domenica 13 settembre 2009
Salvatore Gentile e Nicola Bux: Trattato sulla coscienza. Per chi l'ha perduta e chi ce l'ha da tempo in crisi (L'Occidentale)
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Un libro di Joseph Ratzinger
Trattato sulla coscienza. Per chi l'ha perduta e chi ce l'ha da tempo in crisi
di Salvatore Gentile e Nicola Bux
13 Settembre 2009
Il libro raccoglie alcuni bellissimi testi di Joseph Ratzinger precedenti l’elezione a pontefice.
Tali testi costituiscono un vero e proprio trattato sulla coscienza e sulle conseguenze che ne derivano per il rapporto tra la fede, la ragione e la politica.
Il più importante dei testi è comunque il primo, costituito dalla lectio magistralis all’Università di Siena, tenuto dal Cardinale Ratzinger nel 1991 e che opportunamente il curatore pone all’inizio e particolarmente in risalto.
La sua importanza deriva dal fatto che si esamina la celebre frase del cardinale Newman, il quale in una lettera al Duca di Norfolk scriveva: “Certamente se dovessi portare la religione in un brindisi dopo pranzo, cosa che non è molto indicato fare, allora io brinderei per il Papa. Ma prima per la coscienza e poi per il Papa” (p. 16).
Questa frase è stata adoperata spesso e volentieri come accettazione della concezione moderna della coscienza, intesa come indipendente dalla verità. Più precisamente è stata adoperata per sostenere che la verità non c’è, ma coincide con la coscienza della verità che ognuno ha, sempre limitata e progressiva.
L’allora Cardinale Joseph Ratzinger nega proprio questo, perché così pensando si dovrebbe dedurre che la coscienza erronea sia sempre giustificata fino a ritenere che la «coscienza è ciò che ci dispensa dalla verità».
Intendere così la coscienza significa negare la Creazione: «c’è nell’uomo la presenza del tutto inevitabile della verità» e se «la spia luminosa non si accende, ciò è dovuto ad un deliberato sottrarsi a quanto non desideriamo vedere» (p. 13).
È a questo punto che Ratzinger propone Socrate e Newman come «guide per la coscienza». La coscienza, per Newman è «la presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all’interno del soggetto stesso» (p.18). Essa è «la capacità di percepire, oltre il potere, anche il dovere e quindi di aprire la via al vero progresso» (p.22).
Prima di passare ad un’analisi più approfondita del testo, sembra opportuno un breve cenno ai rapporti che sussistono tra filosofia e religione e filosofia e morale.
A tal proposito conviene menzionare quanto afferma Michele Federico Sciacca: «scrive Biagio Pascal: “l’ultimo passo della ragione è di conoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano”. Filosofia e religione, quindi, non si escludono; autonome, rispondono alle stesse esigenze , ma è diverso il metodo, come il loro fondamento: la fede per la religione, la ricerca per la filosofia. Quel che per la fede è possesso, per la filosofia è aspirazione perenne» (La Filosofia nel suo sviluppo storico, Cremonese, Roma 1969 p. 8.)
Da quanto detto, Ratzinger fa conseguire che la coscienza si compone di due livelli, quello della anamnesi o memoria e quello della coscienza propriamente detta o sinderesi.
Tali livelli provengono dalla tradizione medievale che come è noto amava distinguerli ma nello stesso tempo correlarli. Infatti si può dire che gli squilibri siano venuti dall’aver trascurato sia la distinzione sia la correlazione. Si deve aggiungere che tale tradizione medievale cristiana attingeva adeguatamente sia al pensiero patristico, specialmente agostiniano e ancor prima a quello filosofico platonico.
A tal proposito si rimanda inevitabilmente alla lettura compiuta del saggio.
In conclusione, soprattutto considerando la fatica che l’uomo deve fare per affrontare in modo risolutivo la questione della verità, l’autore non può non ricorrere al ruolo della grazia divina quale illuminante strumento della coscienza proprio nel cammino di ricerca della verità.
