sabato 31 ottobre 2009
Filosofia e poesia nel quarto canto del "Paradiso" di Dante: Beatrice il teologo (Inos Biffi)
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Filosofia e poesia nel quarto canto del "Paradiso"
Beatrice il teologo
di Inos Biffi
Dopo l'incanto di fronte alla figura di Piccarda e la dolcezza della lenta melodia dell'"Ave Maria", Dante si ritrova la mente assillata da alcune incalzanti e ardue questioni: tutto il quarto canto del Paradiso è impegnato alla loro esposizione e soluzione, rivelando nel poeta tutta la competenza e la sottigliezza del filosofo e del teologo.
Nel Convito (ii, xii, 7) Dante ricorda di essere andato "là dove (la filosofia) si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti", ossia presso i domenicani di Santa Maria Novella, o i francescani a Santa Croce, o gli agostiniani a Santo Spirito.
Si tratta, in questo canto iv del Paradiso, di versi prevalentemente didascalici, "astratti" e non poco ardui, inseriti quasi come un intermezzo dottrinale nel consueto svolgimento narrativo e lirico del poema; anche se l'ispirazione e l'immagine non si spengono e continuano ad animare le distinzioni proprie di una lezione "scolastica".
Il poeta è assalito da due dubbi: non li esprime, ma si possono chiaramente leggere sul suo volto - "'l mio disir dipinto / m'era nel viso" (vv. 10-11) - e intuire dal suo silenzio. Egli non sa decidere quale manifestare per primo. E, per descrivere la propria condizione, in cui aveva la libertà imprigionata, e perciò non meritevole di rimprovero, ricorre a tre esempi.
Anzitutto, si paragona a chi si trovi "intra due cibi", a identica distanza e attraenti allo stesso modo, e quindi destinato a morire di fame per l'impossibilità di scegliere. Con una "figura rovesciata (dal soggetto all'oggetto delle brame)", come sottolinea Chiavacci Leonardi, Dante ricorre a un secondo esempio, equiparandosi a un agnello che, "intra due brame / di fieri lupi" (vv. 4-5), assalito da uno stesso timore, non saprebbe da quale dei due fuggire. A dire la sua irresolutezza nel terzo esempio il poeta si assimila a un cane fermo e indeciso tra due daini: "un cane intra due dame" (v. 6).
Ma ecco intervenire Beatrice a leggere nell'intimo di Dante, a interpretarne i segreti desideri e a scioglierne le questioni inespresse, che con uguale stimolo pulsano in lui e ne angustiano lo spirito. Sarà lei stessa a enunciarli.
Il primo dubbio, dal quale l'animo del poeta - appassionato di giustizia - è tormentato, riguarda la condizione di Costanza: se si mantenne integra e inalterata la sua volontà di consacrazione; "se 'l buon voler dura" (v. 19) - infatti, "non fu dal vel del cor già mai disciolta" (Paradiso, iii, 117) - come mai, per colpa di un altro, la misura del suo merito si trovò ridotta?
Il secondo dubbio attiene alla destinazione delle anime dopo la morte: parrebbe che esse ritornino alle stelle, da cui sono discese sulla terra a incarnarsi, secondo "la sentenza di Platone" della loro preesistenza, che è però in contrasto con la fede cristiana, per la quale le anime non preesistono, ma sono immediatamente create da Dio di volta in volta.
Beatrice incomincia a risolvere il secondo e più insidioso quesito che inquieta Dante. Tutti, essa spiega - dal Serafino che più si immerge in Dio ("s'india", v. 28), ai più grandi santi (siano Mosè, o Samuele, o i due Giovanni e la stessa Vergine), agli spiriti incontrati nel cielo più basso della Luna - hanno per sempre i loro seggi nello stesso cielo, l'Empireo, in un pieno appagamento, anche se differisce la gradazione della loro beatitudine a secondo dell'esperienza che, secondo i loro meriti, essi fanno dello Spirito di amore, che pure tutti li pervade.
Citiamo la terzina che Chiavacci Leonardi definisce dall'"andamento glorioso e disteso": "tutti fanno bello il primo giro, / e differentemente han dolce vita / per sentir più e men l'etterno spiro" (vv. 34-36). Dante, particolarmente, in questo canto sa soffondere di poesia anche le questioni scolastiche e i ragionamenti più sottili, nei quali era perfettamente esperto.
Spiega Beatrice: i beati incontrati appena sopra, in realtà, dimorano, come tutti gli altri, nel "primo giro". Essi appaiono come figure sensibili nel cielo lunare, che, tra tutti i cieli, è il meno elevato, a mostrare che nella sfera spirituale (l'Empireo) essi si trovano nella sfera meno elevata, "che ha men salita" (v. 39). D'altra parte, è proprio della conoscenza umana partire dal mondo sensibile e "raffigurato", per rappresentare e comprendere il mondo invisibile. Il nostro "ingegno", scrive, "solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d'intelletto degno" (vv. 41-42). Dante traduce elegantemente in questi versi la sentenza scolastica: "Nulla si trova nell'intelletto, che prima non abbia dimorato nelle realtà sensibili". Del resto, prosegue Beatrice, "avendo inizio dai sensi ogni nostra conoscenza", anche nella Scrittura le realtà divine e spirituali, così come il mondo angelico, vengono raffigurate mediante metafore e immagini corporali.
Ed è la differenza rispetto alla dottrina del dialogo platonico del Timeo: le anime non tornano nel cielo della Luna, dopo esserne discese, e non vi dimorano; soltanto si mostrano in figura, se pure lo stesso pensiero di Platone non vada inteso in modo letterale, ma come un mito. Quel pensiero non mancherebbe di qualche verità - di "alcun vero" (v. 60), - e sarebbe degno di apprezzamento, se intendesse affermare sull'uomo, salvo il suo libero arbitrio, un influsso astrale; solo che, "male inteso" (v. 61), è giunto denominare e a venerare gli astri come divinità.
