mercoledì 25 novembre 2009
Arte: i geni ci sono. Mancano i committenti (Buscaroli)
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Su segnalazione di Eufemia leggiamo:
I geni ci sono
Mancano i committenti
di Beatrice Buscaroli
Quando Caravaggio sconvolge Roma col suo primo San Matteo, e poi con la Morte della Vergine, e non va bene niente, perché lui dipinge «per se stesso», e dipinge la Madonna di Loreto come una bella bellissima borgatara di Roma che ha un figlio in mano di almeno cinque anni - il modello che aveva per le mani - e dipinge i piedi sporchi dei fedeli, le piante nere di morchia delle strade, quando Caravaggio sconvolge Roma, a Roma c’è gente che capisce. Mancini, Baglione, Bellori, tutti nemici. Quando Caravaggio sconvolge Roma, ha capito che un’annegata nel Tevere può rappresentare la morte della Vergine, in modo diverso da tutti, da tutti prima di lui. Piedi sporchi e derelitti, delitti, straccioni e cardinali... lui dipinge quel che sa, quel che può, ma poi qualcuno capirà.
È il 1606. È l’ultima opera dipinta prima di scappare da Roma, 1606. Destinata all’altare di un grande civilista come Laerte Cherubini per Santa Maria della Scala. Lo vede Rubens e lo compra per Vincenzo Gonzaga. Nessun problema, qualcuno capisce. Rubens in persona. La Morte della Vergine.
È arte contemporanea. O no? È arte contemporanea.
Oggi si citano filosofi, sociologi, urbanisti, «comunicatori». E tutti dicono che l’arte è morta. L’ha detto Hegel due secoli fa. Eppure anche oggi gli assessori devono fare i monumenti ai marinai, ai caduti di adesso, e nelle piazze si deve ricordare l’eroe locale. Come? Male, come si fa in Italia, dove per non avere il coraggio di ricordare chi e cosa, si piazzano vele, cannoni, nuvole per dare nomi ai caduti che devono stare ordinatamente nelle letterine di bronzo del marmo scolpito dal lapicida del cimitero locale. Abbiamo tutti bisogno della cosiddetta «arte contemporanea», che prima di essere arte contemporanea è il bisogno millenario di una collettività, di un’associazione, di una necessità, di una memoria, che è di tutti noi.
E quindi leggiamo i filosofi come Giovanni Reale che dicono che l’arte è morta, o almeno non si sente molto bene. Mai, come nel nostro secolo, e quello appena passato che è poi il nostro, gli artisti sono stati abbandonati. Non c’è una critica d’arte, non c’è un giudizio, non c’è uno scopo che non sia quello poverissimo e debole dei loro galleristi, e del mercato, e del temibile «sistema dell’arte», non c’è soprattutto un committente. Ditemi chi in Italia può confortare, appoggiare, spingere un artista se non è il suo mercante. Troppo facile dire che l’arte è morta se nessuno si occupa degli artisti. Dove stare, come stare è perché.
In fondo gli artisti vanno avanti, e fanno, e noi ne scriviamo, e l’arte non è morta affatto. Basta pensare al successo planetario di un architetto come Calatrava. Alle visioni di Kiefer. Alle vetrate di Richter. Ai molti giovani (9 su 20) italiani esposti nel Padiglione Italia della Biennale da me curata. L’arte non è mai morta. Ed Emilio Vedova dipingeva sempre e comunque, anche quando non andava di moda dipingere. L’arte cambia, semplicemente, ed oggi è sola.
Scriveva Arturo Martini, rispondendo a un «referendum» nel 1938. «Come considera lo stato presente dell’arte europea contemporanea?». Martini: «L’arte contemporanea. In quest’epoca sono riusciti soltanto gli amori contrastati; gli altri, con dote e intervento degli zii potenti, hanno fallito. I primi sono andati a finire, dopo dove mesi, dalla levatrice; gli altri, dall’avvocato, l’arte è un po’ così».
L’arte è un po’ così.
E stupisce che due giorni fa il Papa, dallo «scrigno singolare di memorie (...) che costituisce lo scenario solenne ed austero di eventi della storia della Chiesa e dell'umanità qual è la Cappella Sistina», si rivolga agli «amici», da Venditti a Vecchioni, da Terence Hill a Bill Viola, da Zaha Hadid a Peter Greenaway, per dire di non avere paura di «confrontarsi con la sorgente prima e ultima della bellezza».
Alla bellezza «ultima» non vorremmo rinunciare, a priori, quanto alla «paura del presente», come dice Rilke nelle Lettere su Cézanne, «viviamo tanto male perché ci troviamo nel presente così impreparati, incapaci, distratti da tutto». Distratti, soprattutto. Ma da chi, e perché? Gli artisti ci sono e accorrono alla Cappella Sistina come avrebbe fatto Pietro Perugino nel Quattrocento, esattamente. E quindi? Da chi e perché l’arte sarebbe dichiarata in crisi? Non facciamoci sorprendere «impreparati». Leggetevi la vita di Pietro Perugino, un outsider, non un vincente. Era comunque uno fuori dal «sistema».
© Copyright Il Giornale, 24 novembre 2009 consultabile online anche qui.
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