sabato 11 aprile 2009

Il Papa alla Via Crucis: Gesù spezza la solitudine delle nostre lacrime (Mazza)


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«Preghiamo con tutti i sofferenti d’Abruzzo»

Il Papa alla Via Crucis: Gesù spezza la solitudine delle nostre lacrime

DA ROMA SALVATORE MAZZA

La sua «fine ignominiosa» avrebbe do­vuto «segnare il trionfo definitivo del­l’odio e della morte sull’amore e sulla vi­ta ». Ma «così non fu!». È vero, «sul Golgota si ergeva la Croce da cui pendeva un uomo or­mai morto», e «nel più umiliante dei modi». Ma «davvero quest’uomo era figlio di Dio».
Le parole, riferite da Marco, del centurione che sul Golgota vede spirare Gesù, sono sta­te ieri la traccia da cui Benedetto XVI ha sno­dato la riflessione proposta ai fedeli al termi­ne della tradizionale Via Crucis al Colosseo, che ha chiuso i riti del Venerdì Santo con un pensiero particolare alle vittime del sisma in Abruzzo.
«Preghiamo – ha detto il Papa – con tutti i sofferenti della terra terremotata dell’A­quila, preghiamo perché anche a loro appaia la luce del Risorto».
Con le migliaia di fedeli che non hanno vo­luto mancare questo appuntamento, e con tutti gli altri che hanno potuto seguire l’e­vento in mondovisione, «abbiamo rivissuto – ha detto il Pontefice nel discorso finale – la vicenda tragica di un Uomo unico nella sto­ria di tutti i tempi, che ha cambiato il mon­do non uccidendo gli altri, ma lasciandosi uc­cidere appeso ad una croce».
Lungo duemi­la anni «schiere di uomini e donne si sono la­sciati affascinare da questo mistero – ha ag­giunto – e hanno seguito Lui, facendo a loro volta, come Lui e grazie al suo aiuto, della pro­pria vita un dono ai fratelli. Sono i santi ed i martiri, molti dei quali restano a noi scono­sciuti. Anche in questo nostro tempo, quan­te persone, nel silenzio della loro quotidiana esistenza, uniscono i loro patimenti a quelli del Crocifisso e diventano apostoli di un ve­ro rinnovamento spirituale e sociale».
Così, nella notte illuminata dalle fiaccole e dai padelloni romani, papa Ratzinger ha e­sortato a soffermarsi e «a contemplare il Suo volto sfigurato: è il volto dell’Uomo dei dolo­ri, che si è fatto carico di tutte le nostre an­gosce mortali. Il suo volto si riflette in quello di ogni persona umiliata ed offesa, ammala­ta e sofferente, sola, abbandonata e disprez­zata. Versando il suo sangue, Egli ci ha ri­scattati dalla schiavitù della morte, ha spez­zato la solitudine delle nostre lacrime, è en­trato in ogni nostra pena e in ogni nostro af­fanno».
Benedetto XVI ha seguito il rito dalla terraz­za del Palatino affacciata sull’Anfiteatro Fla­vio, aprendo alle 21,15 il rito con la lettura di un Inno alla speranza' col quale «vogliamo dire a noi stessi – ha affermato – che tutto non è perduto nei momenti di difficoltà. Quando le cattive notizie si susseguono, siamo op­pressi dall’ansia.
Quando la disgrazia ci col­pisce più da vicino, ci scoraggiamo. Quando una calamità fa di noi le sue vittime, la fidu­cia in noi stessi è del tutto scossa e la nostra fede è messa alla prova». Certo, ha aggiunto, «in tempi difficili non vediamo nessun mo- tivo per credere e sperare.
Eppure crediamo. Eppure speriamo. Questo può succedere nel­la vita di ognuno di noi. Questo succede nel più vasto contesto sociale». E per questo «rin­noviamo e rafforziamo la nostra fede e con­tinuiamo a confidare nel Signore poiché egli salva coloro che hanno perduto ogni spe­ranza. E questa speranza alla fine non delu­de ». Solo in Cristo infatti «comprendiamo il pieno significato della sofferenza» e il «suo valore redentivo».
E in questo senso «sotto la superficie di calamità naturali, guerre, rivo­luzioni e conflitti di ogni genere, vi è una pre­senza silenziosa, vi è un’azione divina mira­ta perché dal male nasca il bene» sia nei pic­coli eventi quotidiani che nei «grandi acca­dimenti della storia». Subito dopo è iniziata la via della croce, scan­dita quest’anno dalle meditazioni scritte da monsignor Thomas Menamparampil, arci­vescovo della diocesi indiana di Guwahati, centrate su 'tutte le sofferenze del mondo'. A portare la croce lungo le quattordici sta­zioni, assieme al cardinale vicario di Roma Agostino Vallini, sono stati una ragazza e due suore dell’India, due giovani del Burkina Fa­so, due frati della Custodia di Terra Santa, u­na famiglia romana, un giovane disabile, un malato. Un’ascesa culminata con la conse­gna della croce nelle mani di Benedetto XVI e con la sua riflessione, risuonata nel silen­zio delle pietre del Palatino. A ricordarci che «versando il suo sangue, Egli ci ha riscattati dalla schiavitù della morte, ha spezzato la so­litudine delle nostre lacrime, è entrato in o­gni nostra pena ed in ogni nostro affanno».

© Copyright Avvenire, 11 aprile 2009

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