domenica 5 aprile 2009
La «Passione» di Alessandro Manzoni. Il sangue «pioggia di mite lavacro» (Inos Biffi, Osservatore Romano)
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La «Passione» di Alessandro Manzoni
Il sangue «pioggia di mite lavacro»
di Inos Biffi
Nell'inno sacro La Passione Manzoni - che vi attese a varie riprese dal marzo 1814 all'ottobre 1815 - volge in poesia "il mestissimo rito" del Venerdì Santo, con la sua rievocazione del "Giusto, deriso e offeso, ma in solitaria e dignitosa grandezza" (Valter Boggione), coi sentimenti suscitati all'ascolto degli annunzi profetici sui dolori inenarrabili di quell'"Afflitto" che muore sulla Croce: sentimenti di timore per l'ira divina, ma alla fine, di confidente speranza in virtù del suo sangue innocente.
La "lirica meditazione" (Alberto Chiari) - tra tutte quelle di Manzoni la più intimamente partecipata e sofferta - procede lentamente, e lo stesso metro del verso, il decasillabo, predispone a intercalare ampi spazi di silenzio, e a trattenere la considerazione e lo spirito sugli eventi tremendi che la liturgia - quella ambrosiana che il poeta lombardo ha di fronte - ripropone con la severa attrattiva, la forza potente dei suoi segni e l'"atmosfera cupamente solenne" (Clara Leri).
L'inno si apre con la vista dei fedeli avviati alla chiesa per la celebrazione del Venerdì Santo. Anzi, lo stesso poeta, associandosi a loro, li esorta a mettersi in cammino con pensosa e trepida gravità, come a seguito della notizia inaspettata di una sciagura "O tementi dell'ira ventura, / Cheti e gravi oggi al tempio moviamo, / Come gente che pensi a sventura, / Che improvviso s'intese annunziar".
Sono chiamati "tementi dell'ira ventura": già il Battista ammoniva a non credere di poter "sfuggire all'ira imminente": un tema ricorrente nell'inno, che farà posto a quello della fiducia, grazie all'immolazione di Cristo che da quell'ira "ci ha liberati" (1 Tessalonicesi, 1, 10). Il "rito" è definito "mestissimo": e la definizione è perfetta. In tutto il corso dell'anno sacro il Venerdì è il giorno più spoglio e più dolente.
"Non s'aspetti - avverte il poeta - di squilla il richiamo; / Nol concede il mestissimo rito": veramente le campane potevano ancora richiamare a raccolta col loro suono, destinato poco dopo a spegnersi definitivamente - per essere sostituito dal martellare monotono e piatto del crotalo - dopo i rintocchi della morte di Gesù, a conclusione della lettura della Passio. Quanto all'altare: è rivestito della veste che indossa una sposa in lutto per lo sposo scomparso: "Qual di donna che piange il marito, / È la veste del vedovo altar": vedovo, poiché in questo giorno "aliturgico", senza celebrazione eucaristica né comunione - com'è nella tradizione ambrosiana - Cristo, lo Sposo, è assente e la Chiesa è in gramaglie. Il Venerdì Santo non c'è l'Eucaristia. Lo rende noto il poeta: "Cessan gl'inni e i misteri beati, / Tra cui scende, per mistica via, / Sotto l'ombra de' pani mutati, / L'ostia viva di pace e d'amor".
E qui ogni parola è puntuale e rifinita e ne risulta una teologia dell'Eucaristia rigorosa e suggestiva, definita coi termini precisi, che il linguaggio della tradizione liturgica e biblica conoscono: da "i misteri beati", dalla "mistica via" - una via piena di mistero -, dall'"ombra" delle specie eucaristiche, che nella transustanziazione hanno perso la loro sostanza, all'"ostia viva", cioè al Cristo "Pane vivo", immolato e pure vivente, che sulla croce ha riconciliato l'uomo con Dio e gli uomini tra loro, e recato nel mondo la carità.
E dal silenzio - che viene a crearsi spontaneo alla fine del verso precedente - ecco risonare il "sacro lamento" dell'"intento Isaia", che sente gravare sul suo cuore affannato e impaurito la tragedia di quel servo di Dio: "S'ode un carme: l'intento Isaia/ Proferì questo sacro lamento, / In quel dì che un divino spavento/ Gli affannava il fatidico cor".
