martedì 19 maggio 2009

Il Papa in Terra Santa: Solo Dio è giusto (Rodolfo Casadei)


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Solo Dio è giusto

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di Rodolfo Casadei

Da Gerusalemme

Nomi che risuonano nel buio.
Pronunciati da una voce grave, accompagnati dai riflessi di fiochi bagliori di candele contro gli specchi sulle pareti di una grotta circolare. Ininterrottamente, giorno e notte. Tutta qui l’eternità che l’uomo può offrire all’altro uomo. Perfino agli esseri che più lo inteneriscono.
Perché qui, nella grotta del Memoriale dei bambini che è parte dello Yad Vashem, sono ricordati un milione e mezzo di bambini spenti nei campi di sterminio e negli omicidi di massa in Ucraina e altrove. Le forze della pietà, della coscienza sociale e politica, dello sforzo etico “perché questo non si ripeta più” arrivano tutte insieme a questo: un’eterna memoria delle vittime che è in realtà eternità del crimine compiuto contro di loro. Eternità del male. Che sempre vive e che sempre – lui sì – risorge. Suprema beffa ai credenti abramitici nella resurrezione.
A meno che non sia vero quello che il Papa ha detto lunedì, con voce affaticata, fissando lo sguardo sui volti riflessi nello specchio d’acqua al centro del memoriale dalle pareti intorno: «I loro nomi sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente… I nomi custoditi in questo venerato monumento avranno per sempre un sacro posto fra gli innumerevoli discendenti di Abramo».
Già, Dio. Dio e le sue promesse. La questione inaggirabile di Israele, ieri come oggi. Lo snodo di tutti i paradossi. Israele, il paese più religioso e più ateo del mondo nello stesso tempo. Il più grande tentativo umano di giustizia e l’inevitabilità quotidiana dell’ingiustizia. Tutto a causa dell’antica promessa e di chi la fece. Del resto la Shoah si spiega anche così, o almeno Benedetto XVI fa parte di coloro che pensano questo. «Quei criminali violenti, con l’annientamento di questo popolo intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno», disse a Birkenau-Auschwitz tre anni fa.
«Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all’uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo. Con la distruzione di Israele, con la Shoah, volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte». In questo senso il sionismo tradotto in realtà politica e istituzionale è stato – altro vertiginoso paradosso – una reazione vittoriosa alla Shoah ma anche una sottomissione alla sua logica: prendere nelle proprie mani la promessa di Dio e realizzarla coi mezzi umani, mettere fra parentesi l’Onnipotente e costruire la città pietra su pietra, coltivare olivi e piantare vigne, soppesare la giustizia per il consanguineo e per lo straniero, tutto senza di Lui. Come se Dio non esistesse.

