lunedì 14 settembre 2009
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BENEDETTO XVI - Non c’è fede senza amore
Fabio Zavattaro
Soffrire, rifiutare, uccidere, risuscitare. Quattro verbi che Marco usa nella pagina domenicale del Vangelo che segna, in un certo senso, una svolta nel ministero di Gesù.
È l’inizio del suo ultimo viaggio verso il luogo del compimento delle scritture, il cammino da Cesarea di Filippo, nell’estremo nord del territorio palestinese, verso Gerusalemme. Un viaggio che Gesù compie senza incertezze e ripensamenti confidando nel Padre. Un pellegrinaggio che per la prima volta annuncia segnato da sofferenze, dalla morte, dal rifiuto e dalla riprovazione, il venerdì seguito dalla domenica di risurrezione.
Prima di soffermarsi sul passo evangelico, la lettura ci offre l’immagine del servo del Signore che non oppone resistenza e non si tira indietro: accetta di essere flagellato, offeso, insultato; non resta confuso, deluso: “il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”
In questo camminare verso Gerusalemme, Gesù mette alla prova i suoi discepoli, pone loro delle domande. Li sollecita a riflettere sul senso della loro esistenza, sulla persona che hanno davanti e che seguono: “ma voi, chi dite che io sia?” Ciò che interessa Gesù è capire se i suoi hanno compreso veramente. Non si accontenta di una conoscenza superficiale, di un approccio limitato. In un certo senso è l’immagine del servo del Signore che non oppone resistenza, che non si tira indietro.
Marco, in un certo senso, ama raccontare un Cristo che interroga, che pone domande; le stesse che Papa Benedetto offre alla riflessione dei fedeli venuti a Castelgandolfo per l’Angelus: chi è per te Gesù di Nazaret? E poi: la tua fede si traduce in opere oppure no?
Fermiamoci alla prima. Pietro da una risposta netta e immediata: “Tu sei il Cristo, cioè il Messia, il consacrato di Dio mandato a salvare il suo popolo. Pietro e gli altri apostoli – dice Benedetto XVI – a differenza della maggior parte della gente, credono che Gesù non sia solo un grande maestro, o un profeta, ma molto di più”. È la prima volta che Pietro, nel Vangelo di Marco, prende la parola e lo fa per dare una definizione che è un atto di fede: “credono [Pietro e gli apostoli] che in Lui è presente e opera Dio”. Ma la risposta è anche il momento per loro più difficile perché scoprono quei quattro verbi, scoprono che il Messia deve passare per la sofferenza e la morte, “deve patire e essere ucciso”. A questo annuncio di Gesù, Pietro si oppone, si ribella: perché deve, non potrebbe essere un’altra la strada da percorrere: “Gesù allora deve rimproverarlo con forza, per fargli capire che non basta credere che Lui è Dio, ma spinti dalla carità bisogna seguirlo sulla sua stessa strada, quella della croce. Gesù non è venuto a insegnarci una filosofia, ma a mostrarci una via, anzi, la via che conduce alla vita”.
Spiega Papa Benedetto che la via indicata da Gesù è l’amore, espressione della vera fede: “Se uno ama il prossimo con cuore puro e generoso, vuol dire che conosce veramente Dio. Se invece uno dice di avere fede, ma non ama i fratelli, non è un vero credente. Dio non abita in lui”. Ed è la seconda domanda che scende sui fedeli convenuti nel cortile della residenza estiva sui Castelli romani: la tua fede si traduce in opere oppure no? Si perché se la fede non è seguita dalle opere, è morta, come afferma san Giacomo. Con le parole di san Giovanni Crisostomo, uno dei grandi padri della chiesa, Benedetto XVI ci ricorda che “uno può anche avere una retta fede nel Padre e nel Figlio, così come nello Spirito Santo, ma se non ha una retta vita, la sua fede non gli servirà per la salvezza”.
È ancora san Giacomo che ci aiuta a comprendere meglio questo interrogativo: “se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno dice loro andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova?”
Chi è l’altro, il prossimo? Forse dovremmo porci questa domanda di fronte alla sofferenza di chi cerca un lavoro, ha bisogno di cibo. Chi è il prossimo, quando vediamo arrivare da paesi in guerra o colpiti tra tremende siccità, uomini e donne che hanno un colore diverso della pelle, un volto dai lineamenti orientali. Chi è il prossimo, quando con i nostri stili di vita consumiamo molto più del necessario. Chi è ancora il prossimo, quando ci troviamo a fare i conti con una crisi economica che ci tocca da vicino, ma che non risparmia nemmeno i popoli dei paesi in via di sviluppo; o forse hanno ragione i missionari quando parlano di paesi impoveriti anche dal nostro egoismo. Chi è il prossimo, quando settantatre eritrei sono lasciati morire di fame e di sete mentre tentano di attraversare il Mediterraneo per arrivare sulle nostre coste, dopo aver lasciato la loro terra in cerca di un futuro migliore, lontano dalla povertà: per la Banca Mondiale 280 milioni di africani vivono con meno di 75 centesimi di euro al giorno.
“Lo sviluppo è il nuovo nome della pace”, ricordava Papa Paolo VI. E Giovanni Paolo II ci chiedeva, nel messaggio del primo gennaio 1987, se “può esistere una vera pace, quando uomini, donne e bambini non possono vivere la loro piena dignità umana? Può esserci una pace duratura in un mondo regolato da relazioni sociali, economiche e politiche che favoriscono un gruppo o una nazione a spese di un'altra?”
Quando riflettiamo sulla fede e le opere forse dovremmo ricordarci di alcune parole che sono la sintesi della solidarietà umana: “Fate agli uomini tutto quanto voi vorreste che essi facciano a voi”. E allora comprenderemo meglio le parole che Papa Benedetto lascia al termine della sua riflessione domenicale: “Quando leggi nel vangelo: questa è la vita eterna, che conoscano te, l’unico vero Dio. Non pensare che questo basti a salvarci: sono necessari una vita e un comportamento purissimi”.
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1 commento:
lezione di giornalismo servizio della verità. Grazie
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