lunedì 18 maggio 2009
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La speranza e i muri della storia
Fabio Zavattaro
Visita pastorale ai fedeli che vivono in Terra Santa, un servizio all’unità dei cristiani, al dialogo con ebrei e musulmani, e alla costruzione della pace. Il viaggio di Benedetto XVI in Giordania e Israele, si è mosso attorno a questi elementi.
È il Papa stesso a dirli al Regina Cæli, quasi completando il suo pensiero manifestato nei 28 discorsi pronunciati tra Amman, Gerusalemme, Betlemme, Nazareth e Tel Aviv.
Si è definito pellegrino come milioni di pellegrini che hanno attraversato quelle terre, che hanno visitato i luoghi di Gesù, che hanno conosciuto le difficoltà dei popoli che abitano la regione. È un viaggio che segna ancor di più la volontà di pace, perché la Terra Santa, ricorda, “simbolo dell’amore di Dio per il suo popolo e per l’intera umanità, è anche simbolo della libertà e della pace che Dio vuole per tutti i suoi figli”.
Libertà e pace, due parole che sono difficili da coniugare nella regione. La pace soprattutto, che non è solo il silenzio delle armi. E la storia, afferma ancora il Papa, “la storia di ieri e di oggi, mostra che proprio quella terra è diventata anche simbolo del contrario, cioè di divisioni e di conflitti interminabili tra fratelli”.
Come quel messaggio lasciato tra le fessure delle pietre del Muro Occidentale, Benedetto XVI si pone tra le fessure di una storia che i due popoli ancora non hanno unito. È una storia fatta di divisioni, discriminazioni, sospetti, paure, violenze e terrorismo. E non è facile accantonare tutto questo in un dialogo che dovrà vedere due popoli in due Stati liberi e sovrani, in sicurezza.
Ricorda che sono i luoghi di Abramo, il padre comune, e di Cristo, il cui sepolcro vuoto è il luogo della speranza. Un microcosmo, afferma al Regina Cæli, “che riassume il faticoso cammino di Dio con l’umanità”.
Un cammino che in quel muro – una delle “immagini più tristi” del viaggio – ha forse la manifestazione più evidente di quanto sia difficile vivere insieme in quelle latitudini. Ma che, nello stesso tempo, non può non ascoltare le tante voci che chiedono la fine delle divisioni e dell’odio. “Ci sono grandissime difficoltà: lo sappiamo, lo abbiamo visto e sentito”, ha detto ai giornalisti in aereo tornando a Roma. “Ma ho anche visto che c’è un profondo desiderio di pace da parte di tutti. Le difficoltà sono più visibili e non dobbiamo nasconderle: ci sono e devono essere chiarite. Ma non è così visibile il desiderio comune della pace, della fraternità”. Questo desiderio, però, c’è e tutti vanno incoraggiati “in questa volontà per trovare le soluzioni certamente non facili a queste difficoltà”.
Il pellegrino Benedetto ricorda anche che il suo viaggio ha mostrato quanto desiderio c’è di autentico dialogo interreligioso. Il pellegrinaggio è elemento essenziale non solo del cristianesimo, ma anche dell’ebraismo e dell’islam, è “immagine della nostra esistenza”, è cammino, per i cristiani, verso la Gerusalemme celeste. Questa disponibilità, dunque, al dialogo interreligioso, all’incontro e alla collaborazione tra le religioni è elemento che fa ben sperare per un futuro di pace e riconciliazione. Non è un caso che il patriarca dei latini, Fouad Twal, sottolinei che il viaggio del Papa ha dato “convinzione e coraggio”; non ci aspettiamo miracoli “ma dobbiamo dare al Signore il tempo per raccogliere quanto è stato seminato”. Ancora, pensando ai cristiani, sempre più minoranza in queste terre, e sottolineando le parole del Papa a non lasciare la Terra Santa, Fouad Twal dice: “Ci ha chiesto di rimanere e di resistere nonostante la complessità della situazione, perché questi sono anche i luoghi della croce. Si tratta di una sfida che va accettata anche in condizioni drammatiche.
Il Papa stesso ha potuto vedere con i propri occhi, toccare con le proprie mani le difficoltà che noi viviamo ogni giorno. Questo ce lo fa sentire più vicino, ci permette di sentire più vicina la Chiesa universale”.
Se si può, dunque, sintetizzare in poche parole il viaggio del Papa, certo va messa in primo piano quella sua espressione di amico di israeliani e palestinesi; proprio per questo dice: “Nessun amico degli israeliani e dei palestinesi può fare a meno di notare con tristezza la costante tensione fra i vostri due popoli. Nessun amico può fare a meno di piangere per la sofferenza e la perdita di vite che entrambi i popoli hanno subito negli ultimi sei decenni”. Lasciando Israele nel discorso di congedo, presente il capo dello Stato Shimon Peres e il premier Binyamin Netanyauh, pronuncia quattro “mai più”, che resteranno come monito e impegno per popoli e politici: “Mai più spargimento di sangue, mai più combattimenti, mai più terrorismo, mai più guerre”.
Come non ricordare, inoltre, quel suo pregare per le vittime della Shoah; dopo Auschwitz, dopo il Mausoleo Yad Vashem, papa Benedetto parla dell’Olocausto come di “capitolo orribile della storia” che non deve essere “mai dimenticato o negato.
Al contrario, quei tristi ricordi dovrebbero rafforzare la nostra determinazione ad avvicinarci gli uni agli altri come rami dello stesso albero di olivo, nutriti dalle stesse radici e uniti dall’amore fraterno”.
Infine il muro. Si trasforma in preghiera quella tristezza per la divisione; preghiera perché i due popoli, israeliani e palestinesi, “possano vivere insieme in pace e armonia, senza la necessità di strumenti di sicurezza e di separazione, ma anzi rispettandosi reciprocamente e avendo fiducia l’uno nell’altro, e rinunciando a tutte le forme di violenza e di aggressione”.
Messaggi chiari, forse difficili da accettare dopo anni di contrapposizioni, di ferite ancora difficili da sanare, di odii e di terrorismo. Ma è solo insieme che si può costruire il futuro della Terra Santa. Ed è solo togliendo agli estremismi politici, prima ancora che religiosi, il terreno su cui si fa leva per alimentare l’odio verso il “nemico”, che si può scrivere una pagina nuova della storia di Israele e del futuro Stato Palestinese.
© Copyright Sir
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