mercoledì 4 novembre 2009

Riflessioni per l'Anno sacerdotale: L'amicizia tra preti segno della vittoria di Cristo (Massimo Camisasca)


ANNO SACERDOTALE (19 GIUGNO 2009-19 GIUGNO 2010): LO SPECIALE DEL BLOG

Riflessioni per l'Anno sacerdotale

L'amicizia tra preti segno della vittoria di Cristo

di Massimo Camisasca

L'importanza decisiva dell'amicizia nella vita dell'uomo d'ogni tempo può essere colta anche dal fatto che i più grandi scrittori e filosofi dell'umanità hanno spesso parlato d'amicizia e hanno visto nell'amicizia un tema fondamentale per la comprensione dell'uomo: qualcosa che entra nella definizione stessa della vita.
Voglio citare qui fra tutti solo Aristotele e Cicerone. Il primo, nell'Etica Nicomachea, ai libri ottavo e nono, parlando dell'amicizia, sostiene che "non c'è nulla di più necessario alla vita e che senza di essa ogni bene non è bene". E il grande oratore romano, nel suo dialogo Lelius de amicitia, al capitolo sesto, scrive: "Non so se, al di fuori della sapienza, non ci sia nient'altro di meglio per l'uomo, dono degli dei immortali alla sua vita, dell'amicizia".
Dunque, l'amicizia è vista da questi grandi dell'antichità precristiana come un bene necessario, dono di Dio. Essa è anche considerata come fonte di felicità: sempre nel Lelius, al capitolo ventisettesimo, Cicerone dice che se si tolgono dalla vita la carità e la benevolenza - che come vedremo sono per lui le caratteristiche dell'amicizia - viene tolta ogni possibilità di gioia.
L'amicizia è dunque un aspetto dell'amore, è il vertice dell'amore. Essa innanzitutto implica una reciprocità che non è necessaria in ogni amore: si può amare una cosa, un bene, anche una persona, senza che tale amore sia necessariamente intaccato dall'assenza di reciprocità. L'amicizia invece è una virtù attiva, che implica la risposta dell'altro: l'amicizia implica l'amico.
Non solo, l'amicizia implica che l'amico sia un altro se stesso - lo dicono sia Aristotele che Cicerone, quest'ultimo nel libro ventunesimo del Lelius - un altro se stesso che è amato come si ama se stessi. Con l'amico si vive una vita di concordia e di comunione. I beni della vita presente, quelli sperati nella vita futura: tutto diventa strumento per alimentare l'armonia di questa vita comune. Cicerone definisce l'amicizia consensio divinarum et humanarum rerum - che potremmo tradurre come convergenza e fruizione comune dei beni umani e divini - vissuta cum benevolentia et caritate. La parola "carità" - notiamo che con Cicerone siamo ancora al di fuori di un contesto cristiano - dice qui la gratuità che deve esserci in questo consenso, mentre la parola "benevolenza" dice il desiderio che l'unico criterio del rapporto con l'altro sia il bene dell'altro. Non si cercano vantaggi perciò nell'amicizia - dice sempre Cicerone nel libro ventisettesimo - se non quelli che fioriscono da sé nell'amicizia: la letizia che viene da una vita vissuta nella saggezza e nell'amore.
Aristotele aggiunge una nota importante: l'amicizia è attiva e selettiva, essa cioè si nutre di preferenza, è un'intensità dell'amore che fa sì che la vita fra gli amici sia come una scuola della carità che si è chiamati ad avere con tutti.

