giovedì 12 febbraio 2009

Giuliano Ferrara: Il Cristianesimo si ritrova ora solo e vulnerabile


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Il cristianesimo si ritrova ora solo e vulnerabile

Una ruspa ha abbattuto il fortilizio della carità. Come è accaduto?

Non è la chiesa cattolica che è debole, magari fosse solo questo, è proprio il cristianesimo che non è mai sembrato tanto vulnerabile. La chiesa cattolica perde e vince le sue battaglie, ma l’idea cristiana, l’idea incarnata dico, l’idea-uomo, l’idea personale di una via e verità e vita, quella smotta, oscilla paurosamente, si rarefà, sembra svanire dietro gli ideologismi anonimi imperanti. Cristo e la carità sono una cosa sola, infatti. Deus caritas est, come recita la seconda lettera di Giovanni, come si inizia la prima enciclica di Ratzinger. E invece la carità è finita sotto i piedi del tempo distratto.
Esagero? Forse sì. Ammetto di brancolare nel buio o, nelle ore di maggior lucidità, di tentennare nel crepuscolo. Fino a ieri, nei paraggi del referendum sulla fecondazione assistita, dicevo che in Italia si sperimentava il laboratorio dell’eccezionalismo occidentale, una attiva ed efficace difesa del sacro contro le pretese invalidanti della filosofia post moderna, con Ratzinger e Ruini e gli altri grandi europei dell’offensiva antirelativista (Caffarra, Cañizares, Schoenborn, Scola) sulla scia del lungo e travolgente papato giovanpaolino.
Oggi mi sembra che il paradigma eccezionalista sia rovesciato. Balza in primo piano la vulnerabilità del cristianesimo. Dunque l’omologazione virtuale anche dell’Italia, patria romana del cristianesimo latino, agli effetti di scristianizzazione radicale del secolarismo moderno. Cerco di spiegarmi meglio. Quello che è successo nel caso di Eluana Englaro è estremo. Una storia privata piena di dolore e di furore è emersa in palcoscenico durante il tempo lungo di un quindicennio. Una regia accurata l’ha sviluppata, atto dopo atto, invadendo l’immaginazione collettiva, perforando lo stesso spazio mediatico già bucato dalle immagini di Welby e del suo diritto di morire. Piano piano abbiamo abbassato tutti la guardia. L’enormità del fatto ipotizzato dalla richiesta di “giusta morte” della famiglia Englaro è scivolata dentro le nostre paure conscie e inconscie, dentro l’idea di una malattia come prigione, di una disabilità cognitiva e percettiva come carcere infernale dal quale liberarsi in nome dell’autodeterminazione, del diritto di morire, e perfino, per larghi strati della cattolicità post conciliare, in nome di Dio.
La libertà di coscienza è stata brandita come arma ideologica per colpire al cuore la carità e la cura, l’attenzione vigile e irriducibile alla persona e al suo diritto di vivere. In una lettera disperata alle autorità civili, scritta di recente dalla famiglia Englaro per rivendicare una concezione della vita e della morte comune ai suoi tre componenti (padre, madre e figlia), le cure caritatevoli delle suore sono state trattate come pratiche invasive indesiderate, descritte come insopportabili violazioni dell’intimità. I consiglieri faustiani di papà Beppino plaudono apertamente alla fine dell’equivoco cristiano e ippocratico della vita come dono da conservare, proteggere e restaurare finché possibile. La morte di Eluana Englaro ha questo effetto di liberazione, nelle loro parole, per lei e per tutti. Anche la vita, come la verità, diventa solo una ridda di interpretazioni, un materiale inerte per la ricerca scientifica e il progresso.
E’ infine arrivato un colpo micidiale a tratti pertinenti del nostro mondo e della nostra era bimillenaria. E’ arrivato un devastante attacco alla cura devota e benevolente del malato e del morente, la messa in questione del servizio gratuito alla persona; è ora disprezzata la lavanda dei piedi come massimo insegnamento apostolico sul corpo degli apostoli, vilipeso l’affratellamento del corpo nudo, e le abluzioni e il contatto e il contagio spirituale e materiale, insomma la stoffa di cui sono fatti i leggendari racconti di guarigione cristiana, di cui sono trapunte le storie miracolistiche degli accompagnatori del dolore della croce, i grandi taumaturghi dello spirito e i santi ospitalieri di tutti i secoli.
Se di fronte a quanto è accaduto non si odono suonare le campane per tutta l’aria disponibile ai campanili di tutte le chiese; non si odono prediche e omelie forti, severe, perfino formidabili, dotate di carisma e di potere intimidente, ma invece appelli donabbondieschi al silenzio orante, come nel caso della sfortunata diocesi di Milano; e se non si mobilitano veri e sapidi intellettuali, chierici capaci di parlare con qualche conseguenza; se non si elevano, se non si stagliano come figure non retoriche di contrasto al fanatismo secolarista pulpiti e cattedre, università e scuole, movimenti ed esperienze collettive di gioventù e discepolati; se davanti a ciò che è accaduto non c’è altro che un gracidare di proteste sconnesse e occasionali, una qualche bella e anche bellissima ma isolata parola del Papa, campioni di buon giornalismo e di buona letteratura cattolica nel giornale dei vescovi, e poi solo molta diplomazia e molte preoccupazioni politiche: questo vuol dire indubitabilmenrte che nel cristianesimo europeo, nella sua forma italiana fino a ieri d’avanguardia e di battaglia, si è inserito il morbo della vulnerabilità più estrema, e qualcosa come il vizio della rinuncia, della compiacenza.

Infatti quel che è accaduto è semplicemente tragico ed è tragico che sia potuto accadere senza vere conseguenze, senza una testimonianza che non fosse il povero rosario recitato da piccoli gruppi pro life di acuta sensibilità e scarso carisma nella chiesa e nel mondo cattolico: una povera cristiana è stata strappata a furia di sentenze dalle mani caritatevoli delle suore Misericordine di Lecco, e trasferita da un ambiente di amore manzoniano a una clinica dove un repartino di morte è stato attrezzato e governato da una setta di volontari che hanno rovesciato il significato della carità, e questo con tutte le migliori intenzioni, mostrando l’atroce volto dell’antipersonalismo ateo, il disprezzo pubblico e pedagogico e piagnone verso una vita indegna di essere vissuta.
Se ci si può permettere tutto questo nel cuore di una grande nazione di radici cristiane come l’Italia, sono guai. Se non si avverte una cocciuta e divampante resistenza come parte della tragedia, se i cristiani sono costretti alla parte dello spettatore o consegnati a un florilegio di retoriche o a una presenza orante ma non potente, sono guai.
Io sono uno di fuori, un passante, non conosco bene la forza dell’invisibilità cristiana, l’esemplarità che scava nel tempo, la predicazione che se ne infischia della dimensione etica, del dover essere kantiano, e si immerge nella coscienza individuale e nella colpa per emendarla, non ho rapporti con la cultura catechistica e il governo penitenziale del peccato. Dunque forse sbaglio, e lo dico con vera modestia. Forte il cristianesimo neanche si accorge di quel che è accaduto, e i suoi problemi sono altri, altro il suo respiro, altro il suo eventuale affanno. Ma quella ruspa che si è abbattuta sul fortilizio della carità mi sembra la minacciosa dimostrazione che il cristianesimo è ormai parecchio vulnerabile, nel senso che la vita e la morte cominciano a definirsi non soltanto a prescindere dal suo insegnamento e dalla sua sensibilità, ma contro di essi. Il che, scusatemi, non mi sembra poco.

© Copyright Il Foglio, 11 febbraio 2009 consultabile online anche qui.

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