giovedì 23 aprile 2009

La ragione d'essere del giornalismo. Non la carta e la rete ma lo specchio è il problema della stampa (Osservatore Romano)


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"Anselmo sa che a Pietro e ai suoi successori (e non ad altri) Gesù ha detto: “Conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32); sa che a Pietro e ai suoi successori (e non ai vari opinionisti nella “sacra doctrina”, per quanto dotti e geniali) Gesù ha promesso: “Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19); sa che a Pietro e ai suoi successori (e non all’una o all’altra colleganza ecclesiastica o culturale) Gesù ha dato il compito di pascere l’intero suo gregge (cf Gv 21,17)" (Monumentale omelia del card. Giacomo Biffi, Aosta, 21 aprile 2009)

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La ragione d'essere del giornalismo

Non la carta e la rete ma lo specchio è il problema della stampa

In occasione della xlii Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, il 23 aprile si svolge presso la Pontificia Università Lateranense il convegno "Nuove tecnologie, nuove relazioni". Pubblichiamo una sintesi dell'intervento introduttivo.

di Diego Contreras
Pontificia Università Santa Croce

Potrà apparire paradossale, ma in questi ultimi mesi, sulla stampa, fa notizia proprio la crisi della stampa. Si scrive accoratamente della chiusura di giornali, dei licenziamenti, dei tagli drastici dei salari, dei giornali costretti a propendere per le edizioni on-line.
Allo stesso tempo, gli esperti dell'informazione si sforzano di immaginare il futuro, prospettando scenari o tendenze per lo più discordanti.
Quando si parla di questi argomenti, di solito l'attenzione si concentra sugli aspetti imprenditoriali, sindacali o organizzativi. Sembra necessario, tuttavia, distinguere tra le questioni prettamente aziendali e le problematiche della professione, per quanto intimamente collegate. Si deve ripensare solo il paradigma industriale o il cambiamento è più radicale? Al punto che occorre ridefinire la stessa professione giornalistica? Sembra di poter dire che dietro l'attuale crisi della stampa, si celi in realtà un intreccio di tre crisi diverse.
La prima crisi dipende dalla situazione economica attuale. È quella più evidente, poiché sta facendo traballare il modello basato quasi esclusivamente sulla pubblicità. Se la pubblicità viene a mancare, viene meno la principale fonte di reddito. Negli ultimi decenni, non si è cercato un modello imprenditoriale specifico, ma si è trattata l'informazione come qualsiasi prodotto di consumo. Inoltre, molte imprese giornalistiche sono quotate in borsa e pretendono la massimizzazione del profitto; si cerca a ogni costo la redditività a breve termine.
La seconda crisi è determinata dall'influenza di internet o, più in generale, dalla rivoluzione digitale. È una crisi più profonda, in quanto internet ha cambiato il modo di produrre, distribuire e commercializzare non solo l'informazione giornalistica, ma tutti i contenuti mediali.
Essa ha influenzato anche le abitudini dei giovani che già da tempo hanno smesso di leggere i giornali. Il pubblico tra i 18 e i 34 anni si informa attraverso canali alternativi alla stampa tradizionale, come le reti sociali, i blogs, i siti e i portali "aggregatori" di informazione. Questa distanza dai media tradizionali è destinata a aumentare di pari passo alla crescita delle "generazioni digitali", quelle che lo sono sin dalla nascita.
Di fronte a questa situazione, la prima reazione della stampa è stata lo sdoppiamento: accanto all'edizione tradizionale si è creata una versione digitale. All'inizio per emulazione: tutti facevano così; poi con più convinzione. Ora ci si orienta - sia pure con difficoltà - verso le redazioni integrate - un'unica redazione sia per le edizioni cartacee che per quelle on line - ma non è stato risolto il modello di finanziamento. Per ora, la versione tradizionale dei quotidiani continua a produrre un utile dieci volte superiore a quello della versione digitale. Tuttavia le entrate "analogiche" sono in calo, mentre quelle "digitali" non riescono a crescere con la stessa rapidità.
A queste due crisi se n'è aggiunta una terza, che potremmo chiamare una crisi di identità e della professione giornalistica.
