mercoledì 5 novembre 2008

Eutanasia, eugenetica, pillola del giorno dopo: i rischi di un'informazione tendenziosa (Osservatore Romano)


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Eutanasia, eugenetica, pillola del giorno dopo: i rischi di un'informazione tendenziosa

Obiezione di scienza e obiezione di coscienza

di Silvia Guidi

"Sì alla pillola del giorno dopo come farmaco da banco", titolavano i giornali qualche giorno fa sintetizzando i lavori dell'assemblea dei presidenti provinciali dell'Ordine dei medici che si è tenuta lo scorso 25 ottobre a Ferrara, e riassumendo i contenuti del documento finale "approvato all'unanimità".
Nessuna delle due affermazioni è esatta; la frase sulla Norlevo declassata a farmaco da banco, come l'aspirina o le pastiglie per la tosse, nel testo approvato non c'è e anche l'espressione "unanimità dei consensi" deve essere presa con beneficio di inventario.
I cronisti, comunque, hanno colto lo spirito e le linee guida del testo; "i medici hanno l'obbligo di adoperarsi per tutelare l'accesso alla prescrizione nei tempi appropriati del Levonorgestrel alle donne che ne facciano richiesta" si legge nel documento "Etica e deontologia di inizio vita".
Tradotto: formalmente è ancora possibile l'obiezione di coscienza alla prescrizione del medicinale ma sarà difficile sostenere a lungo questa posizione, perché il Norlevo è stato dichiarato - in modo erroneo, ma ufficialmente acquisito - come farmaco di emergenza.
Non si tratta di un farmaco salvavita, anzi, a ben vedere non si tratta neanche di un farmaco in senso stretto, perché non cura da nessuna malattia, a meno di non classificare la gravidanza come una patologia.
"Sottolineo con grande gioia l'unanimità del consenso, consapevole delle molteplici sensibilità e culture che si muovono su tali materie" aveva dichiarato Amedeo Bianco, il presidente della Federazione all'indomani della riunione del Consiglio. Non condivide - e non ha condiviso neanche durante l'assemblea - la soddisfazione di Bianco Piergiorgio Fossale, presidente dell'ordine dei medici di Vercelli.
"In realtà si tratta di un'unanimità molto declamata ma poco sostanziata.
Gli ordini nazionali sono 103, all'atto dell'appello erano presenti 59 presidenti. Molti, tra cui io, se ne sono andati prima del voto proprio per esprimere in modo inequivocabile il loro dissenso - precisa Fossale -.
Per questo parlare di unanimità mi sembra inesatto. Le asserzioni contenute nel documento sono scritte in uno stile politicamente corretto, ma presuppongono un pensiero unico in cui non ci riconosciamo. Ai medici si ricorda che è loro dovere garantire la prescrizione della pillola del giorno dopo.
Zelo molto meno necessario, lascia capire il documento, per tutto ciò che riguarda la Legge 40 sulla fecondazione assistita; le linee guida possono essere interpretate privilegiando sempre e comunque il rapporto medico-paziente. Stesso atteggiamento superficiale e troppo trionfalista sulla Legge 194, descritta come lo strumento legislativo che ha debellato l'aborto clandestino - cosa ancora tutta da dimostrare - e lodata come la panacea per tutti i mali. Durante il dibattito c'è stata troppa superficialità nel trattare temi delicati" continua Fossale, citando un episodio che non ha lasciato traccia nel documento finale per dare un'idea del clima durante i lavori.
"È stata sottoposta al voto una proposizione, poi bocciata, in cui si sosteneva che le difficoltà organizzative dei consultori sono provocate dagli obiettori di coscienza.
Io, tra l'altro, preferisco parlare di obiezione di scienza più che di obiezione di coscienza, perché il rispetto della legge non basta, bisogna anche capire di cosa stiamo parlando. Televisione, internet, radio e giornali ci bombardano di informazioni che non sono conoscenza; il paziente deve essere aiutato dal medico a capire, non liquidato con una ricetta. Questo implica molto impegno, tanto lavoro sommerso, la disponibilità ad ascoltare, a mettersi in gioco; serve un'alleanza culturale con il paziente, avevamo formulato una proposta in questo senso ma è stata bocciata, nel documento finale è rimasta solo la formula "alleanza terapeutica"".
Non ci sono solo i possibili effetti collaterali dei nuovi farmaci, insistono i medici che non accettano di essere trasformati in erogatori automatici di ricette, c'è anche una conseguenza culturale di cui non si può non tener conto, come la banalizzazione dell'amore e di altri aspetti fondamentali della vita.
"Il tutto rientra nel vitalismo superficiale funzionale a una concezione dell'esistenza che si consuma e si realizza nell'istante - continua Fossale -.
La vita non è un valore in sé ma soltanto in quanto corredata da aggettivi connotanti una sua utilità e efficienza. La morte collide con questo impianto concettuale, ne inceppa le finalità e pertanto la sua inesorabile essenza va oscurata. Andare in profondità nella riflessione sul vivere, distinguendo tra mezzi e fini, ricollegandosi alla filosofia e alla teologia può consentire un percorso stimolante volto alla conoscenza vera e alla verità".
Condivide la stessa preoccupazione per lo stato confusionale in cui versa spesso la comunicazione sui temi di bioetica anche il segretario nazionale dell'Associazione medici cattolici italiani, Franco Balzaretti: "In futuro dovremo avere un'attenzione particolare per la comunicazione, che nella nostra società ha assunto un ruolo essenziale, per una corretta informazione e per la difesa dei principi non negoziabili cristiani. La medicina è una scienza sacra perché sacro è l'uomo, realtà inscindibile di corpo, di intelletto-psiche e di spirito. La carità deve rappresentare un elemento peculiare della professione medica, soprattutto per i medici cattolici, insieme alla responsabilità, intesa nel suo senso originario di rispondere a un bisogno. Responsabilità per se stessi, ma anche per gli altri; serve un maggior spirito di solidarietà tra noi medici. La competitività esasperata non serve a nessuno: né a noi, né ai colleghi, né tantomeno ai pazienti".
"I medici, in particolare i più famosi - continua sulla stessa linea Fossale - hanno in parte smarrito il significato intimo e essenziale della loro missione (tra l'altro si ha ritrosia a pronunciare la parola missione!).

