mercoledì 15 luglio 2009

La Chiesa, la crisi, il mercato (Carlo Stagnaro)


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La Chiesa, la crisi, il mercato

di Carlo Stagnaro

[15 luglio 2009]

C'è sempre uno iato tra i messaggi che arrivano dagli indicatori macroeconomici e la realtà di una società che subisce una crisi. Così come ai primi segnali di deterioramento dell'economia non corrispondeva un effettivo peggioramento della qualità della vita per la maggior parte della gente, oggi tutti coloro che a vario titolo pagano il conto della recessione - disoccupati, aziende rimaste senza ordinativi, imprenditori che portano i libri in tribunale - non sempre riescono a condividere l'ottimismo degli analisti. La questione se il peggio sia passato o debba ancora arrivare è di lana caprina: è un fatto, però, che dopo una serie ininterrotta di indicazioni negative C' su tutti i fronti, da qualche settimana si vede ora un miglioramento, ora un rallentamento della caduta. È in questo contesto che si inseriscono le parole di monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana: «Pur vedendo con fiducia i segni di ripresa che pure ci sono - ha detto - purtroppo la crisi persiste e rischia di avere nei prossimi mesi il momento più critico». Paradossalmente, queste parole arrivano assieme a una ventata di euforia dall'Est: dopo una dolorosa contrazione, nel secondo trimestre 2009 il Pil di Singapore ha registrato un balzo in avanti del 20 per cento. È una notizia importante non tanto per le sue conseguenze immediate e dirette, quanto perché Singapore è una delle economie più aperte e dinamiche del globo, ed è quindi ragionevole aspettarsi che reagisca in modo più accentuato ai miglioramenti. È, insomma, una spia che induce ad aspettarsi, nei prossimi mesi, ulteriori irrobustimenti dei mercati un po' ovunque. Il monito di Crociata, dunque, si sovrappone in negativo a quella che, finalmente, può definirsi una buona nuova. Perché, e a chi si rivolge? In ballo non c'è la capacità dei vescovi di leggere tra le righe dell'economia. C'è piuttosto il posizionamento della Chiesa nell'ampio dibattito su quali politiche possano o debbano essere adottate per aiutare chi è stato falciato dalla crisi, e concorrere al rilancio dello sviluppo. Un posizionamento che risponde non solo alla funzione della Chiesa di "agenzia morale" e, dunque, di stakeholder rispetto ai grandi mutamenti, ma anche e soprattutto all'esigenza di esprimere tesi e proposte che siano coerenti da un lato coi messaggi che giungono dalle borse, dall'altro con la prospettiva autorevolmente espressa dall'enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate. Essa compie, tra l'altro, una rivalutazione dei sistemi di sicurezza sociale e, implicitamente, dello statalismo europeo. Ed è in questo contesto che cadono gli ammonimenti di monsignor Crociata: sotto a quanto viene detto, sta un dubbio che deve essere risolto. Se la crisi tocca, come ha detto Crociata, «la parte della popolazione che non ha mai scialacquato», cioè «i singoli, le famiglie e le comunità» (il che non è del tutto vero, in questi termini), allora chi deve farsi carico di gestire la transizione? I privati o il settore pubblico? L'aspetto paradossale di tutto ciò sta nel fatto che la stessa enciclica che difende il welfare state, rilancia anche tutti quegli sforzi privati e sociali assieme. Un esempio significativo, che vede proprio la Cei protagonista, viene dalla cronaca di ieri, e riguarda l'accordo tra la Conferenza episcopale e Intesa- Sanpaolo, che integra l'accordo Cei-Abi per l'erogazione di finanziamenti agevolati alle famiglie in difficoltà, su indicazione della Caritas. La stessa Chiesa, dunque, si trova al mezzo di un conflitto e di una tensione: da una parte è protagonista di azioni che mostrano come la società possa far maturare gli strumenti per soccorrere gli ultimi, dall'altro invoca un più attivo ruolo dello Stato in questa direzione. Ciò è paradossale soprattutto alla luce della premessa, essa sì straordinariamente attuale, che apre la Caritas in veritate, e che consiste in una netta distinzione tra i rispettivi ambiti della carità, intesa come spontaneo gesto d'amore per il prossimo, e la giustizia, cioè il diritto. L'intervento pubblico, come ha evidenziato Carlo Lottieri in un Focus dell'Istituto Bruno Leoni, innesca un cortocircuito, perché fa venir meno la premessa della carità. Nutrendosi di denaro estorto ai contribuenti, trasforma la solidarietà non più in un moto di empatia per chi ha bisogno, ma in un gesto redistributivo alle spalle di tutti. Insomma: non c'è limite al bene che si può fare coi soldi degli altri. Solo che, fatto coi soldi degli altri, quello non è più un bene.

© Copyright Liberal, 15 luglio 2009 consultabile online anche qui.

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