venerdì 21 agosto 2009
La parabola dell’umanesimo ateo (Bruno Forte)
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DIBATTITO
La parabola dell’umanesimo ateo
Bruno Forte
Nel dibattito accesosi in questi giorni sulla stampa intorno al concetto di nichilismo e di umanesimo ateo, a partire dalla frase pronunciata da Benedetto XVI nell’Angelus del 9 agosto riguardo ai «lager nazisti, simboli estremi del male, come il nichilismo contemporaneo», vorrei inserirmi concentrandomi su un’unica domanda, quella che dal punto di vista delle conseguenze pratiche mi appare la più decisiva: è possibile un’etica senza Trascendenza? Può esserci un codice morale normativo e condiviso senza il riferimento a Dio, all’«ultimo Dio»?
Se sì, dove fondare l’esigenza assoluta di fare il bene e di evitare il male, dal momento che non esisterebbe alcun assoluto a cui ancorarla? O il bene si giustifica da sé e si impone con un’evidenza tale da non richiedere ulteriori motivazioni? E il male? È anch’esso così evidente da non supporre alcun imperativo categorico, rispetto a cui porsi come controcanto, negazione ostinata e perfino beffarda del «cosiddetto bene»?
Miriadi di voci in secoli di storia hanno risposto a queste domande in una stessa direzione: il bene c’è ed è assoluto; esso si identifica anzi con l’Assoluto stesso, di cui è il volto attraente, lo splendore irradiante, l’esigenza amabile, il dono perfetto. Il male è la resistenza opposta a questo richiamo, l’appassionato permanere nella negazione, la lotta vissuta in nome di una causa falsa, quella della propria libertà eretta come assoluto contro l’Assoluto.
Fra il male e il bene la scelta non sarebbe allora che una: con Dio o contro Dio; per l’Assoluto o per le onnivore fauci del nulla. Dall’ethos classico, alla morale delle Dieci Parole, legate al Grande Codice dell’alleanza con il Dio biblico, dal discorso della montagna alle esigenze di giustizia del diritto romano, è quest’impianto di una morale fondata nella trascendenza che ha retto le sorti della vita personale e collettiva dell’Occidente.
È con l’emergere moderno del valore centrale della soggettività che cambiano anche i termini del problema: dall’eteronomia – in cui si vorrebbe costringere tutto il complesso accennato di un’etica dalla fondazione oggettiva ed assoluta – si intende uscire per passare al mondo dell’autonomia, verso i pascoli di una vita morale emancipata, dove il coraggio di esistere autonomamente sia esteso dal conoscitivo «sapere aude!» – «osa sapere!» al decisionistico «libere age!» – «agisci secondo il codice di un’assoluta libertà!» L’autonomia appare come la sfida irrinunciabile su cui misurare qualsivoglia imperativo morale, per verificare se esso renda più o meno liberi, più o meno umani.
Farsi norma a se stessi, essere soggetto e non oggetto del proprio destino, questo appare il progetto da perseguire. L’ebbrezza di questo sogno contagia gli spiriti più diversi, in forme borghesi o rivoluzionarie, di progresso o di conservazione, di freddo calcolo o di passioni emotive. Ben presto, tuttavia, la coscienza dell’impossibilità di un’etica tutta soggettiva si impone alla riflessione dei moderni: che bene sarebbe il bene che fosse tale solo per me? E in nome di quale criterio valido per tutti sarebbe da evitare il male? Non è il confine fra la mia libertà e l’altrui anche il limite di ogni autonomia? E perché se una scelta mi risultasse più vantaggiosa – in termini morali o economici o politici – dovrei seguire un criterio diverso dal semplice profitto e agire in maniera differente? Se poi un comportamento scorretto è diffuso – giustificato dal «tutti lo fanno!» – in nome di quale valore morale dovrei evitarlo, se la scelta è lasciata all’arbitrio personale? È a partire dal crogiuolo di queste domande – quelle di una modernità ferita, insoddisfatta del passato e inquieta di sé – che si profila come tema veramente urgente quello della fondazione dell’etica, in un’epoca in cui il passaggio dal fenomeno al fondamento appare tanto necessario, quanto spesso evaso.
Oltre il tramonto delle pretese assolute di una certa modernità e l’incompiutezza del nichilismo della post-modernità debolista, ritorna in tutta la sua forza il bisogno di un’etica della trascendenza, mancando la quale tutto è permesso. Quattro tesi potranno aiutare a coglierne il senso, che a mio avviso chiarisce e motiva nella maniera più adeguata le parole del Papa. Formulerei così la prima tesi: non c’è etica senza trascendenza. Non può esserci agire morale, lì dove non ci sia l’altro, riconosciuto in tutto lo spessore irriducibile della sua alterità. La fondazione dell’etica è inseparabile da questo riconoscimento: chi afferma se stesso al punto da negare consapevolmente o di fatto ogni altro su cui misurarsi, nell’atto stesso di questa affermazione sazia, idolatrica, nega se stesso come soggetto morale, nega anzi la possibilità stessa di una scelta eti- ca fra bene e male, perché annega ogni differenza nell’oceano asfissiante della propria identità. Nessun uomo è un’isola: e chi pensasse o volesse essere tale, nell’atto stesso di pensarsi o volersi così annullerebbe se stesso come soggetto di relazione, e perciò di vita e di storia reale.