Si sono, più o meno consapevolmente, messi a disposizione del sensazionalismo gridato dei mass media, credendo di acquisire così più prestigio e più potere.

La salute diventa così un idolo, un totem, una divinità pervasiva e totalizzante, una strada verso una felicità impossibile. La salute al posto della salvezza. Il salutismo consumistico diventa un boomerang per la professione medica, crea delusioni, recriminazioni, colpevolizzazioni e apre la strada a maghi e ciarlatani vari. Un recupero della lettera e dello spirito del giuramento ippocratico, opportunamente aggiornato e perfezionato, può essere un valido antidoto al frustante e frustrato miracolismo corrente".
O ai "casi" da speciale tv in prima serata che alimentano il dibattito sull'eutanasia e dimostrano che "l'eterno conflitto tra la legge della pòlis (Creonte) e la legge morale (Antigone) è sempre attuale. Andrebbero sempre evitate le personalizzazioni di problematiche complesse; Eluana Englaro e Piergiorgio Welby sono stati cancellati come persone sofferenti e sono state trasformate in simboli e icone di battaglie e campagne non a difesa della dignità e del valore della vita ma a sostegno di proposte politiche e ideologiche; la soluzione sta nell'intimo rapporto tra il sofferente e il suo medico di fiducia".
Di temi molto meno appariscenti ma decisivi per la qualità della vita del malato, come le cure palliative, si parla molto meno.
"Queste terapie - spiega Fossale - si stanno diffondendo tra ostacoli assurdi da ricercarsi in una burocrazia ridondante e paralizzante nel suo coacervo di norme e linee guida. Non circoscriverei comunque tutto alla miglior disponibilità della terapia del dolore; il malato cosiddetto terminale - brutta definizione - abbisogna di un approccio complessivo e armonico al suo soffrire. La delega a un farmaco o a un presidio tecnologico non esaurisce la vera domanda del sofferente che chiede la consolazione di una parola e di una presenza".
Ma spesso neanche gli studiosi e i ricercatori accettano un reale e leale dialogo sul loro lavoro. Un esempio fra tanti possibili: Ian Wilmut, lo scienziato che dieci anni fa ha fatto nascere la pecora clonata Dolly, ha messo la parola fine alla tecnica che lui stesso ha promosso nel mondo, la cosiddetta clonazione terapeutica, e ha nei fatti ipotecato quella ricerca scientifica che, in nome di future terapie, crea e distrugge embrioni umani. Wilmut ha dichiarato un anno fa che la strada "cento volte più promettente" per ottenere staminali embrionali non è quella di clonare embrioni, ma di utilizzare cellule adulte; ed è un dato di fatto che a tutt'oggi solo le staminali adulte stando dando concrete prospettive di cura. Stranamente però gli addetti ai lavori hanno dato poco risalto al dietro-front di Wilmut.
"L'orgoglio del chierico scientista non prevede ripensamenti - chiosa Piergiorgio Fossale - e ciò in dissonanza con il paradigma epistemologico basato sul principio della "falsificazione dell'ipotesi" teorizzato da Popper come metodologia per approssimarsi alla conoscenza. A ciò si aggiungono interessi economici che possono essere danneggiati e carriere accademiche che possono interrompersi. Gli stessi criteri valgono per la genetica. Il genoma è paragonabile a una biblioteca con centinaia di migliaia di libri, ma finché i libri rimangono negli scaffali e le informazioni non vengono lette, studiate e trasformate in proteine dalla fabbrica cellulare il conoscere un gene è piuttosto limitativo. Per questo si è passati dal genoma al proteoma per approdare al trascrittoma e andare ancora oltre.
I rischi che la genetica può comportare sono da individuarsi nel riduzionismo esclusivista dell'approccio frutto di una lettura semplicistica del dato empirico e della sua assolutizzazione acritica. Le potenzialità della genetica vanno ricercate nella sua dimensione di straordinario momento di conoscenza e di utile e sofisticato strumento da impiegare nella tutela della salute dell'uomo. Tutela della salute che però deve sempre essere collegata alla promozione dell'integrità della persona umana".

