lunedì 27 luglio 2009
Il filo che lega Papa Montini a Benedetto XVI (Massimo Camisasca)
Vedi anche:
LA FIGURA DI GIOVANNI BATTISTA MONTINI, PAPA PAOLO VI
Anche la Chiesa ebbe il suo 1968, espresso ad esempio dal Catechismo olandese. La risposta di papa Montini fu il "Credo del popolo di Dio" (Magister)
Su segnalazione di Elisabetta leggiamo:
Il filo che lega papa Montini a Benedetto XVI
Dimenticato? Tutt'altro. Per capire il segreto di Paolo VI bisogna rileggere il suo "Credo" e un discorso a braccio del 1978.
di Massimo Camisasca
Il papa dimenticato. Così Paolo VI è stato definito recentemente. Non so quale possa essere l'intenzione di chi ha creato questo aggettivo: "dimenticato".
In realtà Paolo VI dimenticato non lo è assolutamente. Forse l'espressione giornalistica nasce dalla considerazione che il suo pontificato si è svolto tra due altri grandi papi del secolo ventesimo: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Ma Paolo VI non è un papa dimenticato. Il suo pontificato non può essere dimenticato perché ha attraversato i drammatici anni 60 e 70.
Paolo VI ha vissuto un'interpretazione mondiale del ministero petrino. A lui si debbono i primi viaggi intercontinentali; ha voluto emblematicamente visitare tutti i continenti della terra, e ha aperto in questo modo la porta ai grandi e numerosissimi viaggi di Giovanni Paolo II.
Le sue encicliche sociali, in particolare la Populorum progressio, che suscitò tanto scalpore e tanto sconcerto, in realtà non volevano essere che una ripresa ed un ammodernamento dei temi della tradizionale dottrina sociale della Chiesa. Un papa, dunque, proteso a seguire le linee fondamentali dei pontificati precedenti, avviandoli agli orizzonti nuovi della storia.
Problemi assolutamente nuovi, invece, Paolo VI si trovò ad affrontare all'interno della Chiesa.
La prima grave decisione che dovette prendere nella notte successiva alla sua elezione fu: continuare o interrompere il Concilio? Nessuno come lui conosceva le divisioni che già si manifestavano all'interno dell'episcopato mondiale, nessuno come lui avvertiva che il Concilio sarebbe stata un'impresa enorme, di non breve durata, come invece aveva sognato Giovanni XXIII. Ma soprattutto nessuno come lui, che veniva dall'esperienza di una diocesi così grande e importante come Milano, sapeva l'impresa epocale rappresentata dal Concilio. Il '900 si era aperto con il modernismo e la lotta combattuta da Pio X contro tale eresia. Ma i problemi erano rimasti sul tappeto, ed erano: «Qual è il rapporto fra la continuità della tradizione e la novità dei tempi?». «Che cosa deve essere salvato e che cosa cambiato?». E «in quale direzione operare il cambiamento?». Era il problema del rapporto intimo fra perennità e storia. Le scienze umane, dalla seconda metà dell'800, avevano avuto un grande sviluppo, in particolare la storia, la sociologia e la psicologia, che rappresentavano un sapere nuovo. Avrebbero sconfitto la fede? L'avrebbero messa in un angolo? Ridotta a mito? Superata? Erano gli scenari aperti già da Hegel e da Nietzsche. Torniamo al modernismo. Se nella storia tutto evolve, e nulla rimane, quale posto ha l'autorità? E l'obbedienza? Come leggere la Bibbia? Come vivere la liturgia e i sacramenti? Qual è il rapporto con chi ha altre fedi e con chi non ne ha nessuna? E il rapporto fra la fede e l'azione, in particolare tra l'appartenenza ecclesiale e la vita politica? Questi sono soltanto alcuni fra i più rilevanti temi che, seppur ancora confusamente, agitavano gli animi più consapevoli dei pastori della Chiesa. Papa Giovanni aveva parlato di aggiornamento, molti sentivano l'urgenza di una riforma. Anche tutta l'opera di don Luigi Giussani si può a mio parere esprimere compiutamente e non arbitrariamente in questo contesto.