* * *
La lezione magistrale ratzingeriana, riportata all’inizio del testo in oggetto a questo punto fa da naturale liaison con l’argomento della prima parte in cui si articola lo scritto in esame: “la dittatura del relativismo”. Per chi non è addentrato nel pensiero dell’allora cardinale e oggi Pontefice Romano – avvezzo a coniare espressioni originali poi affermatesi nel dire comune – questa espressione è stata lanciata alla vigilia della sua elezione al punto che è rimbalzata sui media perché molto efficace per descrivere la situazione culturale dell’uomo contemporaneo soprattutto nell’occidente.
Dopo un approfondimento circa la dignità della persona, l’autore passa in rassegna i valori religiosi e morali nella società pluralistica, soffermandosi in particolare sull’ambito politico, dove come è noto, soprattutto in tempi a noi più vicini, si è fatta strada la convinzione che relativizzando le rispettive identità e i valori in cui ciascuno crede ne trarrebbe giovamento la democrazia.
In sostanza si vorrebbe sostenere la tesi che per una vera libertà ed uguaglianza, di cui il termine democrazia è sinonimo, c’è bisogno di relativizzare la verità e i singoli aspetti che ad essa concorrono.
Non si può né si deve alleviare il lettore della necessaria fatica personale, tuttavia è opportuno almeno descrivere il percorso intrapreso nella prima parte.
Partendo dalla domanda se il relativismo sia necessario presupposto della democrazia, l’autore dimostra innanzitutto che codesta non può essere intesa in modo relativistico in quanto un fondamento di verità – di verità in senso morale – appare irrinunciabile per la stessa sopravvivenza della democrazia. A questo proposito per non entrare in conflitto con l’idea di tolleranza e con il relativismo democratico, oggi si parla più volentieri di “valori” che di “verità”" (p. 53).
Cogliendo in tal modo quanto si muove nell’opinione comune, l’autore passa a domandarsi quale sia il fine dello stato e nello stesso tempo passa in rassegna le soluzioni antitetiche al problema dei fondamenti della democrazia, ovvero: la concezione relativista e la concezione metafisica e cristiana.
La propensione per la seconda soluzione, come è ovvio, essendo partiti dal presupposto irrinunciabile del fondamento di verità, in particolare di quella morale, non può non confrontarsi con il problema dell’ “evidenza morale”: cosa che Ratzinger affronta rimandando alle lezioni di Bayle e di Popper, operando una sintesi e presentandone i risultati. Soprattutto egli invita a guardare oltre la terra, proprio per tutelare «lo Stato nei diritti che gli sono peculiari» (p. 75).
Lungi dall’essere un’evasione, questo atteggiamento, combatte qualsiasi assolutismo idolatrico perché pone dei limiti all’essere e all’agire del potere politico ma nello stesso tempo anche alla Chiesa perché l’aiuta a comprendere la celebre affermazione di Cristo: "date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio".
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La seconda parte vuole aiutare ad intraprendere il percorso di ricerca della verità. Il primo testo che viene presentato è una omelia nella quale Ratzinger sottolinea il coraggio della verità a partire dall’esempio di Tommaso d’Aquino. Un coraggio che prese le mosse dalle parole del vangelo di Giovanni: «consacrali nella verità. La tua parola è verità» (Gv 17,17), per dimostrare che: «la verità è persona. La verità è Cristo» (p. 82). Tale affermazione è il punto di arrivo del percorso di ricerca della verità come descritto nella Bibbia, dove l’uomo è chiamato innanzitutto ad ascoltare, in secondo luogo ad accettare ed infine a rispondere.
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Si colloca qui la terza ed ultima parte sulla evangelizzazione.
Il primo punto è quello della vocazione ecclesiale del teologo. Questo argomento attinge notevolmente al lavoro compiuto dall’autore quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede sfociato nella istruzione “Donum Veritatis” .
