martedì 25 agosto 2009

Benedetto XVI, il nazismo, il nichilismo. La disputa s’infiamma (Magister e De Marco)


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Benedetto XVI, il nazismo, il nichilismo. La disputa s’infiamma

Le parole di Benedetto XVI all’Angelus del 9 agosto non cessano di far discutere. Emanuele Severino le ha contestate, Giovanni Reale le ha difese.
Su “la Repubblica” Adriano Sofri ha denunciato “l’errore di Ratzinger” di ritenere impossibile un’etica che non faccia riferimento a Dio.
Su “Avvenire” del 19 agosto il teologo e vescovo Bruno Forte ha argomentato invece che senza un’etica della trascendenza “tutto è permesso” e cade ogni capacità di distinguere il bene dal male.

Ma che cosa ha detto di preciso Benedetto XVI? Il papa ha esordito ricordando i santi Edith Stein e Massimiliano Kolbe, entrambi martirizzati nel lager di Auschwitz. E ha così proseguito:

“I lager nazisti, come ogni campo di sterminio, possono essere considerati simboli estremi del male, dell’inferno che si apre sulla terra quando l’uomo dimentica Dio e a Lui si sostituisce, usurpandogli il diritto di decidere che cosa è bene e che cosa è male, di dare la vita e la morte. Purtroppo però questo triste fenomeno non è circoscritto ai lager. Essi sono piuttosto la punta culminante di una realtà ampia e diffusa, spesso dai confini sfuggenti. I santi, che ho brevemente ricordato, ci fanno riflettere sulle profonde divergenze che esistono tra l’umanesimo ateo e l’umanesimo cristiano; un’antitesi che attraversa tutta quanta la storia, ma che alla fine del secondo millennio, con il nichilismo contemporaneo, è giunta ad un punto cruciale, come grandi letterati e pensatori hanno percepito, e come gli avvenimenti hanno ampiamente dimostrato. Da una parte, ci sono filosofie e ideologie, ma sempre più anche modi di pensare e di agire, che esaltano la libertà quale unico principio dell’uomo, in alternativa a Dio, e in tal modo trasformano l’uomo in un dio, ma è un dio sbagliato, che fa dell’arbitrarietà il proprio sistema di comportamento. Dall’altra, abbiamo appunto i santi, che, praticando il Vangelo della carità, rendono ragione della loro speranza; essi mostrano il vero volto di Dio, che è Amore, e, al tempo stesso, il volto autentico dell’uomo, creato a immagine e somiglianza divina”.

Ecco qui di seguito come il professor Pietro De Marco passa al vaglio gli argomenti anti-Ratzinger di Adriano Sofri:

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Ad Adriano Sofri non è piaciuto l’accostamento tra nichilismo e nazismo compiuto da Benedetto XVI all’Angelus di Castel Gandolfo del 9 agosto scorso. Ha scritto su “la Repubblica” dell’11 agosto: “Che il ‘nichilismo contemporaneo’ costituisca una unica e organica categoria mi sembra un convinzione avventata. Che all’ingrosso questa categoria vada assimilata al nazismo mi sembra un’enormità, che lungi dall’indicare e svelare il male nichilista riduce e offusca l’orrore nazista”.

Sofri se la prende anche con il richiamo all’amore, per insegnarci invece che “solo l’amore” (ma non c’è niente del genere nell’Angelus del papa) non avrebbe potuto evitare né punire Auschwitz. E discetta contro la contrapposizione tra umanesimo cristiano e umanesimo ateo, ai cui sviluppi nichilistici nella trascorsa (ma non conclusa) fine millennio l’Angelus fa cenno. Improvvisata, nella sua palese incoerenza, mi pare la memoria di Jervis e Basaglia, nonché di Sebastiano Timpanaro, eretti da Sofri a campioni di fronte a Ratzinger: due “umanesimi atei” che si accordano poco tra di loro, e sulle cui implicazioni ideologiche passate discuterei volentieri. Strano che Sofri ignori che le moralità statuarie non sono esenti per ciò stesso da nichilismo.

Troppo semplice, ma doveroso, chiarire contro Sofri che Ratzinger non ha “assimilato” il nichilismo contemporaneo al nazismo né appare sfiorato dal rischio di risolvere riduttivamente l’uno nell’altro. Peraltro il nesso nichilismo-nazismo, spesso invocato, è almeno un momento obbligato dell’analisi del fenomeno nazionalsocialista, e vale comunque più della esecrazione magica di Sofri: “Nazismo è un nome che va maneggiato con attenzione, se non altro perché nominarlo dovrebbe bastare a combatterlo con ogni mezzo”. Non sarà Sofri ad insegnare a un intellettuale tedesco (nato nel 1927) come articolare il proprio giudizio sul nazionalsocialismo. Il papa ha semmai collegato più ampiamente “l’inferno che si apre sulla terra quando l’uomo dimentica Dio e a Lui si sostituisce” all’affermazione novecentesca dell’umanesimo ateo. L’analisi del teologo gesuita Henri De Lubac che divulgò la categoria di “umanesimo ateo”, pur divisa tra orrore e speranza, aveva davanti le prove, nelle anime e nelle politiche, degli effetti corruttori dell’ateismo nietzscheano. Impressionante rilettura il suo “Drame de l’humanisme athée” che in prima edizione risale al 1944.