Il secondo dubbio, che turba Dante, è meno pericoloso e meno compromettente - "ha men veleno" - continua Beatrice. Al poeta non sembra giusto attribuire un minor merito, nel caso in cui una violenza sia subita, come nel caso di Costanza. In realtà, che la giustizia divina, inaccessibile alla comprensione umana, appaia ingiusta al giudizio umano "è argomento / di fede" (vv. 68-69), ed è coerente con la persuasione della Scrittura, secondo quanto afferma Paolo sugli "insondabili" giudizi di Dio e sulla inaccessibilità delle sue vie (Romani, 11, 33). Anzi, la stessa ragione umana è in grado di avvertire che non è ingiusto quel minor merito. E Beatrice lo spiega in una serie di concetti espressi in versi laboriosi, in cui "prorompe il grande inno alla libera volontà dell'uomo" (Chiavacci Leonardi), che, secondo la stessa dottrina di Aristotele, per il quale la libertà di chi subisce rimane intatta, se non concede assolutamente nulla "a quel che forza" (v. 74). "Volontà, se non vuol, non s'ammorza" (v. 76), afferma Beatrice, com'è del fuoco, che, pur compresso, si leva sempre verso l'alto, mentre le anime appena incontrate dal poeta, sia pur con riluttanza, non tornando al chiostro, hanno accondisceso alla violenza e non hanno conservato una volontà intatta, a differenza di san Lorenzo sulla grata o di Muzio Scevola con la mano sul braciere. D'altronde, - riconosce Dante - "così salda voglia è troppo rada" (v. 87).
Ma il poeta è intricato da un'altra difficile questione, inespressa e che da solo non riuscirebbe a sciogliere. Unita "al primo vero", nessun'anima potrebbe dir bugie. Ora, secondo l'affermazione di Piccarda, "l'affezion del vel Costanza tenne" (v. 98), e questo sembra smentire l'affermazione di Beatrice, che la volontà di Costanza non fu perfetta. In realtà, sia Piccarda sia Beatrice dicono il vero. Costanza, infatti, se in senso assoluto non ha accondisceso al male, tuttavia, pur contro la sua volontà - "contra grato" (v. 101) - in senso relativo vi ha aderito, scegliendo il minor male, con la conseguenza di una mescolanza tra costrizione e adesione. In quelle condizioni - afferma Dante - "la forza al voler si mischia" (v. 107). Un consenso, perciò, non è mancato, anche se emesso nel timore che dal rifiuto provenisse un male maggiore: "in quanto teme, / se si ritrae, cadere in più affanno" (vv. 110-111). Ora, mentre Piccarda, parlando del "vel del cor" (Paradiso, iii, 117), si riferiva alla "voglia assoluta" (v. 113), Beatrice si richiama alla volontà condizionata e relativa, che non scusa totalmente dalla colpa, e può concludere che "ver diciamo insieme" (v. 114).
Tutte quelle riflessioni, fluenti copiosamente, come le onde di un "santo rio" (v. 115), dalla fonte di ogni verità - la sapienza di Dio rappresentata da Beatrice - placano la mente e acquietano i desideri del poeta, che riconosce di non poter manifestare adeguatamente la propria gratitudine per le parole di quella donna divina - amata dal primo amore ("amanza del primo amante", v. 118) - che tanto lo riscaldano e lo ravvivano.
Ma ecco riaccendersi in Dante la sete dell'intelletto, che Dio solo, sorgente della verità, può esaurientemente illuminare e appagare. Scrive il poeta: "già mai non si sazia / nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra / di fuor dal qual nessuno vero spazia" (vv. 124-126). E quando questo avviene - e può avvenire ("giugner pollo", v. 128), perché sarebbe impensabile che il naturale desiderio umano di verità resti incompiuto - l'intelletto si riposa, simile a una fiera nella tranquillità della sua tana.
Per Dante, come per Tommaso d'Aquino, l'intima aspirazione dell'uomo alla verità non può restare insoddisfatta; altrimenti essa sarebbe, inammissibilmente, vana. Per l'uno e l'altro la persuasione è identica, ed è profondamente teologica: nel suo intimo l'uomo aspira alla Verità - e quindi a Dio, dal quale essa scaturisce - e tale aspirazione non può andar delusa.
Il poeta rende l'incessante desiderio di verità, insito nell'uomo, e il suo progressivo ascendere di tappa in tappa - "di collo in collo" (v. 132) -, con la felice immagine del pollone, che butta e rampolla ai piedi di una pianta: "Nasce (...) a guisa di rampollo, / a pié del vero il dubbio" (vv. 130-131). Per questo egli osa porre con deferenza alla sua guida ancora una domanda su una questione che gli risulta oscura, cioè se sia possibile soddisfare con altri beni un voto inadempiuto.
A questa domanda Beatrice si volge a Dante con uno sguardo così amoroso e così pervaso di luce divina, da non riuscire a sostenerlo e restare smarrito: "con gli occhi pieni / di faville d'amor così divini / che (...) quasi mi perdei con li occhi chini" (vv. 139-142).
È ricorrente nel poema questo smarrimento di fronte all'"eccesso" divino di luce e di amore, che lo investe. E forse si tratta di esperienze vere e singolari, e non soltanto di pure descrizioni letterarie.
Vediamo, in ogni caso, che anche negli articolati ragionamenti e nelle accurate distinzioni filosofiche e teologiche, che si snodano come materia del canto, non cessano gli accenti lirici e il fascino delle immagini, che contrassegnano tutta la poesia di Dante.
(©L'Osservatore Romano - 31 ottobre 2009)
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