domenica 26 aprile 2009

L’arcivescovo Molinari: «L’ombra di Pietro conforterà L’Aquila» (Lambruschi)


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«L’ombra di Pietro conforterà L’Aquila»

L’arcivescovo Molinari: la visita del Papa grande dono

DAL NOSTRO INVIATO ALL’AQUILA

PAOLO LAMBRUSCHI

La città ferita aspetta l’ombra di Pietro. L’e­spressione, tratta dagli Atti degli Apostoli, piace molto all’arcivescovo metropolita dell’Aquila Giuseppe Molinari, 71 anni, nativo dell’Aquilano e parroco in città per 28 anni, pri­ma di guidare la diocesi dal 1996. È la definizio­ne usata per le visite del primo Papa alle na­scenti comunità dei cristiani in Palestina quan­do, narra il testo sacro, il vicario di Cristo sanò una donna malata, Tabità, che significa gazzel­la, e resuscitò un morto.
«Portò gioia e speran­za, ascoltò e guarì le inevitabili ferite – spiega l’arcivescovo sfollato, che ci riceve nel giardino della casa della sorella, dove vive in tenda e si fer­ma tra una visita e un incontro in questi gironi frenetici, mentre cerca di far ripartire la Curia – , anche noi ne abbiamo bisogno. Papa Bene­detto ci ha dimostrato da subito affetto e dispo­nibilità a questa visita. Siamo molto contenti. Mi chiamò appena dopo la tragedia per testi­moniare la sua preghiera per questa terra e la sua gente.
Allora mi disse che sarebbe venuto ap­pena possibile. Oltre alla sua paterna presenza, noi siamo felici di accogliere con lui l’ombra di Pietro, che porta Cristo nella nostra città che sof­fre. I primi credenti gli portavano i malati per­ché l’ombra del Papa li guarisse, così faremo noi».

Quale significato ha per voi?

La sua visita attirerà su di noi ancor di più l’at­tenzione, però come credenti conta la presen­za particolare di Cristo nel Suo vicario. Per noi rappresenta in questo momento la vicinanza del Signore che viene a guarirci da quello che in questo momento può turbare e uccidere la spe­ranza, abbiamo bisogno di guarigione da ogni tentazione di ripiego su noi stessi, da ogni at­teggiamento contrario alla fede, che ci chiede di andare avanti sempre.

Tra i gesti che compirà il Papa, quale la colpi­sce di più?

Sono tutti significativi, ma il dono del pallio è straordinario. Dopo aver visitato Onna, il paese martire, si recherà alla basilica di Collemaggio e venererà l’urna di San Celestino donandoci il pallio che indossò il giorno della sua elezione. Con quel pallio cingeremo la reliquia del Santo, un gesto che simboleggia il grande affetto del Papa e l’importanza del messaggio della bolla del perdono, un invito alla pace e alla riconciliazio­ne per tutto il mondo. Non dimentico la rosa d’oro che depositerà davanti alla statua della Madonna di Roio. All’Aquila è circondata da grande devozione popolare, la porteremo dal santuario diocesano perché è la statua cara ai nostri vecchi pastori abruzzesi che, finita l’esta­te, partivano con gli animali per le Puglie.

Torniamo a oggi, qual è la situazione a 20 gior­ni dal terremoto?

È una tragedia grande, ma è importante per il di­segno di Dio. Chi crede e conosce la storia del­la salvezza e quella di Cristo sa che dopo la mor­te c’è la vita nuova, la risurrezione. Il terremoto non è la fine di tutto, anche se non abbiamo più lacrime per piangere chi non c’è più. Però gra­zie alla visita del Papa e alla preghiera di tutta la Chiesa speriamo di avere la forza di proseguire il cammino.

Anche sotto le tende la Chiesa aquilana non si è mai fermata un minuto...

Nonostante le difficoltà e le paure, i miei preti sono stati al loro posto, accanto ai loro fedeli, sia per le esigenze materiali sia per quelle spiri­tuali. Continuano con umiltà e semplicità il lo­ro servizio pastorale. Mi hanno colpito per la lo­ro forza, diversi di loro non sono italiani, ven­gono dall’Africa o dal Sudamerica. Eppure sono rimasti con le loro comunità e stanno cercando di dare il meglio in condizioni difficili. Presto ci incontreremo per riorganizzarci.

La Chiesa italiana non ha fatto mancare la sua vicinanza.

Sì, sono commosso. C’è stata una risposa bella e spontanea. Ho sentito la solidarietà dei con­fratelli vescovi, dei religiosi. L’opera dei volon­tari, delle Caritas e delle associazioni è sotto gli occhi di tutti. Dal terremoto, dalla morte, dal male è venuto tanto bene, ha unito ancora di più la mia Chiesa e la Chiesa italiana. Senza con­tare l’affetto di tanti vescovi di ogni parte del mondo, dove ci sono migranti abruzzesi, ma an­che da luoghi impensabili. La definirei una fo­resta immensa di cose buone.

In un’intervista a Radio Vaticana, ha chiesto certezza su tre cose per ripartire. Casa, lavoro e università. Perché?

Perché le famiglie stanno tenendo, la mia è gen­te semplice con valori sani. Ma a lungo andare le famiglie disgregate si sfaldano, la vita in ten­da logora e divide. Serve allora la possibilità di tornare a produrre e progettare. Quanto all’uni­versità, è l’intervento più rapido da effettuare, bastano strutture leggere e sicure. Prima del si­sma vivevano in questa città 30mila studenti, dobbiamo farli tornare per fare ripartire molto in fretta l’economia, la cultura e il tessuto so­ciale. Gesti concreti ridanno la speranza.

© Copyright Avvenire, 26 aprile 2009

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