domenica 26 aprile 2009

Realpolitik vaticana: da Ginevra ad Aleksander Lukashenko ecco le ultime mosse della diplomazia d’oltre il Tevere (Rodari)


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Realpolitik vaticana: da Ginevra ad Aleksander Lukashenko ecco le ultime mosse della diplomazia d’oltre il Tevere

di Paolo Rodari

apr 26, 2009 il Riformista

Finita l’era dell’Ostpolitik vaticana di casaroliana memoria (nel senso del cardinale Agostino Casaroli, suo principale e illustre interprete), terminata la necessità impellente delle concessioni e delle aperture verso quei paesi del blocco sovietico che segregavano tutto e tutti, cattolici compresi, oltre il Tevere sembra vi sia oggi spazio esclusivamente per una politica estera incentrata sul pragmatismo, insomma per una vera e propria realpolitik di stampo vaticano.
È davvero così? In un certo senso sì. E la conferenza Onu di Ginevra sul razzismo lo dimostra. L’arcivescovo Silvano Tomasi, rappresentante vaticano alla conferenza, infatti, non ha abbandonato i lavori per protestare contro il discorso antisemita di Mohammed Ahamadinejad.
E la Santa Sede ha giustificato tale decisione, spiegando più approfonditamente il motivo della presenza vaticana: «La conferenza in sé - ha detto il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi - è un’occasione importante per portare avanti la lotta contro il razzismo e l’intolleranza».
Un’occasione come tante altre, dunque, che è meglio sfruttare piuttosto che ignorare. Che tradotto significa: occorre essere pragmatici, è più opportuno sostenere lo sforzo delle istituzioni internazionali per fare dei passi avanti nella lotta al razzismo, è più opportuno stare là dove c’è la grande maggioranza dei paesi del mondo, piuttosto che non fare nulla.
Realpolitik appunto.
E anche nelle prossime ore la Santa Sede darà un saggio di questa tendenza quanto a diplomazia internazionale.
A varcare le sacre mura per un incontro col Pontefice, infatti, è niente meno che l’“ultimo dittatore d’Europa”, ovvero il presidente bielorusso Aleksander Lukashenko.
Il leader di un paese che dal 1995 non ha rapporti con le principali cancellerie europee, che in pochi anni è riuscito a ripiombare in un passato che ha i sapori e i colori del regime comunista di stampo sovietico, dà un colpo importante alla propria immagine internazionale ottenendo un’udienza da Benedetto XVI.
In Vaticano la decisione è stata presa più che altro per routine: «C’è un nunzio apostolico in Bielorussia, c’è un ambasciatore bielorusso accreditato presso la Santa Sede, quindi…», ha ricordato il portavoce vaticano padre Federico Lombardi.
Eppure, dietro la decisione, c’è una volontà precisa. L’esperta regia è di monsignor Dominique Mamberti, capo della sezione estera della segreteria di Stato.
È stato lui ad aver spinto per l’incontro. In fondo - manco a dirlo - è semplicemente una questione di realismo: all’indomani delle legislative di settembre, infatti, si è verificata una generale svolta nei rapporti tra Lukashenko e l’Occidente. La comunità internazionale ha evidenziato migliorie e passi in avanti. Non solo, i Ventisette hanno deciso di sospendere per sei mesi le sanzioni e di riavviare i contatti politici a livello di “trojka”. Quindi è arrivato l’invito ufficiale da parte di Bruxelles alla partecipazione di Minsk al nuovo Partenariato per l’Est. Insomma: anche la Santa Sede, in scia a quanto già sta avvenendo tra Bierolussia ed Europa, ha preso nota delle nuove aperture del paese verso l’Occidente e, consapevole che è meglio favorirne il pur difficile processo verso un autentico sviluppo piuttosto che non fare nulla, ha deciso di aprire le proprie porte e di accogliere l’ospite tanto atteso.
Tanto pragmatismo non è nuova in Vaticano.
Molto ve n’è stato nel pontificato wojtyliano. Non a caso è senza compromessi e con lucido realismo che Giovanni Paolo II ha attraversato sei presidenze Usa, il crollo dell’Urss, le briciole del Muro di Berlino, lo sgretolamento dei Balcani, il “nuovo” ordine mondiale dettato dai bombardieri nel Golfo, in Serbia, in Afghanistan, il rovinoso esito del neocolonialismo nelle guerre africane dimenticate, il crollo del comunismo “reale” e insieme la nascita della contestazione antiglobale. E molto pragmatismo vive oggi nella Santa Sede.
Tanto che alcuni sostengono che la differenza tra Giovanni Paolo II e Benedetto XVI stia semplicemente nella maggior disinvoltura con la quale quest’ultimo fa propria una politica estera all’insegna della realpolitik.
Ma è proprio così? Sì, ma non del tutto. E la Cina, o meglio le relazioni che la Santa Sede tesse con il paese cinese, ne sono un esempio lampante. A dimostrazione che non tutti coloro che in Vaticano organizzano le linee da tenere quanto a diplomazia internazionale la pensano allo stesso modo.
Con la Cina, infatti, il Vaticano sembra tornato ai tempi del blocco sovietico: quando l’Ostpolitik, la mediazione a tutti i costi impregnata di silenzio attorno alle barbarie del regime, la faceva da padrona. Anche nel pontificato di Benedetto XVI, come in quello di Giovani Paolo II, si è cercato di trattare con Pechino per ottenere il più possibile. Ma il risultato è stato pessimo. Le vessazioni continuano come e più di prima l’invio della lettera che Ratzinger scrisse ai cattolici cinesi nel 2007. Tanto che, pochi giorni fa, la Santa Sede ha dovuto per forza di cose cambiare strategia e denunciare l’operato di Pechino. Ovvero le continue ritorsioni del regime verso i cattolici del paese. Ma a cosa porterà questo cambio di politica è difficile dirlo.
Anche perché, in Vaticano, i seguaci della Ostpolitik sempre e comunque sono ancora presenti, capaci e soprattutto parecchio attivi.

© Copyright Il Riformista, 26 aprile 2009 consultabile online anche qui, sul blog di Rodari.

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