La negazione dell’altro è negazione di sé; fare dell’altro lo «straniero morale» è farsi stranieri alla verità di se stessi, è rinnegare la più profonda dignità del proprio essere personale e del proprio destino. Non c’è responsabilità e vita morale senza un movimento di esodo da sé per andare verso l’altro, soprattutto se debole, indifeso e senza voce o capacità di far valere i propri diritti. A questa prima tesi si congiunge direttamente la seconda: n n c’è etica senza gratuità e responsabilità . Questa seconda tesi ricorda come ogni movimento di trascendenza ha un carattere gratuito e potenzialmente infinito: uscire da sé in vista di un ritorno, calcolare con l’altro al fine di un proprio interesse è svuotare di ogni valore la scelta morale, facendone semplicemente un commercio o uno scambio tra pari.
Qui la lezione di Kant conserva tutta la sua verità: l’imperativo morale o è categorico, e dunque incondizionato, o non è. O il destinarsi ad altri è un atto gratuito e senza condizioni, da null’altro motivato che dall’esigenza e dall’indigenza dell’altro – «exode de soi sans retour», direbbe Lévinas – , o non è auto-trascendenza, ma riflesso, proiezione di sé fuori di sé in vista dell’egoistico ritorno a sé. In questo carattere gratuito e potenzialmente infinito della trascendenza morale si coglie come l’anima più profonda di essa sia l’amore, il dare senza calcolo e senza misura per la sola forza irradiante del dono. Il bene è ragione a se stesso! La terza tesi dilata la seconda alle forme dell’oggettività sociale e comunitaria: non c’è etica senza solidarietà e giustizia . È nello stesso movimento di auto-trascendenza che si scopre la rete degli altri che circonda l’io come sorgente di un insieme complesso di esigenze etiche: contemperarle in modo che il dono compiuto all’uno non sia ferita o chiusura ad altri è coniugare la morale con la giustizia.
Regolare in forma collettiva questa rete di esigenze è misurarsi sul bisogno del diritto: non l’astratta oggettività della norma, né il dispotismo del sovrano fonda l’autorità della legge, ma l’urgenza di contemperare le relazioni etiche perché nessuna sia a vantaggio esclusivo di alcuni e a scapito della dignità di altri. L’etica della solidarietà integra qui la sola etica della responsabilità, strappandola al rischio sempre incombente di un suo stemperarsi nell’assolutismo infecondo della sola intenzione. Il bene comune è misura e norma dell’agire individuale, specialmente nel campo dei doveri civili. Infine, quando si riconosce che il movimento di trascendenza verso l’altro e la rete d’altri in cui siamo posti presentano un carattere di esigenza infinita, sull’orizzonte dell’etica si profila un’altra trascendenza, ultima e nascosta, di cui quella prossima e penultima è traccia e rinvio: l’etica rimanda alla trascendenza libera e sovrana, ultima e assoluta . Nel volto d’altri è l’imperativo categorico dell’amore assoluto che mi raggiunge, e nell’assolutezza dell’urgenza della solidarietà con il più debole è un amore infinitamente indigente che mi chiama. Questa trascendenza assoluta, questo assoluto bisogno d’amore sono la soglia che salda l’etica filosofica all’etica teologica: qui l’etica della responsabilità e l’etica della solidarietà appellano all’etica del dono, alla morale della Grazia. Qui l’amore – sovrana esigenza morale – rimanda all’Amore come eterno evento interpersonale dell’unico Dio. Qui, nelle forme dell’essere l’uno- per-l’altro, è il possibile impossibile amore, gratuitamente donato dall’alto, che viene a narrarsi nel tempo: la carità, che «non avrà mai fine» (1 Cor 13,8). Su di essa si misurerà la verità profonda delle nostre scelte: alla sera della vita saremo giudicati sull’amore! Si comprende così come il Papa della Deus caritas est e della Caritas in veritate sia la chiave interpretativa più autentica e illuminante della frase pronunciata all’Angelus del 9 agosto scorso.
© Copyright Avvenire, 19 agosto 2009
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1 commento:
quante dotte citazioni: Kant, Levinàs; anche in questo 'dotto' documento tante belle parole, ma ne manca una: il Nome di Gesù e il riferimento al Suo Vangelo. E' solo Lui che rende possibile un'etica, che scaturisce da un cuore Redento e non è né "umanesimo ateo" né "umanitarismo religioso"
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