domenica 10 maggio 2009
Mons. Ravasi: La guida migliore per scalare il monte Nebo. Sui passi di Mosè liberatore del popolo eletto (Osservatore Romano)
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Su segnalazione della nostra amica Alessandra leggiamo questo articolo di Mons. Ravasi per l'Osservatore Romano:
La guida migliore per scalare il monte Nebo
Sui passi di Mosè liberatore del popolo eletto
di Gianfranco Ravasi
Quella che Bendetto XVI compirà sabato mattina al monte Nebo sarà la prima tappa squisitamente biblica del suo pellegrinaggio. Risuoneranno idealmente le parole del Deuteronomio: «:Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutto il paese (…) e gli disse: Io lo darò alla tua discendenza. Te l'ho fatto vedere coi tuoi occhi, ma tu non vi entrerai! Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l'ordine del Signore» (34, I-5)· Su quella vetta salì a contemplare la Terra Santa anche Giovanni Paolo II il 9 marzo 2000 e lassù piantò un albero d'ulivo. Noi ora non vogliamo descrivere il «Memoriale di Mosè» che lassù si erge, incentrato sui resti suggestivi di una cappella bizantina, un complesso storico-archeologico che è ancor oggi sottoposto a una sistemazione definitiva per i visitatori, anche a causa del lento ma inarrestabile smottamento della stessa cima del Nebo. È, comunque, giusto evocare l'opera preziosa e instancabile dei francescani e dei loro archeologi, tra i quali dobbiamo citare i grandi Virgilio Corbo e Michele Piccirillo.
Noi vorremmo, invece, lassù far aleggiare la figura della grande guida della liberazione di Israele dall'oppressione faraonica, un evento che è narrato nel secondo libro biblico intitolato dalla tradizione Esodo. Caro alla teologia cristiana, ma importante anche per la filosofia – L'ateismo nel Cristianesimo del filosofo Ernst Bloch reca il sottotitolo «Per una religione dell'esodo e del regno» – e per la psicanalisi - lo vedremo a proposito del Mosè di Freud -, decisivo per la società ebraica col sionismo – che ne ha ripreso l’ideale in chiave laica – e in genere per il riscatto dei popoli oppressi, l'esodo è divenuto un vero e proprio emblema, talora staccato dalla sua stessa realtà storica originaria, Nell'Ottocento, ad esempio, Marcus Garvey, propugnatore dell'esodo in Africa dei neri americani, si era fatto chiamare Black Moses, «Mosè Nero», e aveva lasciato dietro di sé una scia di martiri, di speranze, ma anche di racconti, e persino un dramma e un film sulle Green pastures, le verdi praterie dell'Africa sognata come terra promessa.
Aveva ragione il trattato talmudico sulla Pasqua quando affermava che «ogni generazione deve considerare se stessa come uscita dall'esodo».
Per certi versi il detto vale pure per le generazioni non ebraiche: se riesumiamo il simbolo del «filo rosso» – usato dal citato filosofo Bloch – possiamo inseguire la corsa serpeggiante dell'esodo nella storia della cultura e della spiritualità religiosa dell'intero Occidente, Lo facciamo ora solo evocativamente e non rigorosamente. perché altrimenti ci troveremmo subito immersi in un labirinto iconografico, musicale e letterario. Basterebbe solo parlare di Mosè salvato dalle acque, del roveto ardente, delle piaghe d’Egitto, del passaggio del Mar Rosso, del deserto del Sinai, della manna, dell’acqua dalla roccia, delle tavole del Sinai, del vitello d’oro, per avere all’istante la mente popolata di scene familiari e persino di frasi fatte, le piaghe oppure le cipolle d’Egitto! E se volessimo ricorrere alla musica? Ecco subito Mosè in Egitto di Rossini, proposto per la prima volta al San Carlo di Napoli nel 1818 o il successivo Moïses et Pharaon in 4 atti, debuttato a Parigi nel 1827. Pensiamo, poi, al Mosè liberatore di Max Bruch (1894) e di Lorenzo Perosi (1901), all’affascinante e incompiuto Mosè e Aronne di Arnold Schönberg oppure allo splendido Israele in Egitto di Haendel (1739), il cui vero spartito spirituale è proprio il libro dell’Esodo. Ma il filo rosso s’annoda soprattutto attorno alla grande guida dell’Esodo, Mosè. Si tratta di un nome spiegato liberamente dalla Bibbia come «estratto dalle acque» Esodo, 7,10 ma in realtà da ricondurre al modesto più mose, «figlio», termine egizio che troviamo in nomi teoforici ben noti come Tut-mose, Ah-mose, Ra-mose/messe – «figlio del dio Tot, Ah e Ra». Il popolo ebraico almeno fino al IX secolo quando appare uno studioso della Bibbia di nome Moshe Ben Asher, si rifiuterà di imporre quel nome così venerato a un figlio. Egli resterà per eccellenza il Môrenû, «il nostro Maestro», amato e rispettato. La sua epigrafe di santità era già stata scritta dalla stessa Bibbia: «Mosè era il più mansueto di tutti gli uomini apparsi sulla terra! (…) Egli è il mio servo, l'uomo di fiducia di tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui; in visione diretta e non per enigmi egli contempla l'immagine del Signore» Numeri, 12, 3.7-8). E dopo la morte sarà ancora la Bibbia a «canonizzarlo»: «Non è sorto più in Israele un profeta come Mosè, lui col quale il Signore parlava faccia a faccia (…) Uomo di pietà, universalmente stimato, amato da Dio e dagli uomini, il cui ricordo è in benedizione, glorioso tra i santi, potente contro i nemici» (Deuteronomio, 34, 10; Sirarcide, 45, 1-2).
