lunedì 11 maggio 2009

Amos Oz: «È giusto ricevere Papa Ratzinger con disponibilità» (Battistini)


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GERUSALEMME

«Mi sveglio la mattina — diceva Amos Oz qualche gior­no fa, agli auguri per i suoi settant’anni —, bevo una tazza di caffè, mi siedo alla scrivania e comincio a chiedermi: che cosa farei se fossi lui? E se fossi lei? Co­me mi sentirei? Cosa direi? Come reagi­rei? ». Beva la tazza di caffè, sieda alla scriva­nia e immagini: se fosse Papa, che direb­be oggi a Yad Vashem? «Questo non lo so. Lo guarderò in tv: tocca a lui parlare! Non mi aspetto di sicuro delle scuse co­me quelle che in parte fece a Istanbul, dopo il discorso di Ratisbona.
Però, se farà un discorso in quella chiave, o farà capire anche in modo indiretto di voler chiedere scusa per tutti gli errori della Chiesa, sarà un’ottima cosa. Spero parli in modo amichevole, con amore del po­polo ebraico». Il giorno prima dell’arrivo del Papa in Medio Oriente, Israele ha festeggiato questo pezzo della sua santissima trini­tà letteraria, ed è stata una festa grande con le felicitazioni degli altri due scritto­ri di riferimento, Grossman e Yehoshua: «Essere un israeliano di 70 anni è come essere un americano di 250 e avere cono­sciuto Lincoln e George Washington», scherza il settantenne Oz, e allora è lui l’uomo con l’autorevolezza che serve a commentare questa storica visita: «Be­nedetto XVI? Certo, sono molto curioso di sentire ogni sua parola...».

C’è qualcosa che la suggestiona nel­­l’arte, nel pensiero, nella liturgia dei cattolici?

«E’ un credo che mi ha sempre affasci­nato moltissimo. Perché è molto lonta­no dall’ebraismo. Noi ebrei non abbia­mo un Papa: ogni ebreo è convinto di sa­pere quello che gli altri pensano e quin­di è convinto di sapere pure che cosa vo­glia Dio!... (ride). Se un giorno qualcuno si alza e si proclama il Papa degli ebrei, c’è sempre qualcun altro che lo prende sottobraccio e comincia a ricordargli co­me i loro nonni fossero amici, come ab­biano fatto affari insieme in Polonia o in Germania, per arrivare in fondo alla stra­da e dirgli: dammi retta, i nostri nonni avevano un filo diretto con Dio e ci dis­sero che Dio la pensava in tutt’altro mo­do... ».

Ma quanto importa a un israeliano medio, la visita del Papa?

«Le relazioni fra ebrei e cattolici non sono mai state semplici. Però negli ulti­mi anni c’è stato un miglioramento. E’ giusto ricevere questo Papa con grande disponibilità. E’ un personaggio fonda­mentale ».

Qual è il pregiudizio dei cristiani su­gli ebrei che più la ferisce?

«E’ una domanda difficile. Se si tratta di fare dell’autocoscienza, preferirei che la facesse un cristiano. Io posso parlare del contrario...»

...dei pregiudizi d’un ebreo sui cri­stiani...

«Moltissimi partono sempre dal pre­supposto che i cristiani, chi più e chi me­no, siano tutti quanti animati da un pro­fondo antisemitismo. Questo è un pre­concetto che va combattuto. Perché non è vero. Anzi, molti hanno una grande ammirazione, nemmeno troppo segre­ta, per certi valori del nostro mondo».

A ebrei e musulmani, però, i cristia­ni rimproverano l’incapacità del perdo­no, di trovare punti comuni fra loro.

«La tragedia del Medio Oriente non ha nulla a che fare col concetto del per­dono, col porgere l’altra guancia. Piutto­sto, ha a che fare con il compromesso. E nell’ebraismo il compromesso è un valo­re molto forte, che ci ha permesso di so­pravvivere nei millenni».

In Giordania, Ratzinger ha trovato interlocutori aperti nella casa reale. Chi può essere un uomo del dialogo coi cristiani, qui?

«Sia Shimon Peres, sia Benyamin Ne­tanyahu lo sono. Hanno qualcosa d’im­portante da dire. Il processo di pace pas­sa attraverso di loro, credo che con Pe­res sarà un incontro pieno di significati: lui e Ratzinger sono due personalità che vengono da un grande passato».
Le posizioni della Chiesa sono mol­to lontane da quelle di Netanyahu... «Questo è vero. Ma mi aspetto che an­che con lui si finisca per parlare della so­luzione di due Stati per due popoli».

S’io fossi Papa... Lei è stato fra i po­chi intellettuali che, pur appoggiando­ne le ragioni, ha criticato la guerra di Gaza: ci sarebbe andato, nella Striscia?

«So che molti premevano perché Rat­zinger ci andasse. Non so perché non l’abbia fatto. Non so nemmeno se glie­lo avrebbero permesso, a dir la verità. Pe­rò, perché no? Io penso che, se ci sono le possibilità, il capo della Chiesa cattolica debba andare anche in un posto difficile qual è Gaza. Immagino che alla fine sia­no prevalse le ragioni di sicurezza».

© Copyright Corriere della sera, 11 maggio 2009 consultabile online anche qui.

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