Per di più, una “assimilazione” tra nazismo e nichilismo, che davvero Sofri vede all’ingrosso, non poteva esservi nel breve ragionamento del papa, perché il “nichilismo contemporaneo” di cui si parla nell’Angelus è appunto quello contemporaneo, il nichilismo di cui discuteranno con genio anticipatore Jünger e Heidegger tra il 1949 e il 1955; non è quello classico cui si riferiscono molte analisi dei fenomeni totalitari esplosi tra le due guerre. Rispetto all’eroismo nichilista classico, alla sua versione omicida e suicida dell’essere-per-la-morte, nella posteriore deriva nichilistica delle società democratiche prevalgono modi di pensare e di agire “che esaltano la libertà quale unico principio dell’uomo”, e trasformano l’uomo in “un dio sbagliato, che fa dell’arbitrarietà il proprio sistema di comportamento”. Sono formule del papa.

Trovo felicissimo in Ratzinger quel “dio sbagliato”: l’aggettivo dimesso illumina col suo registro la mediocrità del dramma nichilistico contemporaneo, ove, per di più, l’arbitrarietà individuale si coniuga con la richiesta, in apparenza contraddittoria, di “sobrietà, igiene, ordine rigoroso” (Jünger) della forma sociale, e vi si maschera. Non le libertà per la decisione, le “libertà per la morte”, evocate da Karl Löwith nelle sue memorie tedesche scritte nel 1940, ma oggi nicchie di arbitrio in un contraddittorio ordine di indeterminata pace, che si autogenera. Poiché è l’arbitrio stesso che vuole essere “lasciato in pace”! È questa una immagine plausibile della “crisi profonda del mondo contemporaneo”, per cui crediamo che alla salvezza basti, da un lato, deprecare pubblicamente l’essere-per-la-morte del Superuomo (quanti sciocchi ripetono ‘beato il paese che non ha bisogno di eroi’!) e, dall’altro, ritualizzare in privato la certa mortalità del piccolo e ultimo Uomo.

Nelle diciassette righe che nell’Angelus del 9 agosto sono dedicate alla meditazione sui “confini sfuggenti” (oltre e dopo i lager) dell’usurpazione nichilistica di Dio, non vi sono certamente troppe determinazioni. Ma una loro lettura corretta sarebbe stata sufficiente a coglierne le sfumature, nonché le forti implicazioni ultime. Franco Volpi, di cui abbiamo pianto la morte improvvisa e prematura poche settimane fa, è stato guida su questo terreno, con le sue rigorose traduzioni e chiarificazioni di molto Heidegger e di decisive pagine Ernst Jünger. Sulla fine di un limpido libro (cito dall’edizione del 1996) dedicato al nichilismo egli ricordava che “il solo atteggiamento non ingenuo [di fronte alle molte cadute nichilistiche dell'Occidente] è la rinuncia a una sovradeterminazione ideologica e morale dei nostri comportamenti. La nostra è una filosofia di Penelope che disfa incessantemente la sua tela perché non sa se Ulisse ritornerà. Ancora non sappiamo, infatti, quando potremo dire di noi stessi quello che Nietzsche osava pensare di sé”, ossia di avere il nichilismo ormai “dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé”. Ma contro i classici stessi, che ci segnalano (tramite Heidegger anzitutto, per Volpi) un destino, “il destino di un ‘de profundis’ dal quale l’umanità non pare essersi ancora risollevata”, si alza la voce, anche in una semplice esortazione domenicale, del successore di Pietro.

Che Sofri reagisca quasi senza aver letto, è buon segno. Ma difendere questo o quel nichilismo di ieri e d’oggi è solo piccolo cabotaggio. Tutte le realtà che Benedetto XVI ha annodato in poche parole sono tra loro connesse, tra orrore e speranza, la “sperandarum substantia rerum”, la sostanza di cose sperate che la travagliata storia dell’essere e l’emergere del “sentimento che tutto sia privo di valore” non hanno mai potuto cancellare. Non è esortazione, ma tema filosofico fondamentale, che i santi evocati da Benedetto, cui è stato concesso un intatto esistere nel sentimento che “tutto è grazia”, lascino il nichilismo “dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé”.

(Di Pietro De Marco, Firenze).

da Settimo Cielo, il blog di Sandro Magister consultabile online qui.

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