Il filosofo e teologo ebreo alessandrino Filone (I secolo) gli dedicherà una biografia romanzata sul modello delle Vite parallele di Plutarco: il padre della Chiesa cappadoce san Gregorio Nisseno (IV secolo) comporrà una Vita di Mosè il legislatore, dove la storia della celebre guida dell'esodo viene vista come un itinerario di perfezione morale e di contemplazione mistica. Storia che verrà recuperata nella biografia teologica Mosè (1946) del filosofo ebreo personalista Martin Buber. «Uomo eccellente, non nato per pensare o per riflettere, tutto proteso all'azione (…) una figura che, dal primo gesto [cioè dall'assassinio di un aguzzino che infieriva sugli ebrei oppressi] fino alla scomparsa, fornisce un'immagine significativa e degna di un uomo che dalla natura è sospinto a cose eccelse», scriverà Goethe in alcune sue note di taglio biblico (Israele nel deserto, 1797). Ma c'è anche il Mosè romantico dell'omonimo poema di Alfred de Vigny (1837), con la sua umanissima solitudine propria dell’eletto, affrando per una missione che vanamente aveva tentato di rifiutare, deciso a non scendere più dal Sinai. Si può ricorrere, allora, al Scendi, Mosè di William Faulkner in cui l'eroe ebreo diventa una figura emblematica perché siano liberate tutte le vittime di ogni faraone della storia, o al Mosè, serie di ventitré poemi riuniti dal poeta francese Pierre Emmanuel nell'opera più vasta Tu (1962).
Thomas S. Eliot, invece, nella sua Morte di Mosè, presenta un uomo attaccato alla sua vita gloriosa, che non si rassegna a morire sulla vetta del Nebo davanti a quella terra promessa, tanto sognata e a lui proibita, e che gli stessi angeli rifiutano di accompagnare in cielo, non avendo il coraggio di strappargli l'anima. C'è in questa lirica l’eco di uno stupendo commento narrativo giudaico sulla morte di Mosè ben più sobriamente descritta nel capitolo 34 del Deuteronomio (Devarîm Rabbah). Leggiamo: «Si udì una voce dal cielo che disse a Mosè: Mosè è la fine, il tempo della tua morte è venuto! Mosè disse a Dio: Ti supplico, non mi abbandonare nelle mani dell'angelo della morte! ... Ma Dio scese dall'alto dei cieli per prendere l'anima di Mosè e gli disse: Mosè, chiudi gli occhi! E Mosè li chiuse. Poi Dio disse: Posa le mani sul petto! E così fece. Poi disse: Adesso accosta i piedi! E Mosè li accostò. Allora Dio chiamò l'anima di Mosè dicendole: Fidia mia, ho fissato un tempo di centoventi anni durante il quale tu abitassi nel corpo di Mosè. Ora è giunta la tua fine. Parti! Allora Dio baciò Mosè e prese la sua anima con un bacio della sua bocca».
