anni, con la speranza di concludere almeno i capitoli più importanti degli accordi.
Per i territori palestinesi, invece, tutto è condizionato dalla mancanza di pace. C'è una sorta di ossessione per la sicurezza, in un ambiente di timori e di apprensione che, purtroppo, a volte paralizzano.
Ritiene che per i profughi e per i familiari delle vittime dei raid a Gaza la presenza del Pontefice possa significare un rilancio delle speranze di pace?
Gaza è una realtà molto complessa. La divisione in gruppi tra i palestinesi, aumenta le difficoltà della Striscia. Si è innescato, purtroppo, un circolo vizioso. Loro dicono: noi reagiamo a Israele perché ci soffoca. Israele dice: noi rispondiamo al lancio dei vostri missili. È questo il "vicolo cieco" di cui ha parlato il Papa all'Angelus del 28 dicembre 2008, ribadendo poi, nel discorso al Corpo diplomatico del successivo 8 gennaio, che "l'opzione militare non è una soluzione e la violenza, da qualunque parte essa provenga e qualsiasi forma assuma, va condannata fermamente". Ora c'è tregua, ma occorre lavorare intensamente alla ricerca di soluzioni a lungo termine, senza dimenticare che, per vivere in pace - come tutti vorrebbero - occorre buona volontà da entrambe le parti.
Al di là degli aspetti eminentemente pastorali, che significato assume la visita del Papa nel contesto di tutta la regione mediorientale?
Ci auguriamo che la presenza di Benedetto XVI accenda qualche scintilla di speranza. Vorrei essere ottimista, ma occorre soprattutto essere realisti. La soluzione del problema palestinese purtroppo appare lontana. Bisogna sciogliere ancora molti nodi e occorre un impegno maggiore da parte di tutti. Bisogna, prima di tutto, volere davvero la pace e impegnarsi attivamente per creare le condizioni che la favoriscano. La mia speranza è che la visita di Benedetto XVI possa dare in qualche modo una spinta decisiva verso una convivenza pacifica nella giustizia.
(©L'Osservatore Romano - 8 maggio 2009)
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