giovedì 20 novembre 2008
Quello sfavore per la vita che ci rende irriconoscibili (Corradi)
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RADICALE METAMORFOSI DELLA NOSTRA CIVILTÀ
Quello sfavore per la vita che ci rende irriconoscibili
MARINA CORRADI
Secondo molti – lo senti dire alla radio e in tv, e ripetere nei bar – la pietà 'vera' sarebbe recidere quella vita incosciente in un letto d’ospedale.
Sospendere acqua e nutrimento a Eluana Englaro è giudicato, da un gran numero di persone in buona fede, misericordioso. Che cosa sia la pietà, cioè il volere il bene di un altro più debole, pare oggi dunque l’oggetto di una metamorfosi profonda della modernità. Da almeno trent’anni si allarga tra noi un pensiero non esplicito, e però evidente nel momento delle scelte sulla vita o sulla morte. Se una donna è incinta, è prassi fare tutti gli esami per accertare se il bambino è normale; e se qualcosa sembra non andare, la prima possibilità che di fatto quasi naturalmente si valuta è l’aborto. Molti Paesi in questi stessi anni si sono dati leggi che stabiliscono un 'diritto' del malato a morire, benché le tecniche per la palliazione del dolore siano incomparabilmente più progredite che nei tempi in cui di eutanasia non si parlava. Addirittura in un recente caso di cronaca italiana l’avere fatto proseguire la gravidanza di una donna in stato di morte cerebrale fu condannato da chi accusava i medici di avere usato quella madre come una incubatrice (della bambina nata così 'scorrettamente' , e tuttavia viva e sana, suo padre ringraziò poi quei dottori). Sia che si tratti di fine della vita, e ancora più del suo principio, sembra che nella cultura oggi dominante si possa leggere una 'prima opzione' per il non vivere – un istintivo favore per il nulla. Come se alla vita si guardasse con diffidenza.
Come disposti ad accettarla solo dopo un minuzioso inventario. Se tutto è al suo posto, allora si può arrischiarsi a fare nascere un figlio. (L’esame diventa però sempre più pignolo e occhiuto. L’indagine pre embrionale consente di individuare gli embrioni portatori di alcune malattie che si sviluppano solo nella maturità: ma già questo induce a scartare figli in un lontano futuro forse malati). La vita al suo presentarsi si accetta con beneficio di inventario; e alla sua fine ci si premura di poter praticare il 'diritto di morte' (in genere finché si è sani, perché da malati spesso si ragiona diversamente). E quand’anche una come la Englaro, pure in stato vegetativo, vive senza alcuna 'spina' artificiale, si pretende di farla morire, e questa viene chiamato pietà.
Segni diversi di un identico sguardo sulla vita; di uno sfavore, quasi di un radicale sospetto verso la bontà, e il senso, di ciò che nella tradizione cristiana è 'dono'. Dono? Questa stessa espressione è intaccata, in decenni di battaglia per il 'diritto' a nascere sani, e a decidere quando una vita non ha più 'dignità'. Come soldati arruolati in una guerra di cui non riconoscono più la grandezza e il senso, in quarant’anni gli occidentali hanno legalizzato e quasi eretto a sacro tabù l’aborto, lavorano per la selezione dei nascituri sani e premono per l’eutanasia. Perché vivere si può, solo nelle migliori delle condizioni possibili. Solo così stare al mondo ci sembra accettabile, e non una condanna peggiore del non essere. Così come la prima ipotesi alimentata nei genitori davanti a un dubbio sulla salute del nascituro è cancellarlo, anche la sentenza Englaro appare a molti ragionevole. La chiamano pietà, e in fondo si potrebbe dire che, dentro a una forma mentis nichilista, sono sinceri. Se la vita non è più né mistero né dono, né attesa di niente, assurda è la sofferenza.
Se non c’è alcun disegno oltre questa nostra materia, sopprimerci per il nostro bene, quando siamo 'guasti', è logico. La nuova pietà che fa morire di fame una donna incosciente è radicata al fondo in un’ampia, inconsapevole opzione per il nulla.
© Copyright Avvenire, 20 novembre 2008
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