martedì 25 novembre 2008

Card. Biffi: "I Cristiani devono annunciare la Verità, non adattarsi al mondo" (Crippa)


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Un ruggito rosso porpora

L’ultima catechesi del cardinal Biffi. I cristiani devono annunciare la Verità, non adattarsi al mondo

di Maurizio Crippa

"Agli ultimi Sinodi cui ho partecipato, ho visto tante brave persone, ma il livello non è quello dei vescovi del Concilio. Tutti sono gentili e pieni di buone intenzioni, ma mi sembra che manchi un po’ d’intelligenza, che non guasta mai. Un’intelligenza del cuore”.
A dirlo non è stato il cardinale Giacomo Biffi, ma il suo collega cardinale Godfried Danneels, vescovo di Mechelen-Bruxelles e primate del Belgio, in una lunga intervista per il mensile 30Giorni.
A parte la berretta porpora e l’appartenenza alla stessa generazione (Danneels, nato nel 1933, è di cinque anni minore), probabilmente tra i due pastori e cardinali di Santa Romana Chiesa c’è poco altro in comune. Danneels è sempre stato arruolato, per semplificazione e “malgré lui”, nelle schiere dei progressisti; non è un nostalgico del Concilio per partito preso, ma è uno di quelli che il suo insegnamento, ad esempio sulla Parola di Dio e sul ruolo dei vescovi, vorrebbe fosse meglio attuato. Biffi legge i fatti in maniera quasi opposta, e anche nel suo nuovo libro in uscita in questi giorni, “Pecore e Pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo” (Cantagalli, 256 pp., 13,80 euro) affonda la sua schietta ma tagliente lama ambrosiana nei danni ecclesiali (ma anche più genericamente culturali: perché se il sale non sala, diventa melassa anche il resto del mondo) prodotti dalla mentalità eccessivamente “conciliante” dei pastori della chiesa di oggi. E in questo senso, per una volta, il teologo ambrosiano che insegnò dalla cattedra di Petronio sarebbe probabilmente d’accordo con il giudizio inclemente sull’attuale generazione di pastori espresso dal suo confratello teologo delle Fiandre.

Vecchio leone in porpora, fedele al suo motto episcopale “Ubi fides ibi libertas”, anche stavolta Biffi non le manda a dire. Ma allo stesso tempo, memore anche del motto di San Carlo, “Humilitas”, nella sua “riflessione sul gregge di Cristo”, non si atteggia a giudice occhiuto dei cristiani. E anzi, la prima evidenza che mette in luce a suon di Sacre Scritture è che, nella chiesa, a parte l’unico Buon Pastore, “tutti nella Chiesa sono prima di ogni altra cosa appartenenti all’ovile di Cristo. Tutti, dal Papa al più recente dei battezzati, possiedono il motivo vero della loro grandezza non tanto nel venire caricati da questo o quel compito nella comunità cristiana, quanto nell’essere parte del ‘piccolo gregge’. C’è dunque una sostanziale parità di tutti i credenti, purché davvero credano: solo credendo si entra tra le pecore di Cristo”.
Ciò non esime però nessuno, è un po’ il senso generale di questa nuova “catechesi” del cardinale Biffi, dal praticare la Verità, senza annacquare e confondere. E qui, le strigliate del cardinale riguardano innanzitutto i “colleghi”, i teologi e in generale il clero. Lo fa, come sempre, con il suo linguaggio saporito, diretto, mai tecnicistico anche quando è strettamente teologico. O esegetico.

Il che è già di per sé un tratto distintivo rispetto alle correnti dominanti della chiesa attuale, in cui spesso la parola, anche dei pastori, prende il largo dalla schiettezza evangelica e si perde in una serie di circumnavigazioni e circonlocuzioni che sembrano più adatte a opacizzare che non a rendere trasparente il contenuto.

“Una delle cose che mi impressionano di più è che al giorno d’oggi non è più l’eresia, ma l’ortodossia a fare notizia”, dice il cardinale. E ancora: “Oggi sempre più frequentemente ci si meraviglia quando un Papa o un vescovo dice ciò che la Chiesa ha sempre detto (e non può non dire perché appartiene al suo patrimonio inalienabile); come se fosse ormai persuasione pacifica che anche la chiesa non creda più al suo mesaggio di sempre”.
Così il contenuto del libro, intessuto e saldamente appoggiato alle citazioni della Bibbia e dei Vangeli, fino a divenirne a tratti una semplice e letterale esegesi, è in fondo l’essere cristiani, l’essere chiesa in quanto tale, il valore teologico di questo fatto e la naturale disciplina interna che deriva dall’appartenenza a questo “organismo”. E il senso e valore dell’essere dentro al mondo. Quello non facile, di oggi: “La prima frase che Gesù pronuncia inaugurando il suo apostolato non è: ‘Il mondo va bene così come va; adattatevi al mondo e siate credibili alle orecchie di chi non crede’; ma è: ‘Il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo’”.

Difficile sfuggire a un senso di stringente attualità, leggendo queste parole e molti altri passaggi taglienti del cardinale Biffi. Il quale evita ogni rimando alla cronaca, ma indirettamente coglie in certi vizi (verrebbe da chiamarli capitali) della teologia e della chiesa contemporanea la radice profonda di quell’insipido “andate e adeguatevi” che minaccia la fede.

