giovedì 30 aprile 2009

Il Papa in Abruzzo: Quei segni di fede ritrovati che risvegliano memoria e pietà (Corradi)


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LA VISITA DI BENEDETTO

l’abbraccio

Attorno al Pontefice un popolo intero, vecchi, ragazzi, volontari, vigili del fuoco e finanzieri che si sono ritrovati insieme nelle parole delle preghiere cristiane

Quei segni di fede ritrovati che risvegliano memoria e pietà

Ratzinger bussa alla porta giubilare di Collemaggio che s’apre sullo sfacelo

Appena dentro la basilica è stata messa la teca di Celestino V, santo della Perdonanza e patrono dell’Aquila. Recuperata integra dalle macerie è simbolo della storia che continua La campana di Onna salvata dai pompieri continua a suonare da un campanile di travi. E il crocefisso scoperto tra i detriti della chiesa delle Anime Sante ieri era al centro del palco

DI MARINA CORRADI

La grande porta giubilare della ba­silica di Collemaggio è intatta. La mano di Benedetto XVI e quella dell’arcivescovo dell’Aquila insieme bussano sul legno massiccio, com’è tradizione: a Collemaggio, i pellegrini bussano.
Il portone si schiude mo­strando il transetto in macerie, il tetto sventrato da cui la pioggia e il vento entrano come padroni. Ma appena dentro è stata messa la teca di Celesti­no V, intatta con la sua teca nello sfa­celo generale.
Benedetto si inginoc­chia, depone il pallio della sua investi­tura papale sul santo dell’Aquila, sul santo della Perdonanza, da cui in pel­legrinaggio ogni anno tornano gli a­bruzzesi. È un segno, quel tornare a bussare a Collemaggio distrutta; è la fede e la storia di un popolo che, dopo la tempesta, continua.
E tutta la mattina abruzzese del Papa è un allinearsi di segni. È la campana di Onna salvata dai pompieri e instal­lata su un povero campanile di travi; è il crocefisso strappato alle macerie del­la chiesa delle Anime Sante e posto al centro del palco, a Coppito. Subito do­po che le vite umane, gli abruzzesi sembrano aver cercato e salvato osti­natamente i segni della loro fede – co­sì come, da una casa distrutta, affan­nosamente si prendono almeno le fo­tografie dei genitori, e dei figli.
Segni come simboli che rimandano a antichi patrimoni di memoria e di pietà.
Abbiamo visto, attorno al Papa in Abruzzo, un popolo vero. Sfollati avvolti in impermeabili di plastica sotto l’acqua battente, vecchi, ragazzi, volontari, pompieri e finanzieri davanti a quel palco, e forse ci ha quasi stupito vedere sulle labbra le parole del Regina Coeli, e, comunque un ritrovarsi insieme nelle parole delle preghiere cristiane.
Un’Italia che ci dicono scomparsa, o in via di estinzione. Ma in questo Abruzzo passato attraverso la catastrofe, sotto a un cielo di nuvole torve, la gente è andata dal Papa, s’è stretta davanti alle tv nelle tendopoli, ha ripetuto con lui coralmente vecchie parole: requiem aeternam dona eis Domine…
Lui è venuto come un padre.
Come un padre, è andato prima di tutto nel cuore del dolore, a Onna, quaranta morti su 250 abitanti. E lì ogni protocollo ufficiale è saltato; gli stava attorno, addosso, la gente – proprio come quando arriva in una casa una persona cara, che si aspettava tanto. Una madre gli ha porto una bambina piccolissima; e c’era in quegli occhi di donna una commossa fierezza di regina, nel mostrare al Papa che a Onna nascono ancora figli, che Onna è viva. A Coppito, il Papa ha voluto salutare i preti della diocesi ad uno ad uno; e i sindaci, anche, e ancora ci ha sorpreso vedere che quasi tutti, con le fasce tricolori addosso, gli baciavano la mano. Come un’Italia che nella sofferenza supera divisioni e riscopre ciò che tiene, al fondo: una comune radice.
Perché questa solidarietà che abbiamo visto prendere corpo e forza in Abruzzo, e quasi ha meravigliato gli italiani stessi, e tacitato per qualche giorno risse e meschinerie, non è solo, ha detto il Papa, una efficiente macchina organizzativa: dentro invece «c’è un’anima, c’è una passione, che deriva dalla grande storia civile e cristiana del nostro popolo».
L’anima dell’Abruzzo, che è poi l’anima dell’Italia più semplice e tenace, s’è vista nelle strade sferzate dalla pioggia, mentre i vecchi cocciutamente si ricalcavano in testa i cappucci delle cerate che il vento strappava. S’è vista, nelle mani che afferravano quelle del Papa e le tenevano a lungo, e malvolentieri se ne staccavano. Perfino, anche se a chi guardava la tv dal suo soggiorno caldo e asciutto pareva incredibile, si sono visti a Coppito e a Onna dei sorrisi. Come si sono visti gli sguardi fissi a terra di chi non potrà colmare il suo dolore, degli straziati che quella notte sono sopravvissuti a un figlio.
Che cosa si può dire a questi padri e madri? Forse che si farà giustizia, che quel costruttore andrà in galera?
L’unica parola la può portare chi ti dice, come ha detto il Papa: i vostri figli, sono fra i vivi.
Sono venuti a cercare la sola parola che vale di fronte alla morte, i terremotati abruzzesi. Come istintivamente, come sapendo in fondo che oltre la dimenticanza quella radice c’è ancora, ed è la sola che un boato feroce nella notte non possa scalzare. Sono venuti i compagni degli studenti morti all’Aquila, ragazzi e ragazze, a salutare il Papa. C’era con loro il giovanissimo cappellano che nel quartiere dei pub teneva la sua chiesa aperta fino alle due di notte: chi voleva, entrava – ed entravano in tanti. Uno di questi studenti ha raccontato di avere detto a Benedetto XVI di studiare ingegneria.
Il Papa si è illuminato: «Ah, un ingegnere, c’è tanto bisogno qui di voi». E quel ragazzo pareva essersi messo via, in fondo al cuore, quelle parole. Si può aver perso gli amici e la casa e ogni certezza, ma voler vivere e sperare ancora, se sai che delle tue mani c’è bisogno. Se sei certo – te lo ha detto un padre – che nemmeno i tuoi amici, in verità, li hai perduti per sempre.

© Copyright Avvenire, 29 aprile 2009

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