mercoledì 25 novembre 2009

Medio Oriente, le Chiese cattoliche locali verso il Sinodo del 2010 (Sir)


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Le Chiese cattoliche locali verso il Sinodo del 2010

Rilancio del dialogo tra le diverse Chiese e con le altre fedi e rafforzamento della testimonianza e della comunione ecclesiale. Sono queste le due direttrici principali sulle quali si muoveranno il lavori del prossimo Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, indetto da papa Benedetto XVI dal 10 al 24 ottobre 2010.
Il tema scelto dal Pontefice non lascia dubbi: "La Chiesa cattolica in Medio Oriente: comunione e testimonianza. La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un'anima sola". Come spiegato dall'arcivescovo Nikola Eterović, segretario generale del Sinodo, si tratta di " riflettere innanzitutto sulla comunione e sulla testimonianza che la Chiesa è chiamata a dare nel particolare contesto mediorientale, dove è nata e dove è ancora presente con difficoltà ma con speranza" . Un contesto reso ancora più difficile da tensioni politiche, religiose, sociali ed economiche, all'interno delle quali pesa, per i cristiani, l'essere minoranza. E lo è ancor di più per i cattolici, minoranza nella minoranza. Alcune stime parlano di 2 milioni di cattolici su 11 milioni di cristiani presenti nella regione. Davanti al pericolo di un Medio Oriente privo dei cristiani appare ineludibile per le Chiese locali riflettere sul significato della loro presenza per testimoniare l'unità piuttosto che i propri patrimoni, riti e tradizioni etniche e politiche. Ne abbiamo parlato con mons. Jean Benjamin Sleiman, vescovo latino di Baghdad e profondo conoscitore delle Chiese cristiane del Medio Oriente.

Quanto e come influiscono sulla comunione ecclesiale le differenti tradizioni delle Chiese mediorientali, i loro riti, il loro patrimonio etnico e politico?

"Direi che su questo versante c'è un retaggio, anche culturale, sul quale ha pesato molto l'Islam. Penso alla politica: questa è un cardine dell'Islam, fondante della religione stessa, a tal punto che per alcuni l'Islam non può vivere che in uno Stato islamico. Le Chiese sono state influenzate da questa realtà. La richiesta di rappresentanze politiche in seno ai Parlamenti nazionali, come i caldei in Iraq, la particolare struttura statale libanese con la divisione religiosa dei poteri, il coinvolgimento dei cristiani palestinesi, un tempo anche con proprie formazioni paramilitari, alla causa politica della Palestina, sono esemplari in questo senso…".

Differenze che invece di arricchire hanno pesato sulla comunione ecclesiale?

"Hanno influito negativamente sulla comunione delle Chiese che in Medio Oriente presentano molte giurisdizioni e, quindi, anche divisioni. Non è una questione di riti, che sono e restano un modo di pregare, ma quando il rito diventa comunità etnica, identità culturale le cose diventano difficili".

In che modo questo Sinodo potrebbe riequilibrare gli assetti?

"Innanzitutto potrebbe aiutare a demitizzare le Chiese nazionali. Le Chiese ortodosse, in genere sono nazionali, ma quelle cattoliche no. Per tessere i fili di una nuova comunione servono i giovani che facilmente riescono a superare queste divisioni, ma non è detto che da soli riescano a farlo. Serve l'appoggio delle gerarchie e della famiglia. La componente latina può servire da collante anche se, fatta eccezione per la Terra Santa, questa non ha un numero consistente di fedeli ma è rilevante tra gli ordini e gli istituti religiosi".

Dalla comunione alla testimonianza e il rapporto con l'Islam…

"Sono due gli atteggiamenti da evitare rispetto all'Islam: lo scontro e nascondere tutte le difficoltà sotto l'etichetta della fraternità, che pure in tanti casi esiste. Dove l'Islam è maggioritario non ci sono state nuove leggi per la cittadinanza. Anche se lo statuto dei dhimmi (un patto tra non musulmani, nella fattispecie cristiani, e un'autorità di governo musulmana che dietro pagamento di un tributo offriva loro protezione ma minori diritti legali e sociali, ndr) non viene esplicitamente applicato, per il sistema civile vale la sharia e, quindi, c'è una discriminazione attiva e presente anche nel migliore dei casi. Il problema, storicamente parlando, lo si può percepire anche analizzando la storia dei movimenti nazionalisti islamici che cercarono di neutralizzare la religione all'interno della politica, senza riuscirvi. Oggi il fondamentalismo islamico è presente un po' dappertutto".

Come viene percepita dagli islamici l'attività caritativa e quanto influisce nei rapporti?

"C'è il sospetto di proselitismo da parte degli integralisti ma la popolazione è grata. La Caritas, anche se la sua presenza è relativa, laddove opera viene apprezzata e stimata. Realizza programmi di sviluppo cercando di formare una nuova società, attraverso la famiglia, si occupa dei bimbi malnutriti coinvolgendo le famiglie, non basta dare da mangiare ma educare la famiglia. Lo stesso accade con il recupero dei disabili aiutando le famiglie ad accettare la disabilità che in società tradizionali come in Medio Oriente è ritenuta una vergogna se non un castigo divino. La Caritas gode di stima anche perché, come ci dicono molte persone «ci sono agenzie che ci aiutano e poi vanno via, voi invece restate sempre con noi». Il legame assume valore. Non hanno paura di noi perché sanno che dietro la carità non ci sono secondi fini".

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