lunedì 17 novembre 2008
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Le motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione
Marco Olivetti
docente di diritto costituzionale - Università di Foggia
Con la sentenza n. 27145 del 2008, la Corte di Cassazione (a Sezioni Unite) ha respinto l’ultimo ricorso presentato contro il decreto della Corte d’Appello di Milano che il 9 luglio scorso, sulla base della famigerata sentenza n. 21748 del 2007 della stessa Corte di Cassazione, aveva autorizzato l’interruzione della nutrizione e della idratazione di Eluana Englaro.
Secondo la Cassazione, infatti, il ricorso del procuratore generale presso la Corte d’Appello di Milano è inammissibile per carenza, nella vicenda, di un interesse pubblico.
Poiché i termini giuridici della questione restano quelli fissati lo scorso anno dalla sentenza n. 21478, è bene ricordare i tre argomenti su cui essa si è basata.
In primo luogo, secondo la Cassazione il “consenso informato” è un principio dell’ordinamento giuridico italiano, ricavabile da varie leggi e sostanzialmente recepito a livello costituzionale dal combinato disposto degli articoli 2 (tutela dei diritti inviolabili dell’uomo), 13 (libertà personale) e 32, 2° comma (divieto di trattamenti sanitari obbligatori, se non per disposizione di legge, e comunque nel rispetto della persona umana) della Costituzione. In conseguenza di ciò, il mancato consenso ad un trattamento obbliga i medici ad interromperlo, anche qualora da ciò derivi la morte del paziente. Questo primo argomento è condivisibile nella sua essenza ma non nella sua totalità. Se, infatti, non si può contestare l’esistenza di un principio del consenso informato nell’ordinamento giuridico italiano – che risulta del resto da una giurisprudenza costante e che trova una sicura base in varie leggi – ciò non significa che esso possa senz’altro trovare applicazione a trattamenti la cui mancata prestazione comporti la conseguenza immediata e sicura della morte del paziente. Il principio del consenso informato non è infatti privo di limiti e va invece bilanciato con altri, di valore almeno pari ad esso, se non superiore: in questo caso con il valore della vita umana. E lo stesso art. 32, 2° comma, della Costituzione, laddove richiede il rispetto della persona umana come limite ai trattamenti sanitari obbligatori, si presta ad essere letto anche in questa chiave. Se la persona non è – come vorrebbe Jean Paul Sartre – pura autodeterminazione, ma è un essere umano orientato ad un fine e che preesiste all’autodeterminazione – come ritenevano i padri costituenti cui gli art. 2 e 32 sono dovuti – allora il consenso informato può trovare limite proprio nei casi in cui è in gioco (in maniera immediata e sicura) la vita del paziente.
Più discutibile è il secondo argomento: avere qualificato come “trattamenti sanitari” l’alimentazione e l’idratazione. Tali trattamenti, infatti, non sono finalizzati a ristabilire uno stato di salute della persona cui sono corrisposti, ma unicamente a consentire lo svolgimento da parte di essa delle sue funzioni vitali. Ed in effetti proprio su questo punto si avverte il vuoto di umanità che aleggia sulla giurisprudenza della Cassazione: poiché la sospensione di tali trattamenti condanna la persona cui vengono rifiutati a morire di fame e di sete, evidentemente tale decisione è possibile solo muovendo dall’idea che l’essere umano che si trova in stato vegetativo permanente non sia pienamente persona.
Ma il vero e proprio monstruum dal punto di vista giuridico è il terzo argomento. Nel caso in esame, infatti, la signorina Englaro non è evidentemente in grado di autodeterminarsi e di rifiutare da sola il consenso informato ai cosiddetti trattamenti sanitari che la alimentano e la tengono in vita. Altri ha preso la decisione di interrompere tali trattamenti per causarne la morte.
Secondo la Cassazione del 2007, la volontà del paziente incapace di intendere e di volere va invece determinata in base alle sue dichiarazioni anticipate di volontà (e già su questo punto si potrebbe molto dubitare, in assenza di una legge che consenta questo risultato) o in base alle dichiarazioni del paziente stesso emesse informalmente quando era sano o in base al suo “stile di vita”. In tal modo, però, non esistendo alcuna autodeterminazione secondo forme giuridicamente percepibili, si ricostruisce una volontà presunta in base ad elementi opinabili e difficili da provare. In tal modo si finisce per dare la parola decisiva alle persone che circondano il malato e alla loro visione del mondo, che essi proiettano sul paziente.
Questo quadro giuridico non era stato direttamente contestato dal ricorso del procuratore generale di Milano, né poteva esserlo. Il procuratore aveva unicamente lamentato che la Corte di Appello di Milano, prima di ordinare l’interruzione dell’alimentazione, non avesse disposto un nuovo accertamento sulla reversibilità dello stato vegetativo permanente in cui si trova Eluana Englaro. La Cassazione non ha però esaminato tale ricorso nel merito e lo ha ritenuto inammissibile per la carenza di un interesse pubblico, essendo in questione, nel caso concreto, unicamente il diritto del paziente all’autodeterminazione, anche nella fase finale della sua vita.
Così il cerchio si chiude: alla fine di questa complessa vicenda giudiziaria, la Cassazione a Sezioni Unite riscopre quel formalismo che la sua I sezione aveva avventatamente abbandonato lo scorso anno (soprattutto circa l’accertamento della volontà della paziente) e condanna Eluana Englaro a morire.
© Copyright Sir
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