mercoledì 6 maggio 2009

Una Chiesa per noi ebrei. Intervista a padre Jaeger (Casadei)


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Una Chiesa per noi ebrei

Alla vigilia del viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa il francescano israeliano David Jaeger auspica la creazione di «una diocesi capace di parlare con il nostro Stato e la nostra società nella nostra stessa lingua»

di Rodolfo Casadei

Una Chiesa cattolica israeliana così come esistono la Chiesa cattolica italiana, francese, tedesca, indiana, nigeriana, eccetera. Una diocesi per i cristiani di espressione ebraica che vivono in Israele. È questo l’auspicio più sentito di padre David Jaeger, sacerdote francescano, israeliano di famiglia ebraica, alla vigilia del viaggio in Terra Santa di Benedetto XVI.

«La Chiesa cattolica ha una presenza specifica in ogni nazione, persino in Mongolia c’è una struttura locale di Chiesa propria per la Mongolia. L’unica nazione libera che io conosca dove non c’è una Chiesa cattolica della nazione e della sua lingua è Israele. Sotto il pontificato di Giovanni Paolo II sono stati fatti passi in questa direzione, ora spero che il cammino verrà ripreso. Ma naturalmente mi rimetto rispettosamente e obbedientemente alle decisioni di chi incarna l’autorità».

Umile e audace nella stessa proposizione, David Jaeger non è uno qualunque. Le istituzioni ecclesiali hanno fatto e tuttora fanno ricorso alla sua brillante intelligenza: è stato portavoce della Custodia di Terra Santa, membro della commissione per le relazioni diplomatiche fra la Santa Sede e Israele (1994) e fra la Santa Sede e l’Autorità nazionale palestinese (2000), mediatore nella crisi seguita all’occupazione della Basilica della natività a Betlemme nel 2002 ed è docente di diritto canonico del Pontificio ateneo antoniano di Roma. La questione che solleva è di grande portata.

Padre David Jaeger, davvero la prima cosa che il piccolo gregge dei cristiani di espressione ebraica si aspetta dalla visita del Papa è l’istituzione di una circoscrizione ecclesiastica tutta per loro?

Prima di tutto io sono grato, come tutti i cristiani, perché con questo viaggio il Papa richiama di nuovo l’attenzione sull’importanza della Terra Santa nell’evento della nostra redenzione. In secondo luogo come sacerdote cattolico israeliano di espressione ebraica, israeliano di nascita, io spero sempre che il Santo Padre voglia riprendere il discorso avviato dal suo amato predecessore Giovanni Paolo II di provvedere alla guida episcopale dei cristiani cattolici di espressione ebraica di Israele. Giovanni Paolo II fece un primo passo verso la creazione di un soggetto ecclesiale proprio nominando un ausiliare con facoltà speciali, il benedettino Jean-Baptiste Gourion. Poi però questo monaco morì un paio di mesi dopo che anche il Papa ci aveva lasciati, e il sostituto non è stato mai nominato. Da allora vive in me la speranza che questo soggetto peculiare veda la luce comunque. Quando Benedetto XVI verrà qui in Israele percepirà fisicamente la presenza di più Chiese locali di vari riti, tutte di espressione araba. E in questo contesto avvertirà l’assenza di una Chiesa, di una circoscrizione ecclesiastica, di una diocesi per i cristiani di espressione ebraica.

Attualmente per i cristiani di espressione ebraica c’è un vicariato.

Un vicariato non è un’istituzione autonoma. C’è semplicemente un sacerdote che il patriarca latino nomina come suo vicario per i cattolici di espressione ebraica. Una Chiesa locale non è un vicariato, la sede locale è diocesi. Sono cose totalmente diverse. La verità è che tutte le benemerite circoscrizioni ecclesiastiche attualmente esistenti in Israele sono nell’ambito della minoranza nazionale palestinese. Per quanto riguarda la maggioranza della società israeliana, manca il soggetto ecclesiale proprio che possa interloquire con la nazione nella sua lingua e dall’interno della sua cultura. Non stiamo chiedendo un privilegio, questa è un’esigenza del Concilio Vaticano II: il Concilio ha sottolineato che fra i compiti della Chiesa c’è la plantatio ecclesiae, cioè l’“impiantazione” della Chiesa in ogni luogo. La Chiesa deve essere impiantata nel suolo di ogni nazione, di ogni popolo, di ogni cultura, e qui questo non è ancora avvenuto. Tuttora non c’è una Chiesa locale particolare con tutte le sue strutture, anche solo di modesta entità. E invece dovrebbe esserci, non per ragioni organizzative o di prestigio, ma perché altrimenti manca l’interlocutore ecclesiale di questa società, di questa nazione. In Israele, come in tutti i paesi, si dibattono i temi della vita, dell’aborto, del lavoro, dell’economia. In ogni nazione la Chiesa, anche quando è piccola minoranza, dice la sua, rende testimonianza. Dà rispettosamente il suo contributo al dialogo nazionale. Qui in Israele non accade nulla del genere. Perché è chiaro che la Chiesa così come esiste è rivolta alla cura della minoranza nazionale arabo-palestinese. Questo è necessario ed è lodevole. Ma è come se in Italia le uniche Chiese cattoliche organizzate in diocesi fossero quelle dell’Alto Adige per la popolazione di lingua tedesca! Aggiungo che l’esistenza canonica di una Chiesa per i cattolici di espressione ebraica è essenziale anche per il dialogo religioso. Per il progresso del dialogo cristiano-ebraico è fondamentale che ci sia una Chiesa che capisca la parte ebraica dall’interno della propria stessa cultura condivisa. Come in Inghilterra la Chiesa cattolica inglese è essenziale per il dialogo con la Chiesa anglicana.

