mercoledì 22 aprile 2009

Anselmo rivolge un ammonimento alla vita ecclesiale di oggi: non perdete mai di vista la funzione primaria e insostituibile della Sede di Pietro


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Inviato Speciale di S.S. Benedetto XVI nella Cattedrale di Aosta

Mi è caro e doveroso manifestare la mia riconoscenza al Padre del cielo, elargitore di ogni “buon regalo e ogni dono perfetto (cf. Gc 1,17), per la gioia che mi è data di essere qui con voi e di presiedere questo rito che ricorda ed esalta un uomo di Dio straordinario e affascinante come sant’Anselmo, gloria inalienabile di questa Chiesa e di questa città, nel nono centenario del suo beato transito alla vita eterna.
E sono grato al nostro papa Benedetto, che mi ha riservato il privilegio di rappresentarlo, come suo inviato speciale, in questa bella circostanza, affidandomi insieme il compito di portare il suo saluto, affettuoso e benedicente, al carissimo vostro vescovo, Monsignor Giuseppe Anfossi, a tutte le autorità di ogni ordine e grado, a quanti oggi sono qui convenuti e con la loro presenza accrescono il calore e la solennità di questa celebrazione.

* * *

La splendente e fervida avventura umana di Anselmo, pur connotata sempre da un’assoluta coerenza interiore, si sviluppa in tre tempi, tra loro dissimili e lontani per diversità di compiti, di attenzioni, di responsabilità.
All’inizio ci sono gli anni vissuti in questa sua terra natale, gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima giovinezza. In essi egli si rivela già un instancabile ricercatore di Dio, anelante a un’esistenza ricca di senso e soprannaturalmente motivata.
Il secondo periodo, che si protrae per trent’anni, si colloca nell’abbazia di Bec, in Normandia, dove è prima di tutto un monaco esemplare. Poi, come priore e come abate, ha modo di manifestare le sue doti di educatore e pedagogo originale, di sapiente maestro nella vita di preghiera, di formidabile ragionatore, oltre che di indagatore intelligente e geniale della verità rivelata.
Infine, negli ultimi sedici anni, divenuto arcivescovo di Canterbury e primate d’Inghilterra, si rivela pastore coraggioso e saggio, innamorato della sua Chiesa, che egli difende dalle prepotenze e dall’avidità dei re normanni Guglielmo il Rosso ed Enrico I, eredi in questo e degni figli di Guglielmo il Conquistatore.
L’intero suo pellegrinaggio terreno è stato fecondo di insegnamenti mirabili e di esempi preziosi.
E’ naturale perciò formulare oggi l’auspicio che questo centenario sia occasione per quanti aspirino a essere davvero “teologi”, per la multiforme schiera degli uomini di cultura, per l’intero popolo dei credenti, di tornare ad ascoltare con nuova diligenza il suo magistero e di esplorarne con cura i tesori di verità e di grazia che egli ci offre.
Noi però, nel breve spazio di un’omelia, dobbiamo limitarci a considerare solo tre ammonimenti, dei quali Anselmo ci può oggi gratificare, uno per ogni tratto del suo itinerario ecclesiale: quasi tre “doni”, singolarmente opportuni per questa nostra epoca confusa e inquieta.

* * *

Fin dalla sua prima età Anselmo ebbe acutissima la percezione del mondo invisibile, cioè di quella realtà che vive e palpita di là dalla scena appariscente e chiassosa delle cose e degli accadimenti di quaggiù: è il mondo dove regna la Trinità augustissima; è il mondo affollato da schiere di creature felici; è il mondo che ci trascende, ma anche ci è vicino e dà senso e scopo alla nostra vicenda di creature mortali.
Egli era - nota il suo biografo Eadmero - “un fanciullo cresciuto tra i monti” (“inter montes nutritus”), e si figurava che le alte cime innevate che circondavano la sua città fossero i fondamenti e i pilastri di sostegno della casa misteriosa dove il Signore dimorava con i suoi angeli e con tutti i santi. Una notte sognò addirittura di essere riuscito ad ascendere fin lassù e di essere arrivato al cospetto della maestà divina.
Questa è la prima lezione che vogliamo raccogliere. Quando nel Credo affermiamo che Dio è creatore di tutte le cose “visibili e invisibili”, richiamiamo non solo la verità di fede dell’origine di ogni essere da colui che è causa di tutto, ma anche esprimiamo una persuasione, per così dire, preliminare e complessiva: e cioè che la realtà totale è molto più vasta di quella che attingiamo con la semplice conoscenza naturale, sostanziata solo di esperienza sensibile, di ragionamento induttivo e deduttivo, di calcolo matematico.
Anselmo oggi dunque ci dice: è indispensabile che non vi sfuggano mai le vere dimensioni dell’esistente.
Per chi sa mantenere vivace e pungente nella sua consapevolezza l’idea del mondo invisibile, diventa naturale un abituale atteggiamento di ascolto: ascolto della divina Rivelazione su quanto sta di là dalla ridda di ombre, di figure, di casi fortuiti, di aberrazioni, nella quale siamo immersi; e, più ampiamente, ascolto di ciò che ci viene detto in vari modi dallo Spirito Santo, che è l’attore nascosto ma primario della nostra storia più vera.
Quando ci prende, come può capitare, la depressione e lo scoraggiamento alla vista di ciò che avviene sotto il cielo, dentro e fuori la cristianità, il rimedio più decisivo davanti a tale spettacolo deludente sta proprio nel ripensare all’effettiva estensione dell’universo, che comprende appunto il mondo invisibile; quel mondo invisibile che è già vittorioso sul male ed è già nostro; quel mondo invisibile che è colmo ed esuberante di una sovrumana energia da cui (anche quando non ce ne accorgiamo) viene senza soste investita la terra.

