martedì 5 maggio 2009
Venerdì il Papa sarà ad Amman. Re Abdallah di Giordania: «Ci darà speranza» (Ferrari)
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Venerdì il Papa sarà ad Amman. Il sovrano: «Ci darà speranza»
Antonio Ferrari
AMMAN
«Sarò pellegrino di pace».
Il messaggio del Papa ai popoli della Terrasanta è stato accolto con trepidazione nell'ospitale Giordania, dove venerdì Benedetto XVI comincerà il viaggio più delicato e difficile del suo pontificato.
Lo comincerà in un clima di buona volontà e di concordia, quindi in discesa.
I quattro giorni (esattamente quanti ne riserverà, assieme, a Israele e Palestina) che il capo della Chiesa cattolica trascorrerà nel primo Paese arabo che lo accoglie, sono ovviamente carichi di aspettative, che fanno eco alle parole del Pontefice: «Riconciliazione, speranza, pace».
Ma il re Abdallah, con regale discrezione, non parla di aspettative.
Nell'intervista al Corriere della Sera, prima della partenza per l'Egitto e la Germania, dice: «Sua Santità è nostro ospite, ed essendo la Giordania ad ospitarlo non formuliamo aspettative, se non l'auspicio che il viaggio spirituale abbia pieno successo».
Maestà, lei ha sempre detto che il suo regno è terra di convivenza e di tolleranza. È il simbolo stesso della fratellanza tra musulmani e cristiani.
«È da sempre il nostro obiettivo, ed è il nostro costante impegno. Accogliere il Pontefice, come facemmo nel 2000 con il suo predecessore Giovanni Paolo II, è per noi un grande onore e motivo di orgoglio. Domenica, per la messa del Papa, vi saranno non soltanto i cristiani giordani, ma di tutta la regione. Verranno, ci auguriamo, dal Libano, dalla Siria, dall'Iraq, dall'Egitto e, speriamo, dalla Cisgiordania. Sarà un momento di grande intensità spirituale. E sarà un segno dell'impegno comune di avvicinare sempre più le tre grandi religioni monoteiste, che hanno le loro radici in questa terra. Come le ho detto, il Papa è nostro ospite, e non coltiviamo aspettative. Però le parole che dirà saranno uno stimolo, rivolto a tutti noi, per spronarci a camminare in fretta verso la pace».
La pace tra i popoli o la pace dei leader?
«Negli Stati Uniti e in Europa si avverte quanto sentiamo anche noi. Evitare conflitti religiosi è fondamentale. La Giordania ha sempre sostenuto che chiese, moschee e sinagoghe devono creare un 'mondo comune', hanno insomma la grande responsabilità di evitare conflitti tra le religioni e i popoli. Vede, in Israele la gente non crede alla soluzione dei due Stati perché pensa che i vertici politici non ci credano. In Palestina si diffonde la convinzione che tanto quella soluzione non vedrà mai la luce. Eppure, l'85 per cento degli israeliani e dei palestinesi sostengono la necessità del negoziato. Sappiamo tutti che soltanto la soluzione dei due Stati, Israele e Palestina che vivano l'uno accanto all'altro, può portare alla pace. Noi abbiamo molti e seri motivi di preoccupazione. Quanto sta facendo Israele con gli insediamenti e con le proprietà musulmane e cristiane di Gerusalemme non è per nulla confortante. È grave e pericoloso ». E allora che cosa bisogna fare? «Ci vogliono coraggio, determinazione e lungimiranza. È il momento che i leader diano davvero un'opportunità alla pace».
Benedetto XVI arriva, quindi, in un momento particolare. C'è una nuova amministrazione americana e nell'intera regione si colgono aliti di speranza perché si possa giungere alla ripresa dei negoziati.
«Ho incontrato il presidente Obama e il segretario di Stato Hillary Clinton. Gli Stati Uniti hanno ben chiare due cose: che è negli interessi nazionali americani giungere con urgenza alla soluzione dei due Stati; e che i passi si compiano in un quadro complessivo, quindi con il dialogo tra Israele e Libano, Israele e Siria, Israele e gli altri Paesi musulmani. Il presidente Obama comprende benissimo il contesto regionale. Se non capitalizziamo questi elementi, i rischi si moltiplicheranno. È impossibile cominciare a negoziare nel vuoto».
Maestà, abbiamo notato che Barack Obama ha fatto tesoro del vostro incontro. È come se avesse attinto alla sua esperienza e saggezza. Infatti, le dichiarazioni più importanti sul Medio Oriente le ha fatte dopo averla ricevuta alla Casa Bianca.
«Abbiamo avuto una calorosa accoglienza, e con il presidente Obama è subito cominciato un faccia a faccia senza limiti di tempo. Lo avevo già incontrato e ogni volta colgo le coordinate dal suo convinto impegno ad arrivare in fretta ad una soluzione. È un leader che emana speranza. Adesso incontrerà il presidente palestinese, il presidente egiziano e il primo ministro israeliano. Sono chiari sia la delicatezza del momento, sia la necessità di non perdere tempo. Alla fine, e soprattutto dopo l'incontro con Netaniahu, gli Stati Uniti spiegheranno la loro strategia».
Che cosa si aspetta? La soluzione dei due Stati e l'accettazione del piano saudita del 2002, che prevede la normalizzazione dei rapporti con Israele di 57 Paesi musulmani in cambio del ritiro da tutti i territori occupati nel 1967?
«Non intendo suggerire al presidente Obama cosa dovrebbe dire. Certo, la possibilità di trovare una soluzione complessiva è ben visibile. Ma entro il 2009 dovrebbe essere fissato l'obiettivo dei due Stati. Ne abbiamo discusso con gli Usa, ne continuiamo a discutere con i partner europei, che condividono le nostre speranze e i nostri timori. Se nel biennio 2009-2010 nulla accadrà, allora il rischio che i nemici della pace, in questa regione, provochino altre tragedie diventerà altissimo».
Se tutto andasse bene, vede una data per realizzare compiutamente la pace?
«Sappiamo bene che indicare date può essere pericoloso. Ma la volontà di raggiungere l'obiettivo deve essere chiara da subito. Senza malintesi».
© Copyright Corriere della sera, 5 maggio 2009 consultabile online anche qui.
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