Giovanni Battista Montini aveva sentito fortemente la messa in discussione dei valori tradizionali causata dalla modernità (l'ultima biografia di Paolo VI, quella di Giselda Adornato, si intitola "Paolo VI, il coraggio della modernità"). Il titolo è felice solo in parte: per Montini la modernità è nello stesso tempo un dato di fatto della storia, una opportunità per l'uomo, e un momento di crisi che porta in sé anche la perdita di tanti valori. È un evento fondamentalmente ambiguo. Si può dire che tutta la sua vita sia stata tesa, nella consapevolezza di tale ambiguità, a mostrare la necessità di aperture e di altrettanto importanti "no" da compiersi di fronte al mondo che cammina. È questa anche l'origine di un giudizio che è stato dato sul pontificato di Paolo VI, e sulla sua persona, mentre ancora era papa. A molti appariva un uomo incerto (c'è chi lo chiamerà "Amleto", sostenendo addirittura di riprendere un'espressione di papa Giovanni), un pastore ambiguo, indeciso, uomo dei passi in avanti e indietro, condannato necessariamente a scontentare prima o poi sia gli uni che gli altri e a ritrovarsi fondamentalmente solo.
In un testo degli inizi del pontificato egli paragona se stesso a una guglia del Duomo, alla solitudine di chi deve stare sempre sul pinnacolo del tempio. «Bisogna che mi renda conto della posizione e della funzione che ormai mi sono proprie, mi caratterizzano, mi rendono inesorabilmente responsabile davanti a Dio, la Chiesa, l'umanità. La posizione è unica. Vale a dire che mi costituisce in estrema solitudine. Era già grande prima, ora è totale e tremenda, dà le vertigini, come una statua sopra una guglia… niente e nessuno mi è vicino… anche Gesù fu solo sulla croce… io non devo avere paura, non devo cercare appoggio esteriore, che mi esoneri dal mio dovere». Siamo nell'agosto del '63, solo due mesi dopo la sua elezione a papa. In realtà egli si trovò a traghettare la Chiesa in anni terribili, quando tutto sembrava venire meno. E a lui si deve riconoscere il grande merito di non avere ceduto.
Nell'ultimo discorso del suo pontificato, il 29 giugno 1978, festa dei santi Pietro e Paolo, poco più di un mese prima della sua morte, ebbe a dire: «Gettiamo uno sguardo complessivo su quello che è stato il periodo durante il quale il Signore ci ha affidato la sua Chiesa… ci sentiamo a questa soglia estrema confortati e sorretti dalla coscienza di avere instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente (Mt 16,16); anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede (2Tm 4,7). Il nostro ufficio è quello stesso di Pietro, al quale Cristo ha affidato il mandato di confermare i fratelli: è l'ufficio di servire la verità della fede e questa verità offrire a quanti la cercano… infatti la fede è più preziosa dell'oro (1Pt 1,7)… non basta riceverla, ma bisogna conservarla anche in mezzo alle difficoltà». Paolo VI aveva dunque completa consapevolezza di essere passato attraverso il fuoco, di aver subito prove terribili, di non aver ceduto a coloro che volevano identificare la fede con una sapienza umana. Ed ecco le sue parole che sigillano tutto il pontificato: «Fidem servavi, possiamo dire oggi con la umile e ferma coscienza di non aver mai tradito il santo vero» (l'espressione è di Manzoni). In quel discorso di fine pontificato Paolo VI ricorda i suoi documenti più importanti che hanno confermato la fede della Chiesa, e al termine dell'elenco così si esprime: «Ma soprattutto non vogliamo dimenticare quella nostra professione di fede, che proprio 10 anni fa, il 30 giugno del 1968, noi solennemente pronunciammo in nome e ad impegno di tutta la Chiesa come "Credo del popolo di Dio" per ricordare, per riaffermare, per ribadire i punti capitali della fede della Chiesa stessa, proclamata dai più importanti Concili ecumenici, in un momento in cui facili sperimentalismi dottrinali sembravano scuotere la certezza di tanti sacerdoti e fedeli, e richiedevano un ritorno alle sorgenti». È sommamente interessante quanto il papa dice in seguito: a distanza di 10 anni ritiene che i problemi della Chiesa non siano risolti, né sul piano dottrinale, né su quello disciplinare. Occorre allora, secondo lui, richiamarsi ancora energicamente a quella professione di fede. Anzi, addirittura rivolge un accorato invito a coloro che all'interno della Chiesa sono causa di eresia e di scisma: «Si guardino dal turbare ulteriormente la Chiesa; è giunto il momento della verità e occorre che ciascuno conosca le proprie responsabilità di fronte a decisioni che debbono salvaguardare la fede, tesoro comune che il Cristo, il quale è Petra, è roccia, ha affidato a Pietro, vicarius Petrae, vicario della Roccia, come lo chiama san Bonaventura».
