domenica 19 luglio 2009
L’enciclica "Caritas in veritate" parla ai laici (Masullo)
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L’enciclica parla ai laici
Aldo Masullo
Nelle attuali incertezze dello storico transito verso un nuovo ma non ancora prevedibile equilibrio delle forze in movimento sullo scacchiere del mondo, il permanente e decisivo bisogno di «comprendere il nostro tempo in pensieri» esige l'attento ascolto di tutte le riflessioni alte.
Un'enciclica papale non può non essere l'autorevolissimo intervento dottrinario della competenza religiosa cattolica. Eppure la «Caritas in veritate» di Benedetto XVI mi sembra eccezionalmente significativa per il pensiero laico.
Essa, come in un gioco di preziose matrioske, racchiude entro il normale impianto del fideismo teologico il nucleo originario dell'antropologia razionale. Questa enciclica è felicemente paradossale. Il suo impianto, pensato nel segno dell'impossibilità della teologia senza un'antropologia, non contraddice l'inversa possibilità di un'antropologia senza teologia. È un pensiero critico, che Benedetto XVI non improvvisa ma ha a lungo perseguito fin dagli esordi della sua formazione intellettuale.
Joseph Ratzinger appartiene alla generazione di religiosi che, dopo la «svolta» teologica di Karl Rahner, maturava, nella temperie della vigilia del Vaticano II, l'orientamento a cercare nell'antropologia il primo criterio interpretativo della teologia. Benedetto XVI riassume la sua prospettiva nell'idea dello sviluppo, non nell'accezione riduttiva di uno sviluppo meramente economico o tecnologico o di puro e astratto sviluppo spirituale, ma nel senso dello sviluppo alla luce di «una visione integrale dell'uomo». La novità qui emergente non è l'affermazione dello «sviluppo integrale», che fin dalla Rerum novarum di Leone XIII, è il motivo frequente della dottrina papale. Nuova invece è la riconosciuta necessità di fondare il principio dello «sviluppo integrale» nel principio stesso nascosto della cultura secolarizzata. Certo la cultura moderna non è più nel segno religioso e metafisico della trascendenza bensì in quello scientifico e tecnologico dell'immanenza, non del contemplare e agire, ma dello sperimentare e fare: insomma risulta intrinsecamente indifferente alla trascendenza.
Ma già in vari luoghi della cultura novecentesca è venuto emergendo il problematico riattivarsi di una comprensione dell'umano nelle sue proprietà costitutive, di un pensiero antropologico reso possibile da un'idea non religiosa bensì rigorosamente critica di trascendenza. Nella circolazione della cultura corrente si è non di rado fuorviati da abitudini linguistiche abusive, effetti di pregiudizi ideologici. Così, non appena qualcuno parla di trascendenza, si allarmano gli anticlericali intransigenti, perché nella parola vedono lo spettro del dommatismo teologico. Con ciò essi, mentre si proclamano razionalistici e critici, si precludono la possibilità di comprendere criticamente l'uomo e la ragione della sua dignità.
Qui l'abuso linguistico consiste nel ridurre la trascendenza a nozione esclusiva del discorso teologico, e rifiutarla in nome di una laica modernità.
Invece alla luce di un'analisi rigorosa la trascendenza risulta appartenere intrinsecamente e primariamente al lessico del discorso antropologico. L'uomo sta nel mondo non come un contenuto nel contenitore. Non sta inerte in un luogo, tanto meno nella sua stessa oggettiva identità; ma, pur restandovi, ne fuoriesce: la rompe, si sporge fuori, si apre a ciò tra cui si trova, gli dà significato in relazione a sé. Egli non solo, come tutti gli altri esseri animati, re-agisce «patendo» agli stimoli esterni e a quelli del suo stesso corpo ma inventa risposte inedite, in senso forte «agisce», diviene cultura, trama di istituzioni: insomma si fa storia, tessuto di passioni e di azioni. Benedetto XVI per valorizzare il nocciolo antropologico della religione ricorda sant'Agostino, il quale ammonisce l'uomo a «interiormente trascendersi». Nel secolo scorso la filosofia fenomenologica riprende laicamente questo motivo. «L'esserci dell'uomo - si legge in un celebre testo di Martin Heidegger - può rapportarsi a "se" stesso, in quanto tale, solamente se oltrepassa sé nell' in-vista-di». Insomma «qualsiasi comportamento è radicato nella trascendenza». In ciò sta per l'uomo la libertà. Che l'uomo e il suo mondo siano trascesi da Dio, è un'idea. Che l'uomo nel suo riconoscersi e progettarsi il mondo si trascenda, è un fatto, è l'empiria autentica. La trascendenza così intesa non contraddice anzi esprime la rigorosa fedeltà all'empiria e alla ragione che la riconosce e la interpreta. Essa peraltro non preclude, a chi ne sentisse il bisogno, d'interrogarsi su quell'altra trascendenza, che si pensa idealisticamente e a cui anela la fede religiosa. Il «fenomeno», l'umano manifestarsi, è trascendenza, libertà. Nell'atto del riconoscersi trascendente l'uomo non può più chiamarsi fuori dalla sua relazione con gli altri, non può eccepirsi non coinvolto. La sua libertà non può dichiararsi irresponsabile. Dalla trascendenza discende quello che, nel cuore dell'enciclica, è il principio eticamente, e politicamente, decisivo. Ciò che, a prescindere da presupposti religiosi, rende possibile la relazione con gli altri, dove ognuno assume la sua responsabilità, è la fiducia. L'onestà del religioso si fonda sulla sua «fede» in Dio, resa possibile da una rivelazione storica. L'onestà del non credente si regge sulla sua «fiducia» nell'altro uomo, resa possibile dal suo stesso costitutivo trascendersi e porsi alla giusta distanza da sé. La fiducia è il cardine della socialità in tutte le sue forme. Essa è l'universale che include tutte le modalità particolari della vita umana. La trascendenza si compie nel sentimento della fiducia e nell'idea del necessario sviluppo integrale. Ciò è evidente in ogni caso. Ad esempio, scrive il Papa, «il mercato, se c'è fiducia reciproca e generalizzata, è l'istituzione economica che permette l'incontro tra le persone secondo le regole del dare e dell'avere». Dunque, se l'economia dipende dalla ragione, intesa come comprensione del proprio umano trascendersi, «Paolo VI aveva visto con chiarezza che tra le cause del sottosviluppo economico c'è una mancanza di sapienza», un'immatura umanità. Oggi «la fiducia è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave». Anzi, direi, è il venir meno della elementare condizione, l'unica insieme necessaria e sufficiente, della relazione tra gli uomini, e dunque della società. Chi laicamente ha orecchie per intendere, intenda.
© Copyright Il Mattino, 18 luglio 2009
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