martedì 25 novembre 2008

Pietro Barcellona sul "caso" Englaro: "I giudici non possono creare le norme" (Il Sussidiario)


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ELUANA/ Barcellona: i giudici non possono creare le norme. La scienza? In questi casi farebbe bene a tacere

INT. Pietro Barcellona

La vicenda di Eluana raccoglie tutte le contraddizioni di un’impostazione culturale che ha smarrito il significato della persona e dell’interiorità, che non sa più quali sono i compiti della legge e i limiti della scienza. E in gioco c’è la vita di una ragazza che si vuol far morire sulla base di una ipotetica ricostruzione della sua volontà. «La tesi si riduce a questo: la vita è mia e sono io a decidere. Ma questo potere non ce l’ha nessuno, nemmeno l’interessato, perché io non sono padrone della mia vita. La coscienza è il quid al quale riferirsi in ultima istanza, ma non è il tribunale che dà il placet per fare qualsiasi cosa». La magistratura? Ha prevaricato. Il fine vita? Ora serve una legge, c’è da sperare che il clima non comprometta il risultato. Ilsussidiario.net ha parlato del caso Englaro con Pietro Barcellona.

Professor Barcellona, qual è la sua opinione sulle ultime vicende del caso Englaro?

La cosa che più mi rattrista è che la sorte della povera Eluana abbia determinato una divisione in pro e contro la sua morte, mentre io rifuggirei da ogni enfatizzazione. La questione culturale in gioco? È su un falso binario. Di fronte all’ipotesi di ammalarmi di Alzheimer potrei anche voler esprimere, in un testamento, la volontà di essere soppresso, ma può darsi poi che quando comincio ad aver i primi sintomi del male, voglia fare il possibile per sopravvivere. Nessun giurista serio può sostenere che si può far risalire la volontà a un tempo anteriore: essa va espressa a in modo puntuale in riferimento al fatto in questione, ha un valore attuale.

La sentenza della Cassazione del 2007 ha stabilito che si poteva ricostruire l’ipotetica volontà di Eluana Englaro e ha detto quali sono i casi in cui deve valere il consenso dell'interessato come se il testamento biologico fosse già nell'ordinamento.

È stato senz’altro un caso di “supplenza eccessiva” da parte della magistratura, che dovrebbe starsene un po’ di più entro i propri confini e limitarsi ad applicare le norme esistenti. Ma il problema, più radicalmente lo vedo in questo modo. Quello che si cerca di far valere nelle argomentazioni, mi pare, è il tentativo di esaurire il problema del nascere e del morire nel potere di decidere. La tesi si riduce a questo: la vita è mia e sono io a decidere. Ma non sono d’accordo che si possa dire una cosa simile. Questo potere non ce l’ha nessuno, nemmeno l’interessato.

Nemmeno il diretto interessato? Perché?

Perché io non sono padrone della mia vita, al massimo ne possiedo solo uno “spicchio”. Non nasciamo per libera scelta, ma perché qualcuno ci ha messo al mondo. E l’intera nostra vita si sviluppa entro una trama di intrecci, legami, libertà, vincoli, che smentiscono l’autopossesso e la piena autodeterminazione. Ma tutto questo, mi dirà, va poi regolato sul piano del diritto. Direi così: che di certo non possiamo pretendere di risolvere sul piano dell’esistenza pubblica i dilemmi dell’esistenza privata.

Cosa intende dire?

Che la vita è una cosa così sfuggente e misteriosa che ridurla in formule – anche giuridiche – mi sembra l’ultima presunzione dell’uomo contemporaneo. La mia preoccupazione è che l’attuale dibattito giuridico stia semplificando indebitamente un tema di grande profondità. Occorre chiedersi: cosa vuol dire coscienza privata? La coscienza non è un vuoto pneumatico dove “gioiosamente” si fanno atti di volontà, come afferma Flores d’Arcais, ma è lo spessore della nostra personalità, fatta di principi morali, di retaggio della tradizione, di relazioni ed emozioni. La coscienza è il quid al quale riferirsi in ultima istanza, ma non è il tribunale che dà il placet per fare qualsiasi cosa.

Come regolare il campo di indeterminazione che si è venuto a creare in conseguenza della vicenda di Eluana? Possono colmarlo le sentenze dei giudici?

Una legge ci vuole, perché l’alternativa è la confusione totale. La mia forte avversità al clima che si è determinato sta anche nel fatto che questo rende tutto più difficile. La mischia in atto complica tutto e potrebbe compromettere il risultato. C’è da augurarsi che l’azione legislativa, frutto anche di compromesso, possa dare punti fermi in una società purtroppo ormai priva di rapporto con la verità ed il bene.

È giusto dire che proprio in conseguenza della mancanza di una legge sul fine vita i giudici hanno stabilito norme in una sfera sottratta all’ordinamento?

La questione della competenza è stata sollevata e a mio modo di vedere a ragione: era giusto chiedere alla Corte costituzionale di valutare se questa materia rientra o no nella competenza del giudice. D’altra parte è l’idea che ho sempre sostenuto: che i giudici non possono creare le norme.

Dove non arriva il diritto può arrivare la scienza?

La scienza? In questi casi farebbe bene a tacere. Se c’è qualcuno che è lontano da posizioni chiare, certe e univoche sul rapporto tra vita biologica e vita mentale è proprio la scienza. E non può avere la pretesa dell’ultima parola, perché fortunatamente non è ancora il fondamento della nostra società.

© Copyright Il Sussidiario, 25 novembre 2008

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