Questa crisi è precedente alla comparsa di internet e parla di un giornalismo conformista, allineato all'infotainment, al servizio di interessi di parte, strumentalizzato, autoreferenziale e, a volte, anche arrogante.
C'è anche chi ritiene che la stampa abbia perso, in gran parte, il senso del ruolo che la società democratica le aveva assegnato: ha sostituito la verità con gl'incassi; l'equanimità con gl'interessi di parte; la ragione con il servilismo. Evidentemente come ogni generalizzazione anche questa è ingiusta, ma certo rispecchia il sentire di molte persone.
La rivoluzione digitale aggiunge a questa crisi di identità un dato nuovo e importante: i comuni cittadini oggi hanno più potere che mai per produrre e distribuire informazioni. Fino a che punto tutto ciò influisce sulla funzione democratica che si attribuisce alla stampa? Sembrerebbe che oggi giorno la gente non "abbia più bisogno" della stampa come una volta, poiché sono disponibili molti altri canali d'informazione.
Per venire incontro a questa novità, molti quotidiani hanno cominciato ad accogliere i lettori come "collaboratori" di redazione, spingendoli a partecipare, in un modo o nell'altro, alla realizzazione del giornale. Per descrivere questa tendenza è stata recuperata l'espressione "giornalismo civico". L'intento è frutto di buone intenzioni, ma a volte sembra solo un'operazione di marketing mirante a far aumentare il numero dei visitatori del sito web del giornale.
Siamo, quindi, di fronte a un processo di transizione verso un modello diverso da quello a cui ci si era abituati, e cioè il modello industriale. Tale transizione è caratterizzata da alcune tensioni: l'analogico (la carta stampata) versus il digitale; il gratuito versus il servizio a pagamento; ilprofessionale versus il "civico".
Il contrasto tra vecchio e nuovo si può condensare nel fatto che nel modello industriale l'informazione era scarsa, costosa, istituzionale, orientata al consumo; la distribuzione era unidirezionale ed era scarsa la partecipazione del pubblico. Nel modello post-industriale (o digitale), invece, l'informazione è abbondante, gratuita o a buon mercato, personale, partecipativa; la distribuzione va da molti a molti, e il pubblico diventa un utente attivo.
Si è soliti dire che la caratteristica delle rivoluzioni è che il vecchio si distrugge molto prima che il nuovo riesca a prenderne il posto. La transizione è sempre difficile. Implica un cambiamento di cultura e di mentalità. È imprescindibile trovare uno sbocco economico sostenibile per le imprese che fanno giornalismo. Ma anche le redazioni dovranno subire una ristrutturazione profonda.
Il grande problema che l'industria editoriale aveva risolto a suo tempo era stato garantire che un prodotto complesso e costoso come la carta stampata arrivasse regolarmente ai lettori. Nell'epoca digitale questo non è più un problema. Si stima, in linea di massima che per la stampa tradizionale i costi per la carta, la stampa e la distribuzione rappresentino il 6o per cento del totale. Il mondo digitale non deve accollarsi tali oneri, ma ce ne vuole ancora, prima che i ricavi delle edizioni on-line riescano a coprire il restante 40 per cento dei costi che anche i media digitali devono sostenere: di gestione, di produzione dell'informazione; oltre a spese di redazione e per risorse tecnologiche, di promozione e di marketing. Penso non valga la pena elucubrare sul futuro della carta stampata. Forse, come dicono alcuni, si arriverà ai giornali elettronici portatili. Ma la società non ha bisogno di un determinato tipo di giornali, bensì di un'informazione professionale e affidabile sugli eventi che meritano di essere conosciuti in quanto aiutano a vivere e a migliorare la società in cui viviamo. Cambieranno, e stanno cambiando, modi, forme, supporti e linguaggi, ma la ragion d'essere del giornalismo resterà la stessa.

(©L'Osservatore Romano - 23 aprile 2009)

1 commento:

Giovanni ha detto...

Cristo è morto per i nostri peccati? "Certo che no!"...parola del presidente della Conferenza Episcopale Tedesca.

http://rorate-caeli.blogspot.com/2009/04/christ-did-not-die-for-sins-of-people.html

Più che a Raffaella sarebbe da segnalare alla congregazione per la dottrina della fede!