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Un secondo non trascurabile insegnamento concerne il rapporto tra fede e ragione.
Ai nostri giorni non sono pochi - e non sono tra i meno sicuri di sé e i meno loquaci - quelli che giudicano fede e ragione due forme di cognizione tra loro incompatibili e del tutto alternative: chi ragiona (essi affermano) non ha bisogno di credere; e chi crede per ciò stesso esce dall’ambito della razionalità (così ritengono con irremovibile e dogmatica convinzione).
Anselmo rabbrividirebbe davanti a questo atteggiamento mentale. Per lui - e per ogni cristiano adeguatamente informato - la fede non solo non è separabile dalla ragione e non la mortifica, ma è addirittura l’esercizio estremo e più alto della nostra facoltà intellettiva.
D’altro canto nella cultura odierna, condizionata e dominata da un soggettivismo assoluto, si va affermando altresì una visione pessimistica della naturale conoscenza umana. L’uomo (così pensano in molti) non è in grado di approdare a nessuna verità, che non sia provvisoria e intrinsecamente relativa.
Quando si tratta delle questioni che contano - sulla nostra origine, sulla sorte ultima dell’uomo, su una qualche persuasiva ragione del nostro esistere - le certezze oggi vengono addirittura irrise e persino colpevolizzate. Le domande più serie, quando non sono censurate sul nascere dalle varie ideologie dominanti, sono consentite solo come premessa e impulso alla proliferazione dei dubbi. Ma così si estingue nell’uomo ogni necessaria fiducia: come possiamo rassegnarci ad aggrappare la nostra unica vita ai punti interrogativi che non hanno risposta?
Anselmo invece riconosce la dignità e l’efficacia della ragione. Per lui - e per tutti i discepoli di Gesù - la ragione va onorata già per se stessa come un grande dono di Dio. In più, essa entra come elemento costitutivo indispensabile nell’atto di fede, e resta come elemento costitutivo indispensabile di quella “intelligenza della fede” nella quale Anselmo è riconosciuto maestro.

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C’è un terzo ammonimento che Anselmo rivolge alla vita ecclesiale dei nostri giorni: non perdete mai di vista, egli ci esorta, la funzione primaria e insostituibile della Sede di Pietro.
Durante la lunga e aspra lotta per salvare la “libertas Ecclesiae” dalle invadenze arbitrarie del potere politico, il Primate d’Inghilterra rimane solo. “Anche i miei vescovi suffraganei - egli scrive con qualche malinconia - non mi davano altri consigli che quelli conformi alla volontà del re” (Epistola 210). Allora cerca, e ottiene, l’appoggio, l’incoraggiamento, la difesa del vescovo di Roma, cui fiduciosamente ricorre.
Anselmo sa che a Pietro e ai suoi successori (e non ad altri) Gesù ha detto: “Conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32); sa che a Pietro e ai suoi successori (e non ai vari opinionisti nella “sacra doctrina”, per quanto dotti e geniali) Gesù ha promesso: “Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19); sa che a Pietro e ai suoi successori (e non all’una o all’altra colleganza ecclesiastica o culturale) Gesù ha dato il compito di pascere l’intero suo gregge (cf Gv 21,17).
Egli lo sa, e anche noi non dobbiamo mai dimenticarlo: la Sede Apostolica è sempre il normale punto di riferimento e l’ultimo insindacabile giudizio per ogni problema che riguarda la verità rivelata, la disciplina ecclesiale, l’indirizzo pastorale da scegliere.
L’arcivescovo di Canterbury ricambiò poi l’aiuto ricevuto dal Romano Pontefice con una fedeltà intemerata, che tra l’altro gli costò a più riprese il disagio e l’amarezza dell’esilio.

* * *

Anselmo d’Aosta, come si vede, ha un posto prestigioso e benefico nella storia della Chiesa, nella storia della santità, nella storia del pensiero umano; e noi diciamo grazie al Signore che ce lo ha suscitato.
Oggi ancora è una figura e una personalità davvero attuale. Sicché ci viene spontaneo contare sulla sua intercessione presso Dio a favore di questi nostri tempi; di questi nostri tempi che così spesso sono costretti ad ascoltare dai più diversi pulpiti la voce baldanzosa dei molti profeti del niente e i discorsi dei compiaciuti assertori di un destino umano senza plausibilità, senza significato, senza speranza.

Dal sito dell'Arcidiocesi di Bologna

1 commento:

Anonimo ha detto...

Dio sia benedetto per aver suggerito al Card. Biffi questa splendida omelia.
ggraceffa