La novità di rapporti portata da Cristo

Al vertice della sua vita, Gesù, che ha dato ampia testimonianza nella sua vita pubblica di che cosa volesse dire per lui l'amicizia, scelse alcuni con cui avere un più stretto rapporto e in mezzo ai discepoli volle gli apostoli, "perché stessero con Lui" (Marco, 3, 14) e a cui confidare tutto quanto il mistero della sua vita. Ecco dunque di nuovo le due caratteristiche dell'amicizia che già Cicerone aveva genialmente intuito, comunanza nelle cose umane e in quelle divine. Questa è la comunità apostolica, l'esempio più alto di amicizia che la storia presenti. È Gesù stesso a offrirci la chiave per guardare all'esperienza vissuta da lui con i discepoli. Egli dice: "Vi ho chiamati amici, perché ho detto a voi tutto ciò che il Padre ha detto a me" (cfr. Giovanni, 15, 15).
Per comprendere che cosa sia veramente l'amicizia che Cristo ha vissuto come culmine della carità che da lui è nata, che è nata dalla sua incarnazione, dalla sua morte e resurrezione, è quindi necessario partecipare alla vita di Cristo. L'amicizia che egli ha vissuto con i suoi più intimi, l'amicizia che egli ha reso possibile fra gli uomini, nasce anche oggi dai suoi sacramenti, dal battesimo, dall'eucarestia, dalla penitenza; nasce anche oggi dal suo insegnamento e si manifesta in chi lo segue come riconoscimento del posto centrale che egli chiede d'assumere nell'esistenza di chi lo incontra. L'amicizia di Cristo vive perciò come servizio della sua persona - giustamente Agostino commenta la frase del vangelo di Giovanni citato sopra, dicendo: "Tu chiamami pure amico, io continuo a considerarmi tuo servo".
Proprio per questo sono molti i pensatori cristiani che hanno dedicato all'amicizia pagine di grande profondità. Nelle loro riflessioni, le intuizioni degli antichi filosofi sono portate a chiarezza e a compimento proprio in forza della loro personale esperienza d'amicizia, vissuta in un contesto cristiano - che spesso era un monastero. San Tommaso, per esempio, riprende molti temi sia d'Aristotele che di Cicerone. Per lui, come per loro, l'amicizia è amor benevolentiae, l'amore che vuole il bene dell'altro, un amore di comunanza, di scambievolezza, un amore che consiste nel comportarsi con l'amico come con se stessi. L'amicizia si fonda su una comunanza di vita, di beni e di virtù. Essendo il vertice della carità, l'amicizia dona all'uomo l'esperienza stessa della vita divina: la Trinità non è forse l'esempio più alto e irraggiungibile di amicizia?
Non a caso Aelredo di Rivaulx, un altro grande studioso medievale dell'amicizia - potremmo ricordare qui anche san Bernardo - nel suo De spirituali amicitia, al libro secondo, afferma che l'amicizia è un gradino verso l'amore e la conoscenza di Dio.
In questa linea, i padri orientali - e a partire da essi una tradizione che porta fino alla teologia ortodossa di questi ultimi due secoli - hanno visto nell'amicizia l'espressione più alta dell'unione mistica fra Dio e l'uomo. Pavel Florenskij dedica una parte dell'opera La colonna e il fondamento della verità (la lettera undicesima) proprio all'amicizia e annota: "L'unità mistica di due è una condizione della conoscenza e della manifestazione dello spirito di verità che dà questa conoscenza". Egli porta alle estreme conseguenze le affermazioni di Cicerone e di Aristotele riprese da Tommaso. L'amico non è soltanto colui che tratta l'altro amico come se stesso, ma gli amici costituiscono una bi-unità, una diade: gli amici non sono più solo ciò che erano presi individualmente, ma qualcosa di più, un'anima sola. In questa unità ciascuno degli amici riceve conferma dalla propria personalità, trovando il proprio io nell'io dell'altro.

Fraternità e sacerdozio

Accennando ai temi della fraternità e dell'amicizia, ho voluto certo descrivere l'essenza dell'avvenimento cristiano, ma allo stesso tempo ho segnalato quella che considero una dimensione essenziale dell'umano. In altre parole, ho inteso descrivere sia la stoffa dell'essere che dell'essere entrato nella storia, cioè di Dio fatto uomo, la stoffa dell'avvenimento che lui ha inaugurato.
Ora, ciò che è vero per ogni battezzato è vero per ogni vocazione che s'innesta sul battesimo. Quindi anche per il sacerdozio. Tutto ciò che nasce dal battesimo infatti partecipa della struttura di vita che esso comunica all'uomo, che è la comunione, e allo stesso tempo la esprime. Così, l'esperienza di ogni vocazione cristiana non può che essere alimentata da un'esperienza di fraternità. Non esiste nel cristianesimo una vocazione al rapporto con Dio che non sia avvenimento di comunione, non c'è la scorciatoia a Dio che passi a lato di Cristo e del suo corpo.
In particolare, la parola "fraternità", essendo una parola che descrive l'essenza dell'avvenimento cristiano, non può essere disgiunta dall'essenza stessa della vita sacerdotale, anzi acquisisce una sua urgenza storica ed esistenziale proprio per i tempi in cui siamo chiamati a vivere. Il problema del nostro tempo è infatti proprio questo: la ricerca spasmodica di una scorciatoia a Dio - perché di Dio non si può fare a meno - una scorciatoia che eviti la corporeità di Cristo.
Oggi nessuno può reggere di fronte agli attacchi di questa mentalità mondana se non nella misura in cui la sua affezione è guidata da un giudizio di appartenenza chiaro. È da questo giudizio che trae alimentazione e fascino la possibilità di vivere la verginità, la povertà e l'obbedienza che il sacerdote - come ogni cristiano secondo il suo stato - è chiamato ad abbracciare: se io appartengo ai miei fratelli, non appartengo più a me stesso, non appartiene più a me il mio tempo, non appartengono più a me le cose che ho, i miei soldi, le mie doti, i miei rapporti.
Scoprire questo nella propria esistenza è qualcosa d'infinitamente più grande e pieno di letizia dell'appartenersi, del tenere a se stessi. Il tenere a se stessi rimpicciolisce; scoprire invece di appartenere a dei volti chiamati con me, scoprire e accettare di appartenere alla storia di Cristo nel mondo attraverso quei volti rende grandi. La grandezza della mia persona è data dalla storia di Cristo tra gli uomini, cui voglio appartenere in risposta alla sua chiamata.
Penso che questa notazione, che è assieme psicologica e spirituale, descriva bene il passaggio dalla naturalità all'essere nuovo cui il battesimo chiama ognuno.
Ma voglio approfondire le mie considerazioni. La condizione perché possa sorgere una personalità autenticamente cristiana è che essa riconosca l'avvenimento della compagnia in cui Cristo l'ha inserita e si lasci generare da essa. Nessuno di noi può procedere verso la verità di se stesso se non attraverso il cambiamento a cui la presenza degli altri lo sospinge. La presenza dell'altro cambia la nostra vita molto più delle piogge secolari che solcano il terreno e levigano le pietre. Questo è il valore sacramentale del fratello che mi è posto accanto.
In questo senso arrivo a dire che se uno non avverte l'altro come un ostacolo, non può amarlo. Se non si è spiritualisti o superficiali, non si può non avvertire in certi momenti della vita il peso di chi ci è messo accanto nel posto dove si lavora, dato dalla differenza di percezione delle cose, dalla differenza delle storie e dei temperamenti personali... magari proprio in chi uno sente per altro verso straordinariamente vicino. È a questo punto che uno scopre il significato di presenza sacramentale dell'altro, nella misura in cui capisce che questa alterità o diversità è il segno di una Presenza che trascende l'altro e lo rende segno di qualcosa di più.
Diceva Gilbert Cesbron: "Ogni grande esistenza nasce dall'incontro con un grande caso". Nella compagnia di Cristo questa grande occasione data alla nostra vita è l'altro che mi è posto a fianco, è la grandezza di Colui che mi raggiunge attraverso l'altro che mi è posto a fianco. Si noti bene: non necessariamente attraverso la santità dell'altro, magari anche attraverso la povertà dell'altro. Il crescere della persona non è un'impresa erculea, non è uno sforzo della volontà, è il frutto della provocazione continua di una compagnia vera: sufficientia nostra ex Deo, dice san Paolo (2 Corinzi, 3, 5). Gli altri, se sono desiderati, riconosciuti e perciò accolti come segno della compagnia Sua, rendono la nostra persona capace a sua volta di diventare compagnia sulla strada degli uomini che incontriamo.