Si confrontano infatti la vocazione del teologo e quella dei pastori della Chiesa, chiamati rispettivamente a far progredire attraverso il lavoro teologico la conoscenza della verità rivelata e mediante l’esercizio del governo pastorale l’accettazione ubbidiente della medesima. Non si nasconde in alcun modo il contrasto e le difficoltà che tali ruoli spesso incontrano, ma Ratzinger, in linea con la tradizione cattolica, non teme di affrontare gli aspetti della collaborazione e del dissenso, riconducendoli nei loro rispettivi confini, in particolare richiamando il fatto che il Magistero debba assolvere alla funzione di custode della verità, un po’ come analogamente la legge deve essere custodita dagli organi che una società riconosce preposti alla difesa della sua autenticità, salvaguardandola da interpretazioni erronee. Questa analogia è particolarmente calzante se solo si riflette sul fatto che la rivelazione biblica va anche sotto il nome sintetico di “torah” termine ebraico tradotto con “legge”.
Dopo aver affrontato, tale ostacolo, l’autore passa a delineare struttura e metodo della “nuova evangelizzazione”, espressione cara a Giovanni Paolo II che vuole racchiudere l’esigenza di “ri-dire” il Vangelo alle società che lo avevano conosciuto, ma nel frattempo dimenticato. Così sono richiamati i suoi contenuti essenziali, in primis la conversione della vita: «La parola greca per convertirsi significa ripensare, mettere in questione il proprio e il comune modo di vivere; lasciar entrare Dio nei criteri della propria vita; non giudicare più semplicemente secondo le opinioni correnti. Convertirsi significa, di conseguenza, non vivere come vivono tutti, non fare come fanno tutti non sentirsi giustificati in azioni dubbiose, ambigue, malvagie, dal fatto che altri fanno lo stesso; cominciare a vedere la propria vita con gli occhi di Dio; cercare quindi il bene, anche se è scomodo; non puntare sul giudizio dei molti, degli uomini, ma sul giudizio di Dio. Cercare quindi un nuovo stile di vita, una vita nuova» (p.130). Si badi però che la conversione non è un atto individuale in quanto nel momento in cui si compie, «l’io si apre di nuovo al tu, in tutta la sua profondità, e così nasce un nuovo noi…una conversione puramente individuale non ha consistenza» (p. 131).
Questo è solo il primo dei contenuti essenziali della nuova evangelizzazione, senza del quale non è dato comprendere gli altri: il Regno di Dio, Gesù Cristo, la vita eterna.
La terza parte si chiude con un saggio tratto dall’incontro dei vescovi del National Catholic Bioethics Center che affronta il rapporto tra vescovi, teologi e morale.
Joseph Ratzinger indica le quattro sorgenti della conoscenza morale e le loro problematiche, ossia: la riduzione all’ “oggettività”, il rapporto tra soggettività e coscienza, la volontà di Dio e la sua rivelazione, la comunità quale sorgente della morale. L’autore naturalmente per ciascuno di essi non manca di delucidarne gli aspetti fondanti e di criticarne le riduzioni.
Dopo l’affronto di un secondo problema fondamentale, quello della coscienza e della sua oggettività, nel quale in maniera estremamente efficace, descrive cosa sia la coscienza e come essa parli all’uomo, nonché la relazione in un certo senso essenziale tra natura, ragione e oggettività, la terza parte del libro si chiude con alcune applicazioni del precedente saggio sulla vocazione ecclesiale del teologo.
In conclusione si rivela quanto mai intelligente la scelta dell’editore Cantagalli di pubblicare questo libro sotto il titolo newmaniano dell’Elogio della Coscienza, considerata la crisi di essa non solo nelle società ma anche in non pochi ambiti della Chiesa. Non resta che auspicare un ampio numero di lettori.
JOSEPH RATZINGER / BENEDETTO XVI, L’elogio della coscienza. La verità interroga il cuore, Cantagalli, 2009 pp. 176.
© Copyright L'Occidentale, 13 settembre 2009
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