venerdì 14 novembre 2008

D'Agostino: "Avallata l'eutanasia senza il coraggio di chiamarla per nome"


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IL DIRITTO STRUMENTO DI VITA

AVALLATA L’EUTANASIA SENZA IL CORAGGIO DI CHIAMARLA PER NOME

FRANCESCO D’AGOSTINO

Ci sarà modo nei prossimi giorni di approfondire la valenza propriamente giuridica della sentenza della Cassazione sul 'caso Eluana'. Avremo modo di verificare se l’agonia cui Eluana appare ormai irrimediabilmente condannata sarà paragonabile a quella, atroce per la sua lunghezza, di Terry Schiavo. Per ora limitiamoci a richiamare le obiettive ricadute biogiuridiche e soprattutto bioetiche di questa sentenza. Ribadisco: bioetiche e non teologiche, non dogmatiche, non spirituali, non religiose. Non perché queste ricadute non ci siano (anzi, sono le più importanti), ma perché prima di approdare al piano della teologia e della spiritualità abbiamo il dovere, come cittadini di una società laica e pluralista, di soffermarci e di ragionare pacatamente sul piano della comune ragione umana, quel piano che tutti ci accomuna, credenti e non credenti, quel piano che i magistrati di Cassazione hanno obiettivamente offeso. A seguito dell’iter processuale cui questa sentenza sembra aver posto fine è stato introdotto in Italia un principio che non solo non appartiene alla nostra tradizione giuridica, ma che ripugna alla logica stessa del diritto: quello della disponibilità della vita umana e soprattutto della vita umana malata.
In poche parole, i magistrati hanno avallato l’eutanasia , senza avere il coraggio di chiamarla con il suo nome.
Non è vero che il caso Eluana sia riconducibile al legittimo rifiuto di un trattamento sanitario: alimentare un malato non è sottoporlo a un 'trattamento', ma prendersi cura di lui, in una forma simbolica ben più alta di quella stessa della medicina. E comunque, il solo fatto che esista l’opinione diffusa, anche tra autorevoli medici e scienziati, secondo cui alimentare e idratare un malato in stato vegetativo è una forma primaria di sostegno vitale e non una terapia in senso stretto, avrebbe dovuto indurre tutti (e i giudici di Cassazione in primo luogo) ad adottare un criterio interpretativo restrittivo e non estensivo dell’articolo 32, 2° comma, della Costituzione, che riconosce sì al paziente, come ormai a tutti è noto, il diritto di rifiutare trattamenti sanitari coercitivi, ma non gli dà il diritto di disporre della propria vita.
Continueremo a sentirci ripetere che con questa sentenza si è reso omaggio alla volontà di Eluana. A parte il fatto che la Cassazione ha ritenuto accettabili, per fornire la prova di tale volontà, testimonianze e indicazioni sullo stile di vita della povera ragazza che sarebbero ritenute risibili ove si dovesse accertare una volontà testamentaria di tipo patrimoniale (ma la vita non conta più del denaro?), si deve instancabilmente ribadire che l’autodeterminazione non può avere rilievo quando si concretizza per una scelta irreversibile come quella della morte. È la vita, infatti, e non la morte l’orizzonte nel quale si colloca il diritto. Se diciamo no alla pena capitale, non è perché riteniamo che non sia possibile che esistano criminali che la meritino, ma perché è atroce che attraverso una condanna giudiziaria il diritto si faccia strumento di morte. La Cassazione, probabilmente con serena inconsapevolezza, a tanto invece è giunta. E ancora. Confermando che al padre di Eluana va riconosciuto il potere di ordinare la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione della figlia, la Cassazione ha alterato irrimediabilmente la figura del tutore, cioè di colui cui il diritto affida il compito di tutelare soggetti fragili, deboli, incapaci, inabilitati, interdetti, alla condizione però di agire sempre e comunque nel loro esclusivo interesse. Condannandola a morire di inedia, il tutore non solo sottrae a Eluana il bene della vita, ma soffoca ogni sia pur minima speranza di poter fuoriuscire da uno stato, come quello vegetativo, che non a caso la scienza definisce 'permanente', non 'irreversibile'. Né va sottaciuto il fatto che, con la sua decisione, la Cassazione ha contribuito a offuscare il concetto, già in sé estremamente complesso, di accanimento terapeutico, inducendo l’opinione pubblica a ritenere ciò che non è, cioè che l’assistenza prestata a Eluana, per consentirle di sopravvivere, fosse futile, sproporzionata, indebitamente invasiva, caratterizzata dall’uso di tecnologie sofisticate. Non è così che si rende omaggio alla verità. Ma forse l’esito più devastante di questa sentenza sarà quello simbolico: essa avallerà l’opinione aberrante secondo la quale la sospensione dell’alimentazione sarebbe giustificata dal fatto che, in quanto preda di uno stato vegetativo persistente, Eluana avrebbe perso la propria dignità. È un messaggio devastante, oltre che colpevolmente umiliante per i tanti altri malati in stato vegetativo (e per le loro famiglie). Nessuna malattia, nemmeno la più grave, può erodere la dignità dell’uomo, né sospendere i suoi diritti fondamentali o incrinare il suo diritto alla vita. Che il signor Englaro, e con lui i magistrati che hanno avallato le sue richieste, abbiano perso questa nobile e antica consapevolezza, prima che suscitare critiche o sdegno suscita un profondo dolore.

© Copyright Avvenire, 14 novembre 2008

1 commento:

Anonimo ha detto...

D'accordissimo su tutti ipunti con D'Agostino, questo terribile epilogo suscita dolore e anche, in pari misura, sdegno, rabbia, che sono fanno parte delle nostre sincere ed immediate reazioni emotive, di uomini.