E il primo peccato, trattandosi di annunciatori del Vangelo, sta proprio nel linguaggio. Da parte dei pastori: “Assistiamo oggi a una frequenza nell’uso della parola ‘pastorale’ ignota al linguaggio ecclesiale delle epoche precedenti. Una volta il vocabolo serviva, più che altro, per indicare il bastone usato dal vescovo nelle celebrazioni pontificali e la lettera indirizzata sempre dal vescovo alla sua diocesi, contenente i richiami dottrinali e le direttive del successore degli Apostoli. Oggi – dopo che il Vaticano II è stato qualificato esplicitamente come un ‘concilio pastorale’ e ha denominato ‘pastorale’ una sua costituzione (la Gaudium et spes) – il termine ritorna spesso nella vita della Chiesa: ‘consiglio pastorale’, ‘piano pastorale’, ‘vicario pastorale’, ‘teologia pastorale’”, ragiona Biffi: “Capita però che l’uso reiterato dei vocaboli a proposito di un argomento si accompagni all’indebolimento della sua comprensione effettiva e sia occasione di qualche confusione. Così, ad esempio, ci si compiace di parlare di ‘comunità’, quasi per nostalgia, adesso che sociologicamente prevale l’individualismo e il disimpegno”. Insomma l’autocoscienza e la tradizione della chiesa ridotte a parole in libertà, fino agli esiti grotteschi che Biffi individua e distilla con rara puntualità.

Così che a “richiamarsi assiduamente alla ‘povertà’ e a decantarla con entusiasmo sono proprio i cristiani benestanti e gli uomini di Chiesa di estrazione borghese, che non hanno mai avuto modo di farne personalmente qualche esperienza”. E via così, passando in rassegna “oltre ogni retorica, i contenuti autentici ed esatti delle parole che godono di così larga preferenza”.

L’interesse centrale del cardinale non è però ovviamente quella di una rassegna tematica o linguistica. Anche adessso che non è più sulla cattedra vescovile, non cessa di certo di sentirsi pastore e di fremere per l’urgenza (lo si nota a pelle, in certe pagine) di voler comunicare ai fedeli il senso più vero della “appartenenza” al “gregge di Cristo” e che, per lui, è l’esatto contario di avere delle opinioni più o meno personali, più o meno adattabili alla situazione, con cui “tradurre” il mesaggio evangelico. “Tanto per intenderci (anche col rischio di apparire provocatori) – dice ad un certo punto commentando dei passi del Vangelo – potremmo parlare di concezione ‘clericale’. Che conta è che ci sia il drappello consapevole e motivato dei Dodici (e dei discepoli designati), in modo che sia assicurato l’annuncio; poi gli uomini risponderanno in diversa misura. Che conta è che sia predicato l’evangelo dai responsabili, in seguito il seme germoglierà come potrà”. Ed è da qui, da questa “necessità di predicazione del Vangelo”, e non da una presunta necessità di comunicare con il mondo, che deve discendere nella chiesa la responsabilità dei pastori: “Nessuno è pastore in proprio – dice Biffi in un altro punto – ma tutti quelli che lo sono legittimamente, lo sono in quanto riflettono la ‘pastoralità’ di Cristo e del Padre”. Significa, per Biffi, che “colui che esercita – a qualunque livello legittimo – il ministero pastorale, deve verificare quotidianamente la sua consonanza con il ‘Pastore supremo”.
Al centro di tutta “riflessione” del cardinale, il punto centrale è però, forse, ancora un altro. Ed è un punto che riguarda non solo e non tanto “le regole del gregge” (se possiamo chiamarle così), ma il suo rapporto, la sua ragion d’essere nel mondo. Lo si coglie con evidenza nei punti in cui Biffi parla di “dimensione ontologica della verità”. E dove di capisce, ad esempio, che anche la “carità”, per i cristiani, può essere solo una “epifania della verità”. Come dire che non si può avere una concezione retta dell’agire “caritatevole”, se non la si fonda sulla Verità. E così, il problema torna ad essere ancora quello del linguaggio, anzi soprattutto, scrive Biffi, “quello del ‘non linguaggio’, vale a dire quello di un mondo cristiano che è reticente nel presentare una concezione della realtà e un insegnamento esistenziale troppo diversi da quelli universalmente conclamati. Il problema principale è quello di recuperare la fede nella fede e nella sua capacità di toccare i cuori”.

Quando l’arcivescovo emerito di Bologna scrive con ruvida concretezza che “farsi capire è necessario, e perciò bisogna parlare con chiarezza e semplicità; ma la difficoltà maggiore non sta nel farsi capire.
I nostri contemporanei non sono ottusi: quando si sentono annunciare che Gesù Cristo è risorto (cioè è passato dalla morte alla vita), comprendono benissimo di che cosa si tratta”, probabilmente iniziano a ronzare le orecchie di tanti suoi colleghi, in cattedra o parimenti emeriti che siano: “Perché anche i più sprovveduti sanno la differenza che intercorre tra un uomo morto e un uomo vivo”. E invece, scrive ancora il cardinale, nella attuale “vita pastorale” della chiesa “ciò che riprovevole è l’uso del ‘teologhese’: cioè un modo di parlare e di scrivere che rifugge dalla chiarezza senza riuscire per altro a essere davvero sostanzioso e profondo”. Ci sono i pastori, ci sono le pecore, e ci sono coloro che l’annuncio evangelico lo annacquano, e “di solito non è perché non lo capiscono; è perché non gli piace”. Biffi ricorda che solo la verità fa liberi, e ogni altra “liberazione è illusoria”.

© Copyright Il Foglio, 23 novembre 2008

Musica :-)
R.

1 commento:

euge ha detto...

Altro che musica cara Raffaella questa è una sinfonia......... ma, di sicuro suonerà come una stonatura, per tutti coloro che amano il teologhese e che vogliono sempre di più una religione fatta ad uso e consumo dei propri comodi.