lunedì 18 maggio 2009

Il Papa in Terra Santa: Dietro ogni parola il volto di chi soffre e spera (Zavattaro)


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PAPA IN TERRA SANTA - Dietro ogni parola

Il volto di chi soffre e spera

Fabio Zavattaro

Dialogo, riconciliazione, pace. Parole che abbiamo ripetuto spesso nei giorni della visita di Benedetto XVI in Terra Santa. Sembra quasi facile metterle insieme, coniugarle con i luoghi, le persone, le cose. Due Stati per due popoli, nella giustizia e nella sicurezza; guardare l'altro come un fratello e non come un nemico: è la pace. Ponti al posto dei muri, e poi casa, lavoro; ancora, "no" alla violenza, all'odio, al terrorismo: è la pace. Il viaggio del Papa in Giordania e in Israele si snoda proprio attorno a questi temi, e alla speranza sottesa ad ogni inizio di processo di dialogo.
Dietro ogni parola c'è una persona, un volto, magari segnato dalla tristezza.
Diceva Yitzhak Rabin: anche nei momenti più amari sapevamo che le lacrime delle nostre madri non erano diverse dalle lacrime di tutte le madri. E il 13 settembre 1993, dopo la storica stretta di mano con Yasser Arafat, esprimeva con queste parole il suo desiderio di pace: "Noi, i soldati tornati dalle battaglie segnate dal sangue, noi che abbiamo visto i nostri parenti e amici uccisi davanti ai nostri occhi, che abbiamo seguito i loro funerali e che non riusciamo a guardare negli occhi i loro genitori; noi che siamo venuti da una terra dove i genitori seppelliscono i propri figli, noi oggi diciamo con voce chiara e forte: basta lacrime e sangue, basta". Come sappiamo altre lacrime sono state versate, dall'una e dall'altra parte. Altri muri ben più alti e difficili da abbattere sono stati costruiti, e sono stati eretti nei cuori e nelle menti di uomini e donne, giovani e meno giovani. A Betlemme al termine della messa che papa Benedetto ha presieduto nella piazza antistante la basilica della natività, un canto arabo ricordava che la notte di Natale viene sepolta la paura e cancellato l'odio.
Quando asciughiamo le lacrime, portiamo il Natale.
Pensavo a tutte queste cose mentre guardavo padre Emile Shoufani che si intratteneva con i ragazzi della scuola di Mutran, un quartiere di Nazareth, ma anche il nome della scuola greco-cattolica che il padre dirige. Ha in mano un pieghevole con l'immagine di papa Benedetto che distribuisce ai ragazzi. Siamo da lui per una iniziativa che lo ha visto protagonista e che lui ci racconta con molta umiltà, quasi stupendosi che qualcuno potesse interessarsi a lui. Crede nel dialogo e lo fa vivere concretamente ai ragazzi delle superiori. La Shoah, dice, "è un capitolo della storia occidentale, molto lontana da noi arabi; anche il dolore ebraico è molto lontano da noi, ma è necessario conoscerlo per unirsi. Per questo la nostra scuola che insegna a cattolici, ortodossi, protestanti, musulmani, religiosi e laici, organizza ogni anno un giro a Yad Vashem con gli allievi". Già questo, di per sé, è molto significativo.
Ma padre Emile non si è fermato qui. Ci racconta, infatti, che "durante l'Intifada nel 2003, dopo una preparazione di 8 mesi fatta con più di 500 adulti ebrei e arabi, siamo andati ad Auschwitz. Il viaggio aveva lo scopo di unirci, di comprendere il dolore ebraico della Shoah e quello palestinese dell'Intifada. Viaggio organizzato da privati non da organizzazioni, non politico. Era importante per noi sentire gli ebrei parlare della loro sofferenza". Mise solo una condizione Shoufani: si partecipa al viaggio senza chiedere nulla all'altro, perché solo la gratuità può rompere la spirale dell'odio.
Ecco, allora, che le parole trovano uno spessore diverso; è facile, se così possiamo dire, per noi che comodamente seduti guardiamo agli avvenimenti nella regione attraverso la televisione, riflettere sulle cose e dire l'urgenza di un dialogo per costruire un futuro diverso. Lo è di meno quando questo dialogo deve avvenire in una terra che ha alle spalle una storia di ferite e sofferenze.
Quando poi a parlare tra loro sono uomini e donne che portano ancora nel cuore il dolore per la perdita di una persona cara e che vivono ai due lati del muro, allora la questione si fa quanto mai straordinaria.
E straordinaria è l'esperienza di "Parents circle", cioè l'insieme di circa 500 famiglie che hanno deciso d'incontrarsi e di capire la sofferenza di chi sta dall'altra parte: se ci riusciamo noi che abbiamo pagato un prezzo altissimo alla guerra, ci possono riuscire anche coloro che non hanno ferite aperte, lacrime da asciugare, dolore da sopportare. S'incontrano periodicamente, una volta in una località nei Territori dell'Autorità Palestinese - proprio il 14 maggio ha avuto inizio un seminario di tre giorni a Beit Jalla - un'altra in una città in Israele. Discutono e propongono iniziative concrete che hanno il senso di una testimonianza, una goccia in un oceano: ma quanto importante è anche la loro goccia.
Quando incontriamo le persone che partecipano al seminario, ci troviamo di fronte a uomini che portano ancora i segni del dolore sopportato. C'è il padre dell'ultimo militare israeliano ucciso in Libano cinque giorni prima del ritiro delle truppe con la stella di Davide. Ma c'è anche l'arabo che ha visto la sua macchina esplodere perché colpita da una bomba di aereo: dentro la vettura hanno perso la vita la sorella e il fratello. Una stretta di mano, un sorriso prima di entrare nella sala.
Ecco, allora, i volti della pace, segnati da un profondo dolore, ma soprattutto da una grande speranza: la pace. Perché, come affermano i partecipanti a questo incontro, se non ci sarà riconciliazione tra i due popoli, non ci sarà la pace. Non sono gli accordi firmati dai politici a portare la pace, ma la capacità dell'uno di riconoscere nell'altro non un nemico ma un essere umano con il quale costruire insieme un futuro per i figli.

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