Edificare uno Stato tra mille nemici

Ed effettivamente Israele è diventato campi verdeggianti strappati al deserto o alla salsedine, file ordinate di alberi da frutta, colline ostili rimboschite, strade lisce e serpeggianti, tunnel e cavalcavia che superano ogni ostacolo dal mare al monte e spingono le loro avanguardie fino alla lontana Hebron. Grattacieli in ferro e vetro a Tel Aviv e compatte schiere di palazzi in pietra esposta che ricoprono intere colline a Gerusalemme e da lontano paiono gigantesche scalinate, diversi da un blocco all’altro per la forma quadrata, rettangolare o altro ancora ma identici per il colore bianco beige che si traduce in molti colori diversi nelle diverse ore della giornata. Lavoro, prosperità, diritto al proprio culto religioso, all’espressione delle idee, all’organizzazione politica e a una dose apprezzabile di cittadinanza per le minoranze etniche nazionali. Su tutti questi piani, Israele vince il confronto con gli altri Stati della regione.
Ma con Dio e la sua giustizia no, il conto non è chiuso. Non solo per lo Shabbat che ogni settimana spacca il paese fra praticanti e non praticanti, giorno festivo pubblico riconosciuto a malincuore dal laico Ben Gurion al momento della nascita dello Stato; giorno in cui la El Al non vola ma nell’aeroporto che porta il nome del primo presidente atterrano voli da tutto il mondo, mentre fuori gli “sherut”, gli economici trasporti collettivi, minibus da dieci posti più l’autista, profanano il sabato e per 50 shekel portano chiunque dall’empia Tel Aviv alla santa Gerusalemme. Non solo per l’inesistenza del matrimonio civile. Ma perché la Promessa risuona quotidianamente nella vita politica, da un estremo all’altro dello spettro delle opinioni: dagli ultraortodossi che si augurano che gli ebrei di Israele siano presto sottomessi dai goyim, magari palestinesi, affinché sia affrettato il giorno dell’avvento del Messia, l’unico autorizzato a fondare il nuovo regno di Israele come opera divina, fino ai coloni estremisti di Cisgiordania che anelano a un Grande Israele dal Nilo all’Eufrate, traduzione secolarizzata e imperiale della promessa del Genesi.
E più ancora per l’impossibilità di essere giusti, quando si è uno Stato che Stati vicini e lontani rifiutano, alle cui terre 4,2 milioni di discendenti dei profughi palestinesi della Guerra del ’48 ancora aspirano, e che deve misurare sia la sua quotidianità che il suo futuro nei rapporti con 3,8 milioni di palestinesi dei Territori. Si fa presto a dire “due popoli e due Stati”. Due popoli e due Stati vuol dire frontiere. E frontiere vuol dire muri, soldati ragazzini, permessi di transito concessi e negati, carte d’identità rinnovate e non rinnovate, diritti che appaiono e che scompaiono, perquisizioni, umiliazioni. E guerra, fottutissima guerra con chi non accetta i confini o addirittura vorrebbe annientare gli ebrei e prendersi tutto.

Un barlume a Betlemme

Dov’è la speranza? La speranza è nel sorriso splendido di Marian Sadeh, una ragazza palestinese cristiana di 21 anni che studia nell’università cattolica gestita dai Fratelli delle Scuole cristiane a Betlemme, nei Territori. Marian, una silhouette perfetta, lunghi capelli scuri che incorniciano un volto luminoso, ha deciso di studiare qui, nella sua città, anche se le avevano offerto borse di studio da tutto il mondo. È diventata la rappresentante di tutti gli studenti, che sono in maggioranza musulmani. «Qui si protegge e si promuove culturalmente la nostra identità cristiana, mentre si accoglie una maggioranza di studenti musulmani. Farò il master all’estero e poi tornerò qui. Devo ancora decidere se sarò psicologa o giornalista. Ho visitato paesi bellissimi nel mondo, ma il mio posto è qui». Sei anni fa, in piena Intifada, Marian percorreva in auto coi genitori e la sorella tredicenne Christine una via di Betlemme. Poco prima di loro era passata un’auto di combattenti di Hamas, reduce da un attacco agli israeliani. Veicolo identico. I soldati hanno aperto il fuoco: Christine è morta sul colpo, gli altri tre sono rimasti feriti. Non è necessario fare a Marian il torto di chiederle se ha perdonato gli uccisori di sua sorella. Basta ascoltarla mentre dice: «Insieme a ragazzi israeliani della mia età io e altri palestinesi organizziamo incontri per la pace. Loro hanno problemi di permessi per venire qui da noi, e allora ci vediamo a Beit Sahur, dove loro possono entrare anche se è Palestina».
Ha detto Benedetto XVI allo Yad Vashem, citando il salmo 9: «Le Scritture insegnano che è nostro dovere ricordare al mondo che questo Dio vive, anche se talvolta troviamo difficile comprendere le sue misteriose ed imperscrutabili vie. Egli ha rivelato se stesso e continua ad operare nella storia umana. Lui solo governa il mondo e giudica con equità ogni popolo». E subito dopo ha aggiunto, ancora una volta rinnovando la memoria delle vittime della Shoah: «Il loro grido echeggia ancora nei nostri cuori… diamo voce a quel grido con le parole del Libro delle Lamentazioni, così cariche di significato sia per gli ebrei che per i cristiani: “Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie”». Parole che sono già carne in Marian. Che vive proprio come se Dio esistesse.

© Copyright Tempi, 18 maggio 2009

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