A questo punto dobbiamo fare un passo indietro e, anche per anticipare probabili obiezioni, precisare chi sono i cristiani di espressione ebraica di cui stiamo parlando. Un comunicato d’agenzia la settimana scorsa spiegava che sono organizzati in quattro comunità. È a questi che ci riferiamo?

No, lì si tratta di parrocchie o cappellanie erette dalla diocesi latina, che associano una piccola parte dei credenti. Il pubblico al quale dirigersi è molto più vasto, come sottinteso nella locuzione “cristiano di espressione ebraica”. Si tratta dei cristiani che non sono di lingua araba. In Israele ci sono due comunità nazionali: gli arabo-palestinesi e gli ebrei. Ogni israeliano vive o nell’una o nell’altra cultura. Chi non è di espressione araba vive nell’ambiente ebraico. Può essere di ascendenza ebraica, può essere di famiglia mista, può essere un semplice immigrato straniero, non ebreo e non arabo, ma che vive nell’ambiente ebraico. Questo è il pubblico che io definirei dei cattolici di espressione ebraica: non bisogna limitarlo al piccolo gruppo scelto a cui lei accenna.

Quanti sarebbero complessivamente?

L’ultima statistica del governo parla di 119 mila cristiani di espressione araba in Israele, che sono arabi palestinesi, e di altri 27 mila cristiani non arabi. È un modo per dire che sono di espressione ebraica, che vivono nell’ambiente ebraico anche se non sono tutti di ascendenza ebraica.

Questo è un punto importante da chiarire: lei non sta chiedendo di istituzionalizzare una Chiesa riservata agli ebrei israeliani convertiti.

No, la Chiesa non è una comunità etnica, l’etnicità di per sé non è importante. L’importante è l’espressione: il mezzo con il quale la Chiesa raggiunge le persone è la lingua. Dei 27 mila suddetti (che forse sono 30 mila) alcune centinaia frequentano i benemeriti centri di cura pastorale cui lei accennava prima. Però il pubblico che il nuovo soggetto ecclesiale dovrebbe raggiungere sono tutti questi 30 mila, e non solo. Proprio pochi giorni fa, per l’anniversario dell’indipendenza, il governo ha reso pubblica una statistica di 320 mila cittadini israeliani che non sono né ebrei né arabi: si tratta in gran parte di immigrati dall’ex Unione Sovietica e dei loro figli. La maggioranza di loro non ha religione, non sono nemmeno battezzati, però alcune decine di migliaia di loro sono cristiani, e questi sarebbero certamente interlocutori della Chiesa cattolica di espressione ebraica. Perché il problema non è quello di fornire i sacramenti e la Santa Messa nella lingua ebraica, cosa che possono fare anche i cappellani del patriarcato, ma di costruire un soggetto ecclesiale nella cultura di qui, di questa nazione. Posso dire con certezza che Giovanni Paolo II ha studiato il problema in profondità, e ha fatto un primo passo: l’istituzione di un vescovo ausiliare con facoltà speciali che è quasi un vescovo diocesano, perché ha ricevuto la sua missione direttamente dalla Santa Sede. Io nel mio piccolo di sacerdote di espressione ebraica formulo a titolo personalissimo l’auspicio che quell’iniziativa sia ripresa e portata a compimento. Tutto dipende dal Santo Padre. Mi rimetto interamente alla sua autorità e al suo giudizio superiore.

Insomma, non si tratta solo di istituire una diocesi in più, ma di creare una nuova Chiesa particolare.

La Chiesa non dialoga mai con una nazione solo dall’esterno. Adesso la situazione è questa: per un israeliano dire cristiano vuol sempre dire straniero. E subito si alzano le difese contro tutto quello che è percepito come tale, anche quando si tratta di un cittadino dello stesso paese, con lo stesso passaporto, ma di altra cultura, di altra lingua, di altra sensibilità. Questo non è normale nella Chiesa.

Come verrebbe accolta una novità come questa dagli altri soggetti che compongono la realtà di Israele, gli ebrei praticanti, i cristiani di espressione araba, i non credenti israeliani?

Prima di tutto bisogna dire che si tratterebbe di un fatto interno della Chiesa, e la Chiesa ha il diritto di organizzarsi come crede. Nello Stato di Israele esiste la piena libertà religiosa e alle Chiese è riconosciuta la libertà di organizzarsi come vogliono. In secondo luogo, il modo in cui verrebbe accolta la novità dipende interamente dal modo in cui verrebbe realizzata e presentata. Se si realizza e si presenta nei modi che ho esposto, nessuno può pensarla altro che positivissima. Perché allora i cristiani arabi avranno in noi degli avvocati presso la maggioranza nazionale. E perché gli ebrei potranno avere più fiducia che la loro sensibilità venga fatta presente e che venga compresa dalla Chiesa universale. Non dico che vengano comprese le loro decisioni politiche, ma la loro sensibilità e le loro preoccupazioni. Il dialogo per la pace avrebbe grandi vantaggi: se la Chiesa fosse presente su tutti e due i fronti del conflitto, si creerebbe una situazione migliore, la Chiesa non potrebbe più essere confusa come una delle parti in conflitto e si chiarirebbe che è un soggetto interessato esclusivamente alla pace e alla giustizia, non a favorire l’uno o l’altro gruppo nazionale.

© Copyright Tempi, 4 maggio 2009

1 commento:

Anonimo ha detto...

Una chiesa ebraica? Sarebbe la fine del cattolicesimo!!!
Che Dio non lo permetta!