(©L'Osservatore Romano - 5 novembre 2008)

A colloquio con Vincenzo Saraceni, presidente dell'Amci

La malattia non è uno spettacolo

"In una storia di servizio alla Chiesa e al mondo della salute e della sofferenza che dura da oltre sessant'anni, potrei ricordare tanti eventi che hanno segnato il nostro cammino - spiega Vincenzo Saraceni, presidente dell'Associazione medici cattolici italiani (Amci), tracciando un breve bilancio degli anni trascorsi - voglio ricordare l'evento che ritengo più straordinario, quando Giovanni Paolo II venne al congresso mondiale dei medici cattolici organizzato dall'Amci a Roma nel 1982. Osammo chiedere al Papa un pronunciamento sul tema della sofferenza; credo di poter dire che la Dolentium hominum istitutiva del dicastero pontificio per la Pastorale degli Operatori Sanitari e la lettera apostolica Salvifici doloris rappresentano il frutto provvidenziale di quell'incontro.

Nel medioevo, al momento della morte di un monaco, tutto il monastero si riuniva per accompagnare la sua "nascita al cielo". La nostra cultura, invece, censura la morte e il dolore, o li rende un pretesto per battaglie ideologiche senza reale amore e rispetto per il singolo.

È vero che la cultura contemporanea, nella sua lettura massmediatica, vuole esorcizzare la morte di cui ha paura perché per essa non trova giustificazioni appaganti. In Italia, comunque, permangono ancora costumi che circondano la morte del suo significato sacrale, come le ancora molto diffuse manifestazioni popolari di omaggio rituale reso ai parenti defunti che non sono solo espressione spontanea di religiosità ma anche manifestazione di radicato convincimento di "colleganza" con i propri defunti. Credo che l'uomo, a prescindere dalle proprie convinzioni religiose, debba accettare che la morte è una delle componenti del vivere e che, anzi, il nostro vivere quotidiano cambia nella misura in cui si riflette su questo destino.

Al desiderio della vita eterna si sostituisce spesso il desiderio di una "vita interminabile". Colpa dei medici, degli scienziati o dei media?

L'aspetto più preoccupante è che la cultura della vita sia oscurata a tal punto che una donna possa decidere di usare un farmaco abortivo solo di fronte alla possibilità teorica di essere in gravidanza. È ancora più sconcertante che il messaggio che questo costume obiettivamente finisce con il lanciare è quello della banalizzazione della pratica abortiva che rimane, sotto qualsiasi punto di vista lo si voglia considerare, comunque un dramma, una decisione sofferta, in cui troppo spesso la donna rimane sola.

Eluana Englaro è al centro di una battaglia giudiziaria che ha fatto da spartiacque nella giurisprudenza italiana, tanto da determinare la necessità di una legge sulla fine vita. Eluana è in stato vegetativo da sedici anni ma è viva e la sua condizione è un mistero. La sua presenza interroga tutti sul significato della vita, sul vero compito della medicina

Per noi cattolici la vita è sacra ma comunque essa deve costituire un bene non disponibile e il medico, secondo la plurimillenaria tradizione ippocratica, è posto a tutela della vita. Questo mi sembra sia scritto nella nostra Costituzione e abbiamo per questo sempre ritenuto che una legge sulla fine della vita non fosse necessaria e che la soluzione dei problemi difficili posti dalla sofferenza, a volte veramente atroce, possa ricercarsi nell'alleanza tra medico, malato e famiglia. Ma le recenti sentenze sul caso Englaro ci stanno orientando ad accettare una legge che con chiarezza escluda qualunque ipotesi di eutanasia.

(©L'Osservatore Romano - 5 novembre 2008)

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