Nel cuore della figura biblica di Mosè rimane, però, quell'evento capitale che è alla base della confessione biblica di fede nel «Signore che ci ha fatti uscire dall’Egitto». Noi non possiamo ora neppure evocare la complessa trama delle questioni storiche, letterarie e teologiche che s'annodano attorno a quella memoria antica, conservata nella Bibbia secondo diverse tradizioni redazionalmente fuse imieme, tradizioni che fanno ipotizzare più eventi «esodici», riassunti poi in un unico atto glorioso di liberazione. Anzi, la stessa Sacra Scrittura, col cosiddetto Secondo Isaia 40-33 e col libro della Sapienza, con la letteratura giudaica posteriore e soprattutto col Nuovo Testamento, sottoporrà l'esodo a una rilettura attualizzata con prospettive inedite, anche di taglio escatologico. Proprio affacciandosi sull'oltre-storia, Dante ricorrerà a un Salmo biblico di impronta esodica per descrivere l’attesa della liberazione delle anime relegate nel Purgatorio: «In exitu Israel de Aegypto / cantavan tutti insieme a una voce / con quanto di quel Salmo è poscia scritto» (Purgatorio II, 46-48). È, quello citato da Dante in latino, un Salmo che ha da sempre stimolato la musica: c'è una melodia ritmica ebraica del XII secolo, modulata quasi sul canto gregoriano, ma c'è anche un Salmo 114 op. 51 di Mendelssohn e altre trascrizioni musicali di Bruckner e Kodaly, per non parlare dell'influsso esercitato da questo Salmo sugli spirituals afroamericani. Nella scia neotestamentaria si inserirà poi la teologia cristiana, che vedrà nell'esodo una categoria destinata a interpretare la speranza di salvezza e di liberazione dei popoli. Un noto teologo tedesco, Jurgen Moltmann, nella sua opera maggiore La teologia della speranza, definirà la Chiesa «comunità in esodo», affermando che «la cristianità deve osare l'esodo e deve considerare i suoi ruoli sociali come una nuova cattività babilonese da cui liberarsi». Dietro a Moltmann c'è il già citato filosofo marxista Ernst Bloch, il quale, nel suo Ateismo nel Cristianesimo e nel Principio Speranza, ribadiva l'esemplarità dell'esodo per una lettura efficace della Bibbia che, così, acquisterebbe una grande forza utopico-rivoluzionaria. Il Dio dell'esodo è un Dio degli oppressi, dei poveri, del futuro libero, profondamente solidale con gli ultimi e con ogni anelito umano di libertà. È per tale motivo che l'esodo rappresenta una figura privilegiata della cosiddetta «teologia politica» o di quella latino-americana della liberazione. Per il teologo americano Harvey Cox l'esodo aiuta a desacralizzare la religione e la politica, impedendo alla prima di essere disincarnata e alla seconda di essere assoluta. Per il teologo francese Jean Cardonnel essere creati da Dio equivale a essere liberi e, quindi, l'esodo è l'espressione della creazione. Il Dio biblico è diverso dagli dei e dal dio della metafisica proprio per la sua scelta di entrare nella storia e di liberarla dall'ingiustizia.
Come dicevamo, aveva ragione la tradizione ebraica quando affermava che ogni generazione deve sentirsi figlia dell’esodo, anzi, sua contemporanea, essendo l’esodo un evento storico che racchiude nel profondo della sua realtà un seme d’eternità. Ne sono consapevoli persino gli agnostici. Abbiamo citato Bloch, ma come ignorare Freud e i suoi tre saggi su Mosè, raccolti nel 1939 nell'opera L'uomo Mosè e la religione monoteistica? Ne ha scritto recentemente (2 maggio) con acutezza su La Civiltà Cattolica il gesuita Giovanni Cucci. Alla base c'è indubbiamente la matrice ebraica del padre della psicanalisi. C'è anche la lettura del saggio di Schiller La missione di Mosè 1790) dove il celebre drammaturgo tedesco esaltava l'esodo non solo in quanto liberazione politica, ma anche in quanto vittoria interiore sull'irretimento spirituale dei culti e delle dottrine misteriche egizie a cui era costretto Israele schiavo. Intuizione felice perché, nell'antichità, schiavitù politica e religiosa coincidevano: non per nulla Israele celebra la sua prima liturgia pasquale nella notte della liberazione. Ma alle spalle di Freud c'è, in particolare, una statua. Sì, l'indimenticabile Mosè di Michelangelo nella chiesa di San Pietro in Vincoli a Roma.
Nel 1913 Freud era ritornato a più riprese per ben tre settimane in meditazione solitaria davanti a quel volto inquietante e potente. Da lì era nata l'immagine di un Mosè egizio e non ebreo, seguace del faraone monoteista solare Akhnaton, «un grande straniero che, nella stretta del dolore e della solitudine, crea un popolo» imponendo ai «poveri schiavi ebrei» il suo dio di verità e di giustizia, Aton, il disco solare, signore visibile e invisibile di un impero cosmico. Nella marcia lungo le piste del deserto il dio si trasforma, acquisendo il nome «Jahweh» proprio della divinità adorata dai Madianiti, dai quali Mosè riceve anche la moglie, Zipporah. Ma il popolo ebraico rifiuterà questo «padre» estraneo, fautore di una religione troppo severa e spirituale, ucciderà Mosè e il «parricidio» lo rinsalderà come vera nazione, anzi come nazione eletta e unica. Questo assassinio, dopo una lunga latenza, riemergerà nella memoria di Israele e il «pentimento per l'uccisione di Mosè» farà sbocciare il desiderio e l'attesa del Messia. L'evento esodico, liberamente e discutibilmente ricostruito da Freud, diventa, allora, una parabola sia dell'«ebraitudine», dotata di un forte «ideale dell'Io» e di una ferma autocoscienza. sia della vicenda umana nelle sue tappe psicologiche drammatiche e liberatrici. Anche attraverso questa strada «laica», tuttavia, l'esodo rivelava la propria qualità di evento «trascendente» e permanente, sempre disponibile a esercitare la sua funzione efficace e liberatrice. Ed è solo in questa luce che Benedetto XVI lo evocherà commemorando sul Nebo la figura grandiosa di Mosè, profeta della libertà e della terra promessa, storica, ma anche trascendente, a cui ci conduce ora Cristo.
L’Osservatore Romano 9 maggio 2009
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