Degenerazioni nel vivere la compagnia

Come tutte le cose umane, anche la compagnia che è segno del mistero e luogo della presenza di Cristo può essere vissuta in modo riduttivo. Laddove ciò accade è sempre il nostro criterio umano a prevalere sulla novità introdotta da Cristo nei rapporti tra gli uomini. Voglio elencare perciò schematicamente tre momenti di questo pericolo di riduzione.
Una prima degenerazione possibile è quella di sentire la compagnia, l'amicizia in Cristo, come espressione di un dovere. Sarebbe un po' come dire: "Siccome siamo assieme, siccome Qualcuno ci ha messi assieme, allora "abbiamo il dovere" di vivere la nostra vita come espressione comune". La radice di questa degenerazione è la misconoscenza della vera natura della carità, avvenimento della gratuità dell'amore di Cristo per noi e della risposta a esso. In forza di questa insufficienza, un'amicizia ridotta moralisticamente a dovere ha breve storia e sfocia quasi sempre in violenza: la compagnia cristiana non si genera da se stessa, non nasce - solo - come frutto di un mio sforzo ascetico, ma è un dono, è una grazia nella sua origine e vive come memoria di tale grazia.
Una seconda espressione degenerata della compagnia in Cristo è la comunità concepita e vissuta come una strategia: "l'unione fa la forza", come recita un proverbio italiano. La compagnia come strategia per meglio capire, per meglio intervenire, per più efficacemente agire - anche nella missione. Ciò può essere una tentazione sottile e pericolosa proprio perché fa leva su sentimenti di generosità e impegno che facilmente si presentano come aspetti del proprio amore a Cristo. La "malattia" di questa posizione sta ancora una volta nel fatto che essa poggia tutta sulla fiducia in se stessi e nel proprio fare.
Una terza degenerazione è, infine, quella di concepire l'amicizia o la compagnia come un ricovero: come luogo accomodante, una fuga dal mondo. L'errore sta qui nel considerare la compagnia come una cosa bella, che ci fa sì felici, ma in senso naturalistico, distraendoci dalla missione che Cristo in essa e con essa ci affida. Una compagnia concepita in questo modo diventa il luogo di una somma di solitudini, dove alla lunga non si può che cercare nell'altro solo l'accondiscendenza a ciò che "sentiamo", a ciò che "ci piace". Il significato di una vera fraternità cristiana, al contrario, è che Dio non lascia solo l'uomo nella prova dell'esistenza. Questo sarebbe diabolico: la solitudine. Nella compagnia il dramma è possibile, perché è vinta la tragedia dell'uomo solo di fronte al male: è vinta, perché Uno per noi l'ha vinta. Cristo non ha chiamato i dodici solo perché stessero con lui, ma "per mandarli" (Marco, 3, 14) ad annunciare questa sua vittoria.

(©L'Osservatore Romano - 4 novembre 2009)

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