Durante il Concilio Vaticano II dei padri avevano richiesto che ci fosse una nuova professione di fede: erano stati preparati dei progetti ma infine non si era approdati a nulla. Quando Paolo VI pensò a un "Anno della fede" per commemorare il 19° centenario del martirio dei santi Pietro e Paolo l'idea fu ripresa in un modo strano. Jacques Maritain, in ritiro presso i Piccoli Fratelli di Gesù a Tolosa, non sapeva che ci sarebbe stato un anno della fede, ma ebbe l'idea di una nuova professione di fede. La trasmise a Paolo VI attraverso il Cardinal Journet. A questo suggerimento si aggiunse il voto del Sinodo dei vescovi dell'ottobre 1967. Il 14 dicembre di quell'anno il papa incaricò il cardinal Journet di preparare uno schema e questi chiese l'aiuto di Maritain. Il progetto di quest'ultimo, che doveva essere solo un aiuto per Journet, fu da questi inviato tale e quale al papa. Montini ne fu entusiasta, e il "Credo del popolo di Dio" fu elaborato a partire da questo schema. Il testo finale che fu letto dal papa può essere visto come l'espressione della fedeltà del Concilio alla tradizione. È il testo di Paolo VI più citato nel Catechismo della Chiesa cattolica (14 volte). Si tratta di un simbolo della fede, cioè di un'enunciazione sintetica e organica dei contenuti della fede, che nasce dalla fede battesimale e conduce alla catechesi. «Siccome la fede è una conoscenza attraverso la mediazione di una persona, include un rapporto interpersonale, le capacità conoscitive ma anche la fiducia e la stabilità di un rapporto». Così scrive la Fides et Ratio, descrivendo l'identikit del discepolo.
Non c'è nessun concettualismo, nessun intellettualismo nella fede cristiana. Per questo dietro il "Credo del popolo di Dio" vi è una concezione autentica della conoscenza: «Al di là di ciò che può essere osservato e scientificamente verificato, l'intelligenza che Dio ci ha dato riguarda ciò che è e non soltanto l'espressione soggettiva delle strutture e della evoluzione della coscienza». Parole che evidentemente risalgono al progetto Maritain. Il Credo del popolo di Dio nasce dall'esigenza, manifestata da tante persone, di essere illuminate nella loro ricerca della verità o anche nella loro fede, ricevuta dalla tradizione, ma ora scossa e contestata. Ogni epoca è chiamata a ripensare ciò che è assolutamente semplice come il mistero di Dio ma che, consegnato a noi dentro la complessità della storia, deve essere riscoperto, riespresso, chiarito. Dato che il Vaticano II non ha voluto concludere con un atto di fede i suoi lavori, Paolo VI vi ha rimediato con questa professione, «completa ed esplicita».
A mio parere il frutto più notevole di questo importante atto del magistero di Paolo VI è stato il Catechismo della Chiesa cattolica.
A metà strada fra il Credo del 1968 e la ferma professione di fede del 1978, che non nasconde i problemi ancora vivi e profondi nel corpo della Chiesa, vi è, sempre in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo, il 29 giugno del 1972, un intervento accorato di Paolo VI.
Fu talmente imprevisto (il papa si scostò talvolta dal testo scritto e improvvisò a braccio), fu una tale espressione drammatica del suo cuore profondamente ferito, che neppure l'Osservatore Romano ebbe il coraggio di pubblicarlo, limitandosi a un sunto. Ciò che fece più impressione al mondo è l'accenno a Satana: «Da qualche fessura - disse il papa, e l'accenno è alla Chiesa come un tempio ormai pieno di brecce - è entrato il fumo di Satana». Se ne vedevano i frutti: il dubbio, l'incertezza, l'inquietudine, l'insoddisfazione, la sfiducia. Naturalmente molti giornali parlarono di un gusto medievale e retrogrado. Ma in realtà ciò che più colpisce in quel testo sono le parole drammatiche che analizzano il tempo presente: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza… cerchiamo di scavare abissi invece di colmarli».
