giovedì 21 maggio 2009
Il Papa e la scala di Giacobbe (Roberto Fontolan)
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La scala di Giacobbe
Roberto Fontolan
giovedì 21 maggio 2009
Dopo il viaggio del Papa in Terra Santa ho riletto la Deus Caritas Est, la prima enciclica di Benedetto XVI.
E’ stato un impulso, nato dalla sensazione che quelle decine e decine di discorsi e di saluti e messaggi pronunciati tra Giordania Israele e Palestina avessero nello sfondo proprio l’amore divino e l’amore umano cui il Papa si è così profondamente dedicato in quel documento.
Perché non c’è un discorso “interiore” e un discorso “politico”, non c’è una parola che vada bene per l’anima e che non vada bene per il corpo, non c’è un’intimità separata dall’esteriorità.
Mentre il nostro mondo non fa altro che separare, sezionare, biforcare. L’incontro con l’altro, chiunque sia questo altro, è ultimamente un atto d’amore pienamente umano e quindi anche politico. Si può parlare di “amore politico”, di amore nella politica? E’ l’immensa sfida lanciata dall’enciclica (naturalmente si tratta di una convinzione del tutto personale).
Il nostro mondo vive della divisione tra corpo e anima, tra amore e eternità. E implicitamente il Papa colpisce questi due “principi di separazione”. Due “leggi” che ritroviamo dappertutto: nella pubblicità, nel cinema, negli spettacoli televisivi, nelle politiche sulla famiglia, nei discorsi con gli amici, nella vita pubblica. Chi crede davvero che l’amore abbia a che fare con l’eternità? Che nell’incontro d’amore tra due giovani o tra un marito e una moglie giunti al ventesimo anno di matrimonio o nel gesto di amore verso un figlio o nell’atto d’amore verso una persona afflitta dal dolore; che nella stretta di mano sincera tra due avversari così come nel negoziato leale tra due parti politiche: che in tutto questo ci sia dell’eterno, chi lo pensa sul serio? Al più l’amore sono incontri, gesti, atti: cioè momenti, istanti. E’ un attimo (l’attimo fuggente, dicevano gli antichi e con loro un film che anni fa ha ovviamente incantato le platee di mezzo mondo) e in nome di quell’attimo la nostra vita, le nostre scelte si piegano. Per noi, per la nostra mentalità comune non è l’amore che apre all’eternità, cioè a qualcosa di totalmente altro da noi, a qualcosa di impensabile dal nostro cervello, incontrollabile dalla nostra misura; ma è l’eternità a chiudersi, a definirsi nell’amore così come noi lo vogliamo e lo desideriamo. E quanti danni, quanta infelicità, quanto odio - anche politico, anche etnico - derivano da questo malinteso senso dell’amore e dell’eternità.
Viviamo proprio in una epoca di ignoranza totale. Divoriamo giornali, passiamo anni della vita sui banchi di scuola, magari abbiamo visto Shakespeare a teatro e letto le poesie di Auden, di Hikmet, di Milosz, qualche canto dantesco, ma restiamo degli analfabeti, abbiamo ancora bisogno dell’abc.
Abbiamo perso la sapienza che ci fa uomini. Amore eterno non è una espressione buona per le canzoni romantiche.
E’ la profonda verità della vita, ci avverte sorprendentemente (non siamo più abituati a ragionare in questo modo) il Papa. Senza l’eterno non siamo niente, non costruiamo niente, non possiamo incontrare l’altro, non facciamo il bene nostro e non riusciamo nemmeno a pensare al bene comune.
Benedetto XVI mostra di conoscere bene il linguaggio dei sentimenti e delle passioni (anche politiche). E non dice che i sentimenti sono vietati e che le passioni vanno respinte. Dice che o c’entrano con l’eterno o uccidono l’uomo.
E’ una lotta, non c’è dubbio, contro ciò che sempre, sempre, lavora per quella separazione. Il moralismo, la mentalità dominante, il potere, il Maligno che mette in dubbio l’eterno, il richiamo dell’attimo fuggente. Ogni giorno, dice la Bibbia, siamo posti davanti alla morte e alla vita. Tempo fa, viaggiando nelle riduzioni gesuitiche, tra Paraguay e Bolivia, sono stato colpito dalla quantità e varietà di angeli che adornano quel che resta (a volte, come in Bolivia, chiese intatte e meravigliose) dell’architettura di quella felice e misconosciuta stagione cristiana.
Nell’enciclica il Papa cita la scala di Giacobbe come simbolo dell’amore che è unione di eros (la passione che necessita di purificazione) e agape (scoperta e cura dell’altro): “una scala che giungeva fino al cielo, sulla quale salivano e scendevano gli angeli di Dio”. Un tramite dell’amore divino, dell’eterno, che dà vita all’amore umano, in tutte le sue forme, politica inclusa.
© Copyright Il Sussidiario, 21 maggio 2009
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