lunedì 24 novembre 2008

Papa Benedetto: Né onori né apparenze. Dio rifiuta le ipocrisie (Zavattaro)


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BENEDETTO XVI - Né onori né apparenze

Dio rifiuta le ipocrisie

Fabio Zavattaro

Quando il titolo di re era inteso in senso politico, come capo delle nazioni, Gesù Cristo lo rifiutò. Il suo regno non era, non è di questo mondo. La sua è una singolare regalità e lui la rivendica durante la passione; la rivendica davanti a Pilato. Nella domenica che conclude l’anno liturgico – e già si guarda alla prima di Avvento – Papa Benedetto si sofferma a riflettere sulla solennità di Cristo re dell’universo e sulla parabola del giudizio universale.
Una regalità, quella di Cristo, che è “rivelazione e attuazione di quella di Dio Padre, il quale governa tutte le cose con amore e giustizia”, dice Benedetto XVI. Un re, Cristo, che ha una missione: dare agli uomini la vita eterna amandoli fino al supremo sacrificio. Ma che ha anche avuto dal Padre il potere di giudicare gli esseri umani.
Dio è al tempo stesso pastore buono e misericordioso e giudice giusto. Così il volto di Cristo, re dell’universo, è quello del giudice. Ma c’è un punto critico, una zona dove il suo regno è a rischio: il cuore dell’uomo. Lo ricordava il Papa solo sabato scorso: gli uomini e le donne hanno la facoltà di scegliere con chi allearsi: “Se con Cristo e con i suoi angeli, oppure con il diavolo e con i suoi adepti”. Sta all’uomo decidere, ricorda ancora Benedetto XVI, “se praticare la giustizia o l’iniquità, se abbracciare l’amore e il perdono, o la vendetta e l’odio omicida”.
Amore, giustizia, perdono. Linee guida anche in vista di quel giudizio che alla fine dei tempi dividerà coloro che si salveranno da quanti saranno chiamati a scontare le proprie colpe. Perché solo l’uomo, nella sua libertà, può accettare la regalità di Dio o negarla.
Così all’Angelus Benedetto XVI riflette sul racconto del giudizio universale fatto nel Vangelo di Matteo: “Le immagini sono semplici, il linguaggio è popolare – afferma – ma il messaggio è estremamente importante: è la verità sul nostro destino ultimo e sul criterio con cui saremo valutati. Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto e così via. Chi non conosce questa pagina?”. Parole che hanno segnato “la storia dei popoli di cultura cristiana: la gerarchia di valori, le istituzioni, le molteplici opere benefiche e sociali”. Se mettiamo in pratica l’amore per il nostro prossimo, afferma il Papa, allora “il regno di Dio si realizza in mezzo a noi. Se invece ciascuno pensa solo ai propri interessi, il mondo non può che andare in rovina”.
Parole che ci riportano al tema centrale dell’Angelus, e cioè che il regno di Dio “non è una questione di onori e di apparenze” ma, come scrive san Paolo, è “giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo”. Nel suo regno eterno, ricorda ancora il Papa, il Signore “non sa che farsene di quelle forme ipocrite di chi dice Signore, Signore, e poi trascura i suoi comandamenti”. Dio accoglie “quanti si sforzano giorno per giorno di mettere in pratica la sua parola”. Parole che, nello stesso tempo, si aprono ad una prospettiva più grande e che possono essere coniugate, ad esempio, con le scelte che il mondo ricco è chiamato a fare e che troveranno una concretizzazione nella Conferenza internazionale di Doha sul finanziamento allo sviluppo. È come se il Papa dicesse ai leader delle nazioni, ai grandi del mondo: dalla crisi, soprattutto dalla crisi finanziaria, non si esce pensando ognuno a se stesso. La strada da percorrere è quella che vede insieme nord e sud, che chiama l’economia a ritrovare un senso etico nelle scelte finanziarie, e la politica a ritrovare la volontà di perseguire il bene comune e non l’interesse di pochi.
È in questa chiave che si possono leggere anche le parole che pronuncia in lingua ucraina e che fanno memoria dei 75 anni della grande carestia – l’Holodomor – che negli anni 1932-1933 ha causato milioni di morti in Ucraina e in altre regioni dell’allora Unione Sovietica, durante il regime comunista. Il quarto sabato di novembre a Kiev, Leopoli e in tutta la nazione si ricorda ciò che per alcuni storici è il genocidio ucraino, la più grave catastrofe che si sia abbattuta sulla nazione nel corso della storia moderna. Causata intenzionalmente dalla politica di Stalin, con leggi e iniziative intraprese contro i contadini e l’agricoltura che avevano come obiettivo di distruggere la nazione ucraina intesa come entità politica e sociale. Dice il Papa: “Nessun ordinamento politico possa più, in nome di una ideologia, negare i diritti della persona umana e la sua libertà e dignità”.
Immane tragedia la chiama. Prega, Benedetto XVI, per le vittime innocenti e invoca la madre di Dio “perché aiuti le Nazioni a procedere sulle vie della riconciliazione e costruire il presente e il futuro nel rispetto reciproco e nella ricerca sincera della pace”.
Le scelte di Stalin, allora, affamarono un popolo, causarono vittime e deportazioni. Le scelte, oggi, dell’Occidente possono salvare migliaia di persone, costruire un mondo più giusto e solidale, favorire lo sviluppo di popoli e nazioni, oppure condannare nazioni, uomini e donne al sottosviluppo.
Cosa ci dice il Papa in questo Angelus domenicale? Saremo giudicati alla fine dei giorni dalle scelte che abbiamo fatto, da quel saper coniugare insieme amore, giustizia e perdono. Che, per chi è chiamato alla responsabilità politica, significa coniugare insieme sviluppo, solidarietà, ed equa distribuzione delle risorse.

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