L'accenno al Diavolo non era nuovo in Montini: vi si era riferito anche in alcuni interventi milanesi, e vi tornerà più avanti, per esempio negli appunti sugli esercizi spirituali del 1976 predicati dal cardinal Wojtyla. L'improvvisato e angosciato discorso del 29 giugno 1972 era stato d'altra parte preceduto, proprio nei giorni immediatamente anteriori, da altri due interventi. Il 21 giugno, nel 9° anniversario dell'elezione, aveva detto: «Forse il Signore mi ha chiamato a questo servizio non… perché io… salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa… non la nostra mano debole ed inesperta è al timone della Barca di Pietro, sì bene quella invisibile, ma forte ed amorosa, del Signore Gesù».
Come si vede, in Paolo VI l'abisso della inquietudine e della prova richiama l'abisso della fede, della fiducia e, ultimamente, della serenità confidente. Il 23 giugno, nel suo giorno onomastico, parlando ai cardinali, aveva accennato a un «immane sforzo di presentare al mondo il suo [di Cristo] messaggio. Le forze talora sembrano mancare, i risultati essere impari all'impegno. Ma non per questo ci scoraggiamo». Aveva accennato all'edificio ecclesiale che sembra a taluni minacciato nella sua unità. Sono i tradizionalisti, di fronte a cui vede contrapposti coloro che pensano che la Chiesa debba «rinunciare perfino alle certezze acquisite, per mettersi unicamente all'ascolto dei bisogni del mondo». Di fronte a queste schiere contrapposte, sottolinea l'esatta interpretazione del Concilio che non deve rappresentare una rottura con la tradizione. Non esiste una "Chiesa nuova", reinventata dall'interno. Benedetto XVI riprenderà proprio questo principio ermeneutico.
© Copyright Il Riformista, 26 luglio 2009
Bello questo articolo, a patto pero' che non si dimentichi che solo con Benedetto XVI diventa chiaro ed esplicito il concetto di "ermeneutica della continuità" e di "rinnovamento nella continuità". E soprattutto e' solo con Papa Ratzinger che questa linea viene spiegata per bene anche ai fedeli attraverso tutta una serie di interventi (discorsi ed omelie).
Forse, e dico forse, questo concetto andava fissato a caratteri cubitali, da subito.
Si e' perso, a mio avviso, molto tempo.
Ritorneremo sul "Credo" e sulle ragioni che spinsero Paolo VI ad intervenire nel caos che si venne a creare dopo il Concilio in un prossimo post.
R.
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2 commenti:
Paolo Vi è stato un grandissimo Papa, spesso non compreso perchè non seguito e no ascoltato, come del resto accade per benedetto XVI. Quanti ora rimpiangono Giovanni paolo II lLo criticavano quando era in vita. Chi Lo ha serguito davvero? Non nei canti e nelle battute dei tempi iniziali, ma nel cammino della Croce, nel magistero della sofferenza e Ratzinger era l'Amico fedele, Cloui che L'ha amato.
Per anonimo: anche io la pensa come te. Ero troppo giovane per seguire con interesse Papa Montini ( facevo le scuole medie ) ma, chissà perchè avevo simpatia per quel Papa tanto inascoltato e bistrattato. Su Giovanni Paolo II hai pienamente ragione. All'inizio del suo pontificato anche lui ha dovuto fare i conti con tanti che dicevano di lui di tutti i colori; gli stessi poi, che si sono improvvisati orfani inconsolabili ma, credo che al di là dei balli, delle messe coreografiche e di tanta paccottiglia, pochissimi hanno colto il vero significato di quel pontificato che è racchiuso nelle Encicliche di Giovanni Paolo II e che coloro che si professano solo ora orfani non ne conoscono neanche il contenuto la maggior parte delle volte. Riguardo Ratzinger, Giovanni Paolo II lo volle al suo fianco per tutta la durata del suo Pontificato evidentemente, come lui stessò dirà era il suo amico fidato. Sì perchè anche Giovanni Paolo II di amici accanto a sè ne aveva ben pochi in curia.
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