Nelle umiliazioni di quel servo il profeta presagisce con realismo impressionante gli oltraggi stessi inflitti a Gesù e il seguito penoso dei momenti della sua straziante passione, rievocati dal poeta in versi di intensa ed emozionante potenza. Il "veggente di Giuda", paragonandola a un germoglio che viene alla luce da un suolo riarso, evoca un essere misterioso e conturbante: una figura umana ridotta allo stremo, vilipesa, dal volto velato, come fosse colpita da un castigo divino, e rappresentasse l'ultimo e il più mirabile degli uomini. "Di chi parli, o Veggente di Giuda?/ Chi è costui che, davanti all'Eterno/ Spunterà come tallo da nuda/ Terra, lunge da fonte vital?/ Questo fiacco pasciuto di scherno/ Che la faccia si copre d'un velo/ Come fosse un percosso dal cielo, / Il novissimo d'ogni mortal?", domanda il poeta.
Si tratta del "Giusto", ossia di Gesù, che - avverando la predizione di Isaia sull'agnello muto e mansueto condotto al macello e sul Servo del Signore - viene ignobilmente crocifisso, gravato delle colpe di tutti: "Egli è il Giusto che i vili han trafitto, / Ma tacente, ma senza tenzone; / Egli è il Giusto; e di tutti il delitto/ Il Signor sul suo capo versò". Si tratta del "Santo", che come nuovo Sansone libera l'Israele nuovo e, morendo per l'umanità peccatrice - "sposa infedele" -, lascia alla Chiesa, non per inganno ma deliberatamente, "la fortissima chioma", ossia la forza redentrice del suo sacrificio.
E a questo punto ripassano come in "diversi riquadri" (Valter Boggione), i vari e spaventosi momenti della passione del Figlio di Dio: "Quei che siede sui cerchi divini" (Dante parla dei "cerchi superni", Paradiso, XXVIi, 144), divenuto uomo - "d'Adamo figliolo" - ha voluto condividere con "i fratelli tapini" la triste eredità del loro peccato: il loro "funesto retaggio". È l'affermazione di Paolo su Gesù, che, pur essendo di natura divina, annichilì se stesso, assumendo la condizione del servo (Filippesi, 2, 6). Seguono i momenti spaventosi di quella passione: le ingiurie; il tormento dello spirito; la tristezza della morte; la paura che segue al peccato, pur essendo il Signore innocente; la dolente e inascoltata orazione nel Getsemani; l'abbandono del Padre; il bacio del tenebroso discepolo, traditore del sangue incolpevole; lo scherno della marmaglia al luminoso volto divino; l'atroce e insaziato piacere del male, che giunge fino al crimine più empio.
A rendere questo, Manzoni scrive i suoi versi più drammatici: "Né sdegnò coi fratelli tapini/ Il funesto retaggio partir: / Volle l'onte, e nell'anima il duolo, / E l'angosce di morte sentire, / E il terror che seconda il fallire, / Ei che mai non conobbe il fallir". "La repulsa al suo prego sommesso, / L'abbandono del Padre sostenne: / Oh spavento! l'orribile amplesso/ D'un amico spergiuro soffrì./ Ma simìle quell'alma divenne/ Alla notte dell'uomo omicida: / Di quel Sangue sol ode le grida, / E s'accorge che Sangue tradì./ Oh spavento! lo stuol de' beffardi/ Baldo insulta a quel volto divino, / Ove intender non osan gli sguardi/ Gl'incolpabili figli del ciel./ Come l'ebbro desidera il vino, / Nell'offese quell'odio s'irrita; / E al maggior dei delitti gl'incita/ Del delitto la gioia crudel".
In questa sequenza di raccapriccianti eventi si distingue, nel delirio della sua potenza, l'orgoglioso e stolto procuratore Pilato che - bassamente preoccupato solo di comprare e di salvare la propria carriera col sangue incolpevole di Cristo - ignora chi veramente fosse quel silente imputato, condotto come offerta sacrificale dinanzi al suo tribunale: "Ma chi fosse quel tacito reo, / Che davanti al suo seggio profano/ Strascinava il protervo Giudeo, / Come vittima innanzi a l'altar, / Non lo seppe il superbo Romano; / Ma fe' stima il deliro potente, / Che giovasse col sangue innocente/ La sua vil sicurtade comprar".
Ma soprattutto l'attenzione del poeta si sofferma con trepidazione sul "Sangue dai padri imprecato". La loro sacrilega domanda, che pervade il cielo di lutto e fa coprire il volto degli angeli inorriditi, è stata ascoltata - ritiene Manzoni - e dai padri continua a pesare sui figli: "Su nel cielo in sua doglia raccolto/ Giunse il suono d'un prego esecrato: / I celesti copersero il volto: / Disse Iddio: Qual chiedete sarà./ E quel Sangue dai padri imprecato/ Sulla misera prole ancor cade, / Che mutata d'etade in etade/ Scosso ancor dal suo capo non l'ha".
Il pannello conclusivo della tragica scena ritrae la morte dell'"Afflitto" sul "letto nefando" della croce, il grande grido, l'esalazione dell'ultimo respiro, l'esultanza dei carnefici, e l'ira divina incombente, ravvisabile anche nei segni seguiti a quella morte: lo squarcio del velo del tempio, le tenebre su tutta la terra, il terremoto e l'aprirsi delle tombe e l'apparizione dei trapassati. "Ecco appena sul letto nefando/ Quell'Afflitto depose la fronte, / E un altissimo grido levando, / Il supremo sospiro mandò: / Gli uccisori esultanti sul monte/ Di Dio l'ira già grande minaccia; / Già dall'ardue vedette s'affaccia/ Quasi accenni: Tra poco verrò".
Ma sorprendentemente, proprio l'evocazione di quella sovrastante minaccia del Rex tremendae maiestatis fa scaturire nel poeta - dopo ancora una pausa propiziata dal verso - gli accenti della più commossa e confidente preghiera al "gran Padre", al Signore indulgente, perché, in virtù del sacrificio di Cristo, il Sangue scenda a purificare misericordiosamente quei medesimi che lo hanno follemente invocato. Anzi scenda su tutti: "Tutti errammo". "O gran Padre! per Lui che s'immola/ Cessi alfine quell'ira tremenda; / E de' ciechi l'insana parola/ Volgi in meglio, pietoso Signor./ Sì, quel Sangue sovr'essi discenda; / Ma sia pioggia di mite lavacro: / Tutti errammo; di tutti quel sacro-/ santo Sangue cancelli l'error". E pare di sentire in queste parole la confessione dello stesso Manzoni, l'eco della sua recente conversione e della gioiosa esperienza del perdono ottenuto.
Il tema dell'ira divina, ricorrente nell'inno, si trasforma in quello dell'"immensa pietà" (Ognissanti), mentre il tema ugualmente insistente del sangue che grida vendetta finisce in quello del sangue che deterge e redime.
Si riflette in questi versi la visione misericordiosa degli uomini, che volge verso tutti occhi di largo compatimento e indulgenza. È la pietà manzoniana, che, mentre aborrisce e detesta "il secolo atroce", si sente vicino al "tristo esiglio" dei buoni.
La contemplazione e l'orazione del poeta non è terminata. Ritta, "immota", accanto alla croce, egli rimira la madre del Crocifisso e anche da questo sguardo scaturisce una confidente, toccante, implorazione alla "regina de' mesti" - che le litanie mariane invocano come "Consolatrice degli afflitti" e "Regina dei martiri" - perché associ i nostri dolori ai santi patimenti del Figlio, a caparra e in attesa della sua visione gloriosa: "E tu, Madre, che immota vedesti/ Un tal Figlio morir sulla croce, / Per noi prega, o regina de' mesti, / Che il possiamo in sua gloria veder; / Che i dolori, onde il secolo atroce/ Fa de' boni più tristo l'esiglio, / Misti al santo patir del tuo Figlio/ Ci sian pegno d'eterno goder".
Osserva il cardinale Giovanni Colombo: "Il Manzoni in questo punto interpreta sant'Ambrogio, che, in un famoso commento, insiste sull'atteggiamento virile di Maria: la dolce e santa Madonna sta in piedi accanto alla croce. La "perdolente" non si abbandona a un desolato lacrimare: in silenzio ascolta gli insulti rivolti al divino agonizzante, e maternamente implora per tutti perdono e pace dal Padre misericordiosissimo".
(©L'Osservatore Romano - 5 aprile 2009)
I versi dell'inno
O tementi dell'ira ventura,
Cheti e gravi oggi al tempio moviamo,
Come gente che pensi a sventura,
Che improvviso s'intese annunziar.
Non s'aspetti di squilla il richiamo;
Nol concede il mestissimo rito:
Qual di donna che piange il marito,
È la veste del vedovo altar.
Cessan gl'inni e i misteri beati,
Tra cui scende, per mistica via,
Sotto l'ombra de' pani mutati,
L'ostia viva di pace e d'amor.
S'ode un carme: l'intento Isaia
Proferì questo sacro lamento,
In quel dì che un divino spavento
Gli affannava il fatidico cor.
Di chi parli, o Veggente di Giuda?
Chi è costui che, davanti all'Eterno
Spunterà come tallo da nuda
Terra, lunge da fonte vital?
Questo fiacco pasciuto di scherno
Che la faccia si copre d'un velo
Come fosse un percosso dal cielo,
Il novissimo d'ogni mortal?
Egli è il Giusto che i vili han trafitto,
Ma tacente, ma senza tenzone;
Egli è il Giusto; e di tutti il delitto
Il Signor sul suo capo versò.
Egli è il santo, il predetto Sansone
Che morendo francheggia Israele;
Che volente alla sposa infedele
La fortissima chioma lasciò.
Quei che siede sui cerchi divini,
E d'Adamo si fece figliolo,
Né sdegnò coi fratelli tapini
Il funesto retaggio partir:
Volle l'onte, e nell'anima il duolo,
E l'angosce di morte sentire,
E il terror che seconda il fallire,
Ei che mai non conobbe il fallir.
La repulsa al suo prego sommesso,
L'abbandono del Padre sostenne:
Oh spavento! l'orribile amplesso
D'un amico spergiuro soffrì.
Ma simìle quell'alma divenne
Alla notte dell'uomo omicida:
Di quel Sangue sol ode le grida,
E s'accorge che Sangue tradì.
Oh spavento! lo stuol de' beffardi
Baldo insulta a quel volto divino,
Ove intender non osan gli sguardi
Gl'incolpabili figli del ciel.
Come l'ebbro desidera il vino,
Nell'offese quell'odio s'irrita;
E al maggior dei delitti gl'incita
Del delitto la gioia crudel.
Ma chi fosse quel tacito reo,
Che davanti al suo seggio profano
Strascinava il protervo Giudeo,
Come vittima innanzi a l'altar,
Non lo seppe il superbo Romano;
Ma fe' stima il deliro potente,
Che giovasse col sangue innocente
La sua vil sicurtade comprar.
Su nel cielo in sua doglia raccolto
Giunse il suono d'un prego esecrato:
I celesti copersero il volto:
Disse Iddio: Qual chiedete sarà.
E quel Sangue dai padri imprecato
Sulla misera prole ancor cade,
Che mutata d'etade in etade
Scosso ancor dal suo capo non l'ha.
Ecco appena sul letto nefando
Quell'Afflitto depose la fronte,
E un altissimo grido levando,
Il supremo sospiro mandò:
Gli uccisori esultanti sul monte
Di Dio l'ira già grande minaccia;
Già dall'ardue vedette s'affaccia
Quasi accenni: Tra poco verrò.
O gran Padre! per Lui che s'immola
Cessi alfine quell'ira tremenda;
E de' ciechi l'insana parola
Volgi in meglio, pietoso Signor.
Sì, quel Sangue sovr'essi discenda;
Ma sia pioggia di mite lavacro:
Tutti errammo; di tutti quel sacro-
santo Sangue cancelli l'error.
E tu, Madre, che immota vedesti
Un tal Figlio morir sulla croce,
Per noi prega, o regina de' mesti,
Che il possiamo in sua gloria veder;
Che i dolori, onde il secolo atroce
Fa de' boni più tristo l'esiglio,
Misti al santo patir del tuo Figlio
Ci sian pegno d'eterno goder.
(©L'Osservatore